Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Effetti speciali a. C.

Un tuffo nel Lazio arcaico, a Lanuvio, zona Pantanacci (Colli Albani), dove si venerava Giunone Sospita e si ci bagnava nelle acque miracolose della Grotta del Serpente. Oggi reperti conservati al Museo Civico Lanuvino ci raccontano quei riti amministrati dai sacerdoti per alzare l’audience

Impastavano la farina di farro con l’acqua, sulla pietra cuocevano le focacce, poi in corteo, velate e bendate, le recavano alla Grotta del Serpente, dove sgorgava un’acqua miracolosa, non lontano dal tempio della dea più rispettata dalle donne, Iuno Sospita, Giunone Propizia. Il rito poteva concludersi festoso ma anche in modo nefasto. Perché se una fanciulla era impura, avendo perso la verginità, il serpente dimenandosi avrebbe preteso anche un sacrificio umano, il suo corpo. E l’anno sarebbe stato funestato dalla carestia. Invece se il mostro avesse accettato il dono delle focacce, prospero e abbondante sarebbe stato il raccolto.

Lazio arcaico, III secolo avanti Cristo. In una località sulla via Appia Vecchia e sulla linea dei Colli Albani, dove Ascanio si era diretto, fondando Albalonga, antenata di Roma. È a Lanuvio che Giunone Sospita era venerata, con festeggiamenti al culmine nel suo dies natalis, il primo febbraio. La cittadina è la più bassa della cerchia castellana, poco più di 300 metri di altitudine, un approdo facile per i viaggiatori. Ed è nella sua campagna, tra selve ancora rigogliose, che nel 2012 avvenne la scoperta che ha permesso di confermare e ampliare una pagina di antropologia e storia archeologica oggetto di studio anche per gli esperti del Louvre. In località detta Pantanacci, in un terreno privato, la Guardia di Finanza identificò uno scavo clandestino: una grossa fessura nella roccia entro la quale diverse sorgenti zampillavano. I “tombaroli” vi cavavano reperti in ceramica in parte dipinta con color nero, di dimensioni diverse: olle grandi e piccole, alcune impilabili come matriosche, e duemila oggetti votivi tra statuette muliebri e riproduzioni di parti del corpo: piedi, mani, facce, orecchie, falli, mammelle, vulve, mascherine con occhi, bambini fasciati e inediti cavi orali.

Perché, spiega Luca Attenni, direttore del Museo Civico Lanuvino dove queste vestigia del Latium Vetus sono state riunite ed esposte, le acque della grotta erano ritenute salutari, come tante di quelle che scorgano nella zona. E chi si riteneva guarito, ringraziava recando il simulacro del suo pezzo di corpo risanato dalla dea e dal serpente. Un pellegrinaggio al quale non si sottrasse neanche Cinzia, la donna amata da Properzio, il quale dedicò versi al luogo sacro. Descritto pure, in greco, da Eliano e più tardi, nel V secolo dopo Cristo, dallo Pseudo Prospero, a dimostrazione che il rituale pagano fu attivo ben dopo che Teodosio aveva decretato il Cristianesimo religione ufficiale dell’Impero e vietato tutti gli altri culti. Altra conferma che proprio la caverna di Pantanacci potesse essere la Grotta del Serpente è venuta da moneta recante su un lato la testa di Giunone, dall’altra il gigantesco rettile, peraltro nella cultura antica affiancato a Esculapio, il semidio cultore della scienza medica.

Dunque, la stipe votiva di Pantanacci molto chiarisce. Per esempio che la grotta del serpente era meta di pellegrinaggio pagano all’aperto, e che nelle vicinanze non esisteva altro tempio oltre quello di Giunone Sospita, fondato nel VII secolo avanti Cristo, che intriga i visitatori col suo lungo pronao ad arcate, sull’acropoli di Lanuvio. E che ancora in era cristiana calamitava credenti per un’immersione salvifica nelle polle minerali. Ma ciò che forse rende unico il luogo sono i tre grandi blocchi di peperino rinvenuti insieme con tutto il resto. Cilindrici, di dimensioni simili, “intarsiati” in superficie da incisioni che configurano il disegno di squame. Già, sono le parti del serpente lungo cinque metri che i sacerdoti, attorcigliando una corda agli incassi spiraliformi dei rocchi, riuscivano a far muovere sinuosamente. Un “effetto speciale” che alimentava la devozione delle vergini.

A Lanuvio ancora oggi è tradizione culinaria impastare la focaccia con il farro. Si chiama maza e si cuoce rigorosamente a legna. La sagra si tiene a inizio ottobre e i lanuvini sono fieri della discendenza diretta della loro pizza dal Lazio antico. Infatti il materiale presente nelle olle di Pantanacci, esaminato dagli esperti della Sapienza di Roma, è costituito da pollini del lievito madre di farro. Leggende e territorio, antichità e musealizzazione sono state raccontate da Attenni durante uno degli incontri che stanno animando dallo scorso dicembre il Wegil, il palazzo razionalista di largo Ascianghi a Roma rilanciato dalla Regione Lazio. Che narra se stessa anche negli appuntamenti tra storia ed eccellenza gastronomica. Agro Camera ha portato al Wegil Giuseppe Verri, artista, cuciniere e produttore che proprio nella sua tenuta agrituristica di Lanuvio prepara la maza recuperando la ricetta originaria e farcendola con ceci o cicoria, variazioni che non sarebbero spiaciute ad Apicio. Visita guidate a Pantanacci possono essere prenotate presso il Museo Civico Lanuvino. Qui, nell’ottica di museo diffuso, due sale – una attigua al municipio, l’altra all’interno della torre quattrocentesca del Castello di Civita Lanuvina – espongono i reperti della stipe votiva salvata dalla dispersione illegale nel mercato antiquario.

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