Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

L’ebreo “romanus”

Omaggio a Ludwig Pollak, studioso d’archeologia e mercante d’arte, che scovò il braccio del Laocoonte. La Città Eterna fu la sua fortuna ma anche il luogo della fine: dal Ghetto fu deportato ad Auschwitz. Roma gli rende onore con due mostre

Gli capitò un giorno del 1905, passeggiando a Colle Oppio, di entrare nella bottega di uno scalpellino. Rovistò con l’occhio esperto e scovò un frammento, un troncone di braccio piegato all’altezza del gomito. Lo acquistò, se lo portò a casa, lo studiò e non ebbe dubbi: era il braccio del Laocoonte, il gruppo scultoreo che nel ‘500 era stato nel nucleo fondante dei Musei Vaticani. Ecco chi era Ludwig Pollak, protagonista degli studi archeologici a cavallo tra Otto e Novecento, mercante d’arte, consulente dei maggiori collezionisti internazionali, da Carl Jacobsen, l’industriale della birra che fondò la Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen, al banchiere Usa John Pierpont Morgan agli agenti del Metropolitan di New York. Ma che fu anche nel giro degli intellettuali mitteleuropei e amico di Freud.

Roma, dove arrivò da Praga (qui, nel Ghetto, era nato nel 1868 da poverissima famiglia ebrea ma riuscì a formarsi a Vienna) e dove visse fino alla tragica scomparsa, fu la sua fortuna, favorita dall’instancabile studio dell’antico e dalla sensibilità eccezionale proveniente anche da una modestia condita di ottimismo. Cosa potrebbe infatti esserci di meglio per un esperto dell’antico se non la gloriosa Caput Mundi? E infatti Pollak amava firmarsi “Ludovicus Romanus”, quasi a citare quel “civis romanus sum” che esprimeva l’orgoglio di appartenenza all’Impero degli antichi quiriti. Ora Roma – a 150 anni dalla nascita – lo celebra, meglio, alza il velo sulla sua persona, preziosa per la Capitale – a lui si deve tra l’altro il riconoscimento de La Fanciulla di Anzio – con una mostra a cura di Orietta Rossini e Olga Melasecchi spalmata in due sedi: il museo della Scultura Antica Giovanni Barracco e il Museo Ebraico. Vi si espongono cento opere: non solo sculture, vasi greci, reperti che Pollak catturò durante la permanenza a Roma e in occasione di viaggi in terre lontane. Ci sono anche il suo ritratto e quello della seconda moglie, le foto della famiglia, dei tre figli affetti da malattie genetiche e tanto più adorati, delle missioni in Egitto e Medio Oriente, della fresca Capitale d’Italia sventrata per l’attivismo urbanistico dei Savoia e poi di Mussolini, rimodellata con la creazione dei Muraglioni sul Tevere, di via della Conciliazione, del Vittoriano, un enorme cantiere dal quale riaffioravano fior di capolavori. E ci sono i cimeli, le decorazioni ottenute per esempio dallo Zar di Russia. Il tramite fu l’ambasciatore russo Nelidow, grande ma improvvisato collezionista di oreficeria greca antica che Pollak organizzò in uno dei primi cataloghi scientifici del settore. Ancora, le maschere in bronzo collezionate dall’amico Freud che considerava l’archeologia simile alla psicoanalisi nel lavoro di scavo del profondo.

Seguendo l’exploit di Pollak nella Città Eterna prendiamo in mano il filo di Arianna dei rinvenimenti e scopriamo anche come si organizzasse il collezionismo e il mercato dell’antico. Ed è affascinante tracciare un itinerario dei suoi “luoghi deputati”, dove avvennero inattese scoperte. Nei primi anni, quando ancora non si era introdotto nei salotti della Belle Epoque, egli alloggiò in due appartamenti alle spalle del Campidoglio, affacciati sul Foro Romano come illustra con altrettante frecce su una fotografia, corredate appunto dalla scritta “qui abitavo io”. Quando poi divenne ricco grazie ai commerci di reperti (il Guerriero Ferito di Kresilas è oggi al Metropolitan di New York), si spostò prima a Palazzo Alberoni Bacchettoni, in via del Corso, in seguito abbattuto; poi a Palazzo Odescalchi, in piazza Ss. Apostoli, arredato come una galleria d’arte, con mobili, dipinti e antichità (tre quadri ora esposti, replicati nella foto originale dell’appartamento). Di qui se ne andava a via Gregoriana, per due motivi. Consultare i volumi della Biblioteca Hertziana nel bel palazzetto ideato da Zuccari (e dal quale fu espulso nel 1935 a causa della sua origine ebraica) e far visita al conte Grigorij Sergeevic Stroganoff (in mostra un suo ritratto) in un edificio attiguo alla Hertziana dove, prima del nobiluomo russo, abitarono Salvator Rosa, il Mengs, Ingres, Stendhal. Fu nella cucina di questa prestigiosa dimora che Pollak identificò, accantonata, l’Atena copia romana da Mirone. E che individuò come facente parte del gruppo scultoreo Atena e Marsia, la cui testa fa parte delle collezioni del Barracco. Che era un altro dei luoghi frequentati da Pollak. Anzi, ne divenne direttore alla morte dell’amico conte Barracco che aveva riunito la sua collezione di scultura antica in un edificio di corso Vittorio attiguo al Tevere, eliminato nel 1938 dagli sbancamenti del regime (l’attuale sede, la cinquecentesca “Piccola Farnesina” di Antonio da Sangallo il Giovane, è sempre in corso Vittorio ma all’altezza di Piazza San Pantaleo).

Forse però la passeggiata più elettrizzante Pollak la fece tra le botteghe del Rione Monti, intorno a quella via dei Serpenti dove era stato ritrovato il gruppo del Laocoonte (che appunto, circondato com’era dalle spire del rettile, diede il nome alla stretta strada). Infatti proprio in una di esse l’archeologo fu attirato da un moncone marmoreo. Senza pensarci troppo lo rilevò. Nel suo studio una serie di foto scontornate (le vediamo ora al Barracco) lo convinsero che si trattasse di un braccio ripiegato del Laocoonte. Vent’anni dopo donò al Papa quel frammento, che permise la esatta ricostruzione del gruppo marmoreo. La gratitudine di Pio X si manifestò con la Croce di Commendatore, per la prima volta conferita a un ebreo non convertito. Ma ancora di più avrebbe voluto fare il pontefice nel funesto 16 ottobre 1943, quando i nazisti rastrellarono il Ghetto e bussarono anche alla porta della famiglia Pollak. La Santa Sede gli offrì protezione, anche una vettura per sfuggire alla retata. Lui però rifiutò l’aiuto – il motivo rimane un mistero – subendo così la deportazione, con la moglie e due figli, nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Di Pollak l’ebreo “romanus” non si seppe più nulla. Restano, oltre al tanto esposto e conservato dei musei capitolini in seguito alla donazione della cognata alla città di Roma, i suoi 25 piccoli taccuini, vergati in corsivo Kurrent, in disuso dal ’45 e che quindi ora si stanno trascrivendo in tedesco per preservare osservazioni, rilievi e disegni effettuati tra il 1893 e il 1932. E resta, al Museo Ebraico, la sua Haggadà Prato, capolavoro dell’arte miniata spagnola del secolo XIV. Dal Ghetto di Praga a quello di Roma, l’alfa e l’omega del “raccoglitore di antichità classiche”.

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