Lidia Lombardi
Itinerari per un giorno di festa

La Madonna ritrovata

Calati i teli del cantiere da quindici mesi al lavoro sulla facciata di Santa Maria in Trastevere. Una stratificazione di generi, di epoche e di materiali che ha reso complicato il restauro ma che descrive bene il carattere spiccatamente “romano” della basilica trasteverina

«Ahò, finarmente la rivedemo, la madonna nostra». Al tramonto che più si fa aspettare, quello del Solstizio d’estate, congiungono le mani due anziane, mentre intorno l’estate romana è un bailamme di lingue, facce, odori d’amatriciana e musica verace, ancorché le vie tutt’intorno mostrino l’effetto spazzatura della movida. Piazza Santa Maria in Trastevere, il cuore del rione più frequentato dai turisti, ha però ritrovato la sua gloria. Da poche settimane e dopo quindici mesi sono stati smontati i ponteggi che nascondevano la facciata della chiesa più amata. E si completa l’immagine del monumento nella sintesi con il portico, il terrazzo, il timpano, il campanile. Così, quando sono calati i teli del cantiere, è successo il “miracolo”. «Tutti hanno alzato gli occhi, e stavolta – rivela ironico il parroco, mosignor Marco Gnavi – non per rintracciare il pallone finito sopra il portico».

Un intervento complicato, il restauro. Perché nella facciata – ed è questo che intriga – si sommano più epoche e più materiali. Al mosaico del XII secolo che corre per tutta la sua lunghezza si è unito il settecentesco portico disegnato da Carlo Fontana, e poi, a metà Ottocento l’intervento di Virginio Vespignani, architetto di Pio IX. Il quale commissionò a Silverio Capparoni le pitture che circondano il mosaico stesso. Ecco, «di tutto questo apparato decorativo i romani avevano perso la memoria – ha spiegato il soprintendente Prosperetti – tanto sbiaditi erano i suoi elementi. Una situazione di trascuratezza che coinvolgeva anche le quattro statue di travertino sopra il portico e la cancellata in ferro».

Mosaico e affresco, pur realizzati a distanza di secoli, formano un unico ciclo e attraggono l’occhio da lontano, fin dall’imbocco della piazza. Sotto le tessere musive che su sfondo dorato compongono la figura di una Madonna Lactans circondata da sante (o dalle evangeliche vergini sagge e stolte, secondo altra interpretazione), il dipinto riproduce un paesaggio punteggiato da palme e animali da pascolo, chiuso a destra e a sinistra dalle città di Betlemme e Gerusalemme. Sul timpano invece papa Pio IX si inginocchia ai piedi del Salvatore, che campeggia al centro circondato da angeli. «La documentazione preliminare non sarebbe bastata se sui ponteggi non avessimo avuto la conferma che il dipinto era stato realizzato in affresco – spiegano le restauratrici. Sull’intonaco ripulito abbiamo rinvenuto le incisioni derivate dai cartoni preparatori. In base a queste siamo riuscite a ricostruire le figure, molto dilavate nella parte più in alto». Ecco allora il recupero di certi verdi, ecco lo sfondo a quadratini, che simula le tessere del mosaico sottostante.

Allora si fa più suggestiva la visita alla basilica risanata (anche se ora il parroco è in cerca di sponsor per curare l’interno, specie la navata centrale sotto la quale “scorre un fiume carsico”). Perché la sua storia attraversa quella di Roma. Dice la tradizione che fu fondata da papa Callisto I nel secondo decennio del III secolo e ultimata da Giulio I negli anni 40 del IV. Ma quello che ora vediamo risale al XII secolo, quando l’edificio fu ricostruito per volere di Innocenzo II, utilizzando materiale di spoglio, marmi, capitelli e colonne, che in numero di dodici provengono dalle Terme di Caracalla.

Ci si rimise mano nel corso dei secoli, in un fa e disfa da tela di Penelope. Si chiusero le tre finestre ad arco sotto il mosaico, sostituite da una sola, quadrata, e da un occhio al centro del timpano. Nel 1702 l’intervento più radicale. Regnava Clemente XI e all’architetto superstar Carlo Fontana fu concesso di costruire l’attuale portico, pur sostenuto da colonne come il precedente. Sul frontone, salvando il mosaico medievale, aggiunge alle finestre cornici architettoniche aggettanti, in omaggio all’estetica settecentesca. Ecco infine la mano di Vespignani, in un Ottocento tardo romantico che si inchina al Medioevo: l’architetto fa riaprire le tre grandi finestre originali ad arco, ma soprattutto decora l’intera facciata attraverso l’opera pittorica di Capparoni, che circonda l’intero mosaico con i suoi paesaggi di Palestina, dipingendo ad affresco anche i salienti delle due navate.

L’interno è ancora una summa di arte capitolina sotto il soffitto ligneo disegnato dal Domenichino. Con il diapason dell’abside, dove campeggia il mosaico duecentesco di Pietro Cavallini: vi figurano Maria e Cristo in trono e ancora la Vergine è protagonista delle storie sottostanti. Tanta presenza iconografica della Madonna rende plausibile il collegamento della chiesa trasteverina con altri templi-chiave della storia di Roma. Nel Medioevo infatti la grande processione dell’Assunta partiva da San Giovanni in Laterano recando l’icona acheropita del Salvatore – miracolosa perché ritenuta non eseguita da mano umana – e dopo aver fatto tappa in Santa Maria Maggiore al cospetto della venerata immagine Salus Populi Romani e in Santa Maria Nova nel cuore del Foro, giungeva alla basilica trasteverina, dove appunto il volto del Cristo del Cavallini è simile a quello acheropita del Laterano. L’intreccio di tradizione, fede e arte è tipico delle stratificazioni culturali che Roma ci regala. L’altra suggestione è spirituale: sotto il mantello della Vergine da sempre trovano idealmente rifugio i trasteverini.

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