Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

La Certosa che canta

A Padula, sulle orme di Giorgio Bassani, per ammirare uno dei più emozionanti beni del nostro Belpaese, massima espressione del barocco. A cui l’autore del “Giardino dei Finzi Contini” ha dedicato bellissime pagine, ora riproposte nel volume “Italia da salvare”

«La Certosa di Padula è rozza e potente e delicata». Così Giorgio Bassani, lo scrittore che fu anche tra i fondatori di Italia Nostra che diresse per quindici anni, dal 1965 al 1980. Il Grande Ferrarese curò per la Rai, della quale divenne vicedirettore, un ciclo tv intitolato “In difesa di”. Una delle trasmissioni fu dedicata alla Certosa, pietra miliare del Salernitano. E la trascrizione del testo della puntata – era il 1974 – è uno dei capitoli del fondamentale (fondamentale per chi ha a cuore il Belpaese, e nei piani alti del Potere non ce ne sono molti) Italia da salvare che Feltrinelli ha appena pubblicato e che raccoglie tutti gli scritti di Bassani nell’ambito della sua attività in Italia Nostra.

«Ed eccoci ora in cima alla torre campanaria – spiega l’autore de Il giardino dei Finzi Contini. Di qua si può avere una bellissima veduta non soltanto della Certosa, ma anche dei luoghi circostanti. Siamo al centro di una bellissima zona, ubertosa, ricca, si capisce soltanto a guardarla, la pianura del cosiddetto Vallo di Diano, che succede a quella di Battipaglia, di là dalle colline, ed è divisa dal mare dalle montagne del Cilento. Da questo lato vedete Padula, il villaggio, quello che chiamerei il borgo, perché in un certo senso la Certosa è il castello, un castello che in qualche modo si oppone, ma si rilega, al borgo, coevo e anche più antico di esso».

Quale anno fa, appunto in visita – in pellegrinaggio? tanto emozionale ed emozionante è entrare nella Certosa – mi avvicinò un giovane che si offrì come guida allo smisurato complesso, diventato monumento nazionale nel 1882 e cento anni dopo preso in carico dalla Soprintendenza Mibact di Salerno. Fu un accompagnatore spettacolare, la reificazione in forma umana delle architetture, degli arredi, degli scorci, del genius loci del convento campano. Si presentò come laureato in discipline umanistiche, sceso appunto dal borgo natio di Padula, dove passava la giornata da disoccupato, se non per il privato impegno di chaperon per i turisti, con compenso a loro insindacabile discrezione. Ebbene, quel ragazzo si trasformò, nella loquela e nella gestualità, in uno degli abitanti della Certosa: un erudito barocco che sapeva illustrare il sito con linguaggio maccheronicamente seicentesco, gonfio di iperboli, fantastiche descrizioni, favolistici incisi. Una macchina parlante adeguata alla “maraviglia”, fine ultimo delle arti del XVII secolo.

Perché la Certosa è appunto questo: la massima espressione del barocco, e per giunta del barocco campano, una fantasmagoria di effetti speciali, tra ori, stucchi, pavimenti intarsiati, fontane, scalinate, chiostri. Epperò la sua costruzione si spalma in quattro secoli, dal 1306 – la volle il conte Tommaso Sanseverino, per ingraziarsi i regnanti angioini e l’ordine religioso al quale la donò – al 1779, data certificata dell’ultima opera, lo scenografico scalone ellittico a doppia rampa di Fernando Sanfelice e del vanvitelliano Gaetano Barba. Uno dei simboli del monastero – patrimonio Unesco e fra i più estesi d’Europa – che così Bassani descrive: «Si tratta di una specie di straordinaria cassa armonica, d’inaudita bellezza. A salirla, o a scenderla, si ha l’impressione di abitare il ventre di un contrabbasso, di un violoncello. Tutto, qui, canta. Basta toccare il corrimano per rendersi conto della sensibilità tutta musicale di questa architettura. Basta dare un’occhiata ai meravigliosi, inauditi finestroni, per rendersi conto della sostanza aerea, musicale, del monumento».

