Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

Sulle tracce di Chelidonia

Suggestiva arrampicata sui monti Simbruini, in pellegrinaggio tra i ruderi che ospitarono nel dodicesimo secolo, per sessant’anni, la monaca benedettina, prima eremita, che ora riposa nel monastero di Santa Scolastica a Subiaco

L’ascesa si affronta con le scarpe da trekking. Mezz’ora di lesto cammino all’ombra di lecci, querce, pini, un passo dietro l’altro su un sentiero costeggiato da ciuffi di salvia e origano selvatici. Gli scorci sono quelli della Valle dell’Aniene, di tanto in tanto i rami incorniciano la Rocca di Subiaco. Poi un’ultima salita, accompagnata da un corteo di cipressi. La meta sono ruderi possenti: arcate a sesto acuto, monconi di contrafforti in rude pietra. E una chiesina, protetta dalla roccia di una morra. Siamo nel versante dei monti Simbruini che sfocia a Livata, un’erta raggiungibile da Vignola, contrada sublacense sulla provinciale a mezza costa. Non si compie il “pellegrinaggio” soltanto per riempire il cesto di funghi. L’input è storico, artistico, agiografico. In questi boschi visse sessant’anni nel dodicesimo secolo Chelidonia, la prima eremita. Pioggia e fulmini li schivava sotto il tetto della Morra Ferogna, dove prima della nascita di Roma si venerava una dea della fertilità. Un bastone serviva alla futura santa per raggiungere il picco più alto. La tradizione narra che lassù in cima lo piantasse nella terra e, appoggiandovisi, ascoltasse la messa officiata dal Papa nella basilica lateranense. A noi è venuto il fiatone mentre gli orridi intorno consigliavano la massima attenzione su dove mettere i piedi. Lei, nata a Cicoli nel Reatino attorno al 1077 e lasciata a vent’anni la casa paterna, elesse i monti sull’Aniene frequentati 500 anni prima da San Benedetto a propria dimora. Rocce rossastre, venate di azzurro e bianco. Le dominava e perciò il suo nome, da Cleridonia, fu mutato in Chelidonia, che in greco vuol dire rondine.

Una sola volta abbandonò boschi e digiuno, tra il 1111 e il 1122: pellegrinaggio a Roma e al ritorno sosta a Subiaco dove vestì l’abito benedettino nel monastero di Santa Scolastica. Seguirono trent’anni di solitudine e preghiera nella grotta. Dove morì, tra il 12 e il 13 ottobre 1152, secondo le testimonianze degli abitanti del posto, che le recavano qualche nutrimento. E che otto anni dopo, finito il “periodo della grandine”, videro sorgere proprio tra l’intrico della Natura un monastero, voluto dall’abate Simone. In un’urna di marmo il corpo di Chelidonia fu trasportato qui da Santa Scolastica, dov’era stato inizialmente sepolto. Ma a inizio del ‘400 scorribande di soldataglie giunte dal contiguo Regno di Napoli toccarono il monastero. Papa Martino V lo soppresse, atto confermato un secolo dopo, negli anni del Concilio di Trento. Le strutture cominciarono a decadere, le spoglie mortali di Chelidonia trovarono definitiva sepoltura a Santa Scolastica. Ma la devozione popolare continua a renderle omaggio nel rifugio nascosto dalla Natura. Ex voto e un libro delle firme testimoniano nella chiesetta superstite e rimaneggiata il pellegrinaggio di fedeli e l’arrivo di qualche escursionista. Visite discrete, però, senza le sbavature commerciali che asfissano altri luoghi di culto.

A proteggere la suggestione del luogo è la sua inaccessibilità a quanti non siano abituati al cammino. Perché c’è anche un’altra “strada” che conduce qui. Assai più impervia e lunga: si tratta di discendere per 450 metri dalla sterrata a monte, tra Campaegli e Livata. La conquista del luogo è sofferta e soddisfacente perché gli angoli di visuale scoperti metro a metro si rivelano sempre stupefacenti. Intravedere quegli archi gotici e quei torrioni tra il verde più fitto equivale a un miraggio. «Ci parla di te, Chelidonia/ il rosso paesaggio di selci/ di rupi, caverne, fra gli elci/ alla Morra Feronia», recitano versi di un poeta locale sistemati su un leggio sotto lo sbiadito affresco che ritrae l’eremita indomita. E il ringraziamento autografo di un suo fedelissimo spiega l’attitudine di chi abita qui ad affrontare la montagna. Lo firma «Antonio Mancini di Risano, detto lo zampognaro» che giunse all’impervia meta per l’ultima volta nell’anno 2000, sfidando i suoi 87 anni.

Facebooktwitterlinkedin