Elisa Bondavalli
Srebrenica ventidue anni dopo

Il cuore di tenebra dell’Europa

È una ferita ancora aperta quel massacro di musulmani bosniaci, iniziato l’11 luglio 1995, che è «uno dei peggiori tradimenti del genere umano». Una ferita acuita dalle condanne poco adeguate di Karadžić e dei caschi blu olandesi. E intanto il Tribunale dell’Aja non ha ancora emesso il verdetto contro Mladić, “il boia dei Balcani”

«E anche questo è stato uno dei luoghi di tenebra della terra…». (Joseph Conrad, Cuore di tenebra). Era l’11 luglio 1995 quando Ratko Mladić, generalissimo della repubblica separatista Srpska, entrava a Srebrenica con le sue truppe coadiuvate dai feroci gruppi paramilitari (quegli stessi che a Vukovar avevano sparato sui civili, malati e personale dell’ospedale compresi) finanziati segretamente dall’allora presidente serbo Slobodan Milošević. Nonostante la città fosse zona protetta delle Nazioni Unite, nel giro di 72 ore più di 8.000 bosniaci (ma le stime attuali arrivano fino a 10.000), di confessione musulmana e di età compresa tra i 14 e i 65 anni, vennero massacrati, i corpi gettati e occultati in fosse comuni disseminate in tutta la regione, sotto gli occhi impotenti (o conniventi, come farebbe pensare l’agghiacciante video in cui si vede il generale Onu Karremans brindare con Mladić) dei caschi blu olandesi stanziati là.

Sono passati 22 anni da allora, ma la ferita di Srebrenica è ancora aperta. I parenti delle vittime, quelle matres dolorosae sempre in prima fila a ogni processo, durante tutto questo tempo hanno continuato a lottare instancabili e a chiedere giustizia, anche quando questa sembrava non arrivare mai e, se arrivava, era parziale e insoddisfacente. Solo l’anno scorso è stato pronunciato il verdetto contro Karadžić, il presidente della repubblica separatista, l’uomo di paglia che agiva per conto del governo serbo e che ha sempre avallato le atroci imprese di Mladić: i campi di concentramento, i cecchini a Sarajevo che sparavano a vista sui civili assediati (per cinque interminabili anni!), la distruzione di intere città e comunità bosniache. Ma a un tal criminale non è stato comminato l’ergastolo, no, solo una condanna di 40 anni. Morirà in prigione, certo, ma questa non ci pare una ragione sufficiente, né accettabile. L’ergastolo (anzi, il pluriergastolo!) avrebbe significato ben altro: il riconoscimento della volontà perversa di annientare un’intera etnia.

Dopo la condanna a Karadžić, quest’anno è stata la volta dei caschi blu olandesi. Nel 2007 sempre le coraggiose Madri di Srebrenica avevano intentato causa all’Olanda ma la persero con la motivazione che le Nazioni Unite godono di immunità assoluta. Il 27 giugno scorso il tribunale di secondo grado dell’Aja, invece, ha riconosciuto le responsabilità del contingente olandese. Ancora una volta, però, si è trattato di una vittoria parziale e la sentenza ha di nuovo il sapore del compromesso. Il 13 luglio 1995 circa 300 musulmani di sesso maschile che avevano trovato riparo nella vicina Potočari, nel compound dei caschi blu, dopo essere stati costretti a uscire, vennero di fatto consegnati nelle mani delle milizie di Mladić che li passarono per le armi. I soldati Onu – recita la sentenza – non potevano non sapere che ubbidire all’ultimatum del generale serbo di evacuare il campo, significava affidare quei rifugiati ai carnefici che da ore procedevano allo sterminio. Tuttavia – si legge anche – non è certo che sarebbero sopravvissuti se fossero rimasti nel campo. Di qui la sanzione penale per lo Stato olandese «a versare un risarcimento pari al 30% dei danni subiti» da madri, mogli e figli di quei 300 uomini e ragazzi. Dopo il pronunciamento della Corte d’Appello, Munira Subasić, presidente dell’associazione Madri di Srebrenica, si è alzata in piedi, ha puntato il dito conto i giudici e ha gridato all’ingiustizia.

Resta però ancora aperta la questione più grave e più attesa, quella della condanna a Mladić. Latitante fino al 2011, fu arrestato grazie a una segnalazione anonima, dopo che era stato avvistato in più occasioni, perfino a Belgrado, allo stadio, mentre assisteva tranquillamente a una partita della sua squadra, la Stella Rossa (d’altra parte, in patria, per la maggioranza della popolazione, il generale è un eroe). Il processo contro il boia dei Balcani pareva non avere termine: oltre 400 testimoni e 11.000 prove documentali. A dicembre dello scorso anno finalmente la conclusione: su di lui undici capi di imputazione, tra cui genocidio, crimini contro l’umanità e violazioni delle leggi di guerra. Più l’accusa di quattro «imprese criminali congiunte» con i vertici politici e militari della repubblica Srpska: la pulizia etnica nell’intera Bosnia, la campagna di terrore nell’assedio di Sarajevo, il genocidio di Srebrenica, la presa degli ostaggi Onu. Il verdetto, però, non è ancora stato emesso. Si era parlato di gennaio, ora si rinvia a novembre 2017.

E la dilazione non induce all’ottimismo. Anzi. Ci fa pensare alle ragioni del libro-denuncia Pace e castigo. Le guerre segrete della politica e della giustizia internazionale della giornalista francese Florence Hartmann, ex inviata di Le Monde in Bosnia. Arrestata nel marzo dello scorso anno, in occasione della condanna a Karadžić, si è trovata nella situazione surreale di essere rinchiusa proprio vicino alla cella di Mladić (nella foto). L’accusa era quella di avere rivelato gli accordi segreti che il Tribunale penale per la Ex-Jugoslavia (Tpij) avrebbe fatto con la Serbia in cambio di documenti vitali per alcuni processi come quello di Milošević. Questo spiegherebbe i mancati ergastoli ai responsabili dei crimini in Bosnia.

Nel caso di Mladić, però, non si può e non si deve venir meno a una sentenza obbligata, come ha ben evidenziato il procuratore Alan Tieger al termine della sua requisitoria: «Qualunque condanna diversa da quella massima prescritta dalla legge – l’ergastolo – sarebbe incompatibile con la prassi del tribunale, un insulto alle vittime, vive o morte, e un affronto alla giustizia». Se la corte internazionale, che di fatto rappresenta l’Europa (la cui immagine esce già assai compromessa da queste vicende), non comminasse a Mladić la pena massima, compirebbe un oltraggio non solo nei confronti dei caduti e delle loro famiglie, ma un oltraggio nei confronti dell’intera umanità. Perché «ciò che avvenne a Srebrenica durante quei giorni del luglio 1995 – come ha scritto bene Emir Suljagić (in Cartolina dalla fossa. Diario di Srebrenica, Beit, Trieste, 2010) – è uno dei peggiori tradimenti del genere umano».

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