Molto altro incanta: il chiostro grande – la Certosa ne ha tre – che domina le straordinarie proporzioni e ci fa sentire – è ancora Bassani a giudicare – «nel cuore della cultura del gran secolo di Luigi XIV e di Racine, il secolo della ragione e della chiarezza, dove tutto ispira armonia e perfezione formale»; oppure la chiesa, tripudio di decorazioni, dagli affreschi delle volte ogivali agli stucchi dorati, ai pavimenti di maioliche di Vietri, agli altari di marmo, alle madreperle, agli intagli nel legno degli scranni per i padri alla grata della cantoria dei conversi che divide in due l’unica navata. C’erano anche molti dipinti, firmati per esempio da Luca Giordano. Ma sono andati perduti nella razzia seguita all’invasione napoleonica, allorché i certosini furono cacciati e si inaridì il carisma del convento, non solo faro religioso e artistico, ma realtà economica che produceva vino, olio, frutta, ortaggi anche commercializzati (nel 1771 aveva 195 lavoratori, metà dei quali salariati). La Restaurazione riportò i religiosi, ma non si eguagliò più lo splendore toccato in precedenza, testimoniato anche dagli oltre ventimila volumi della Biblioteca. E la nascita dello Stato unitario condusse di nuovo alla estromissione dei frati e alla confisca del monumento, che sprofondò in cento anni di solitudine e polvere e fu anche usato tra le due guerre come campo di prigionia.

Molto incanta a Padula, si diceva. E molto altro affabula: la cucina è dominata dall’enorme camino centrale, come nel medioevo, con fornace decorate da maioliche. Si preparò qui una leggendaria frittata di mille uova offerta con molto altro a Carlo V, imperatore del Sacro Romano Impero che passò dopo il Sacco di Roma del 1527 per una autorevole ricognizione alle terre dominate. La Certosa di Padula è stata visitata nel 2017 da 87.626 persone ed è il decimo sito campano per numero di presenze. Circa 240 al giorno, 24 ingressi l’ora. Un’affluenza che non può soddisfare un bene tanto particolare, per giunta facilmente raggiungibile perché toccato dall’autostrada. Nel 2004 Achille Bonito Oliva, salernitano, accese i riflettori sul luogo ormai restaurato facendo delle 23 celle dei monaci di clausura che si aprono nel Chiostro Grande altrettanti atelier di artisti. Un’iniziativa che si replicò per alcuni anni e che ha lasciato il segno con opere donate da scultori e pittori del calibro di Sol Lewitt o Mimmo Paladino, ancorché criticata da Vittorio Sgarbi per la profanazione con il contemporaneo di un luogo nato nel nome di San Lorenzo (il primitivo appellativo del cenobio, peraltro a pianta in forma di graticola, allusione a quella del martirio del Santo) e per secoli sinonimo di preghiera e meditazione.

Anche Bassani lamentava la scarsa fama della Certosa. E lanciava una proposta: «Lo Stato italiano non dovrebbe lasciarsi sfuggire l’occasione di servirsi di questo manufatto eccezionale per qualche cosa di eccezionale (…) Perché non farne un gran museo archeologico sul tipo di Paestum? Un museo archeologico di grande interesse, non un deposito di rottami, non un magazzino, dove si accumulano cocci più o meno interessanti. Il piccolo museo archeologico che oggi trova stanza in alcuni locali vicini all’ingresso è un’iniziativa sicuramente lodevole (si tratta del museo archeologico della Lucania occidentale, istituito nel 1957, ndr), ma nella sua modestia contrasta con la vastità e l’importanza della Certosa. Occorre un minimo di fantasia. Vi si potrebbe organizzare anche un grandissimo archivio di tutta la storia dell’Italia Meridionale, che è così difficile ancora adesso da reperire. Niente di museografico in senso ristretto, niente di locale in senso miope, ma una grande iniziativa nazionale e popolare che ponga finalmente la Certosa di Padula al livello che le compete».

Era, ricordiamo ancora, il 1974.

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