Leone Piccioni
Il metodo di Leopardi e di Ungaretti

Variantista ante litteram

Il libro di Paola Italia dedicato alle varianti delle “Canzoni” del poeta di Recanati, riporta alla memoria di Leone Piccioni e nostra il suo lavoro del ’46 sullo stesso tema, poi pubblicato da Vallecchi nel 1952. E anche quello sulla “Terra promessa”

L’articolo di Paolo Di Stefano “Leopardi corregge se stesso”, apparso su la Lettura del Corriere della sera domenica 28 febbraio, con una inter­vista a Paola Italia sul suo libro dedicato allo studio delle varianti nella poesia di Leopardi e particolarmente alla gran mole di varianti delle dieci Canzoni (Il metodo di Leopardi, Carocci editore), mi ha portato prepotentemente alla memoria il mio lavoro di variantista, molto attivo nei primi anni dei miei studi. Si dà il caso che la mia tesi di laurea discussa nel 1946 fosse proprio sulle varianti delle dieci Canzoni. Me la dette Giuseppe De Robertis nell’anno in cui lasciai Firenze per venire a Roma, Giuseppe Ungaretti la confermò e fu relatore alla mia laurea. Sapegno era presidente della Commissione. Furono molte le domande a me rivolte sugli usi e i metodi delle varianti, con molto interesse, vorrei dire con molta curiosità per un tema così insolito: una discussione calda e pacata. La mia laurea andò bene. Questo nel ’46.

leopardi infinitoNel ’52 presso Vallecchi pubblicai il libro Lettura leopardiana e altri saggi. Per quanto riguarda le dieci Canzoni, dopo un capitolo che esaminava l’importante risultato degli interventi variantistici di Leopardi, pubblicai in appendice un fitto appa­rato di venti pagine in cui esaminavo, si può dire scrupolosamente, i vari metodi di lavoro di Leopardi: fissavo la ricerca della “non ripetizione” nello stesso componimento e rispetto a composizioni diverse; registravo le varian­ti che si susseguivano su una medesima iniziale oppure quelle che tendevano a una attenuazione del linguaggio polemico e altre ancora. Qualche breve esempio: per il verso 6 di Alla primavera, prima di congedare la dizione “pallido” ci si ferma sulla i: “insanguinato, inorridito, irato, infame, impallidito, intenebrato” e passando alla a: “attonito, afflitto, attristato, abominevole, atroce” e ne lascio ancora altre. Per l’attenuazione del lin­guaggio poetico nell’Inno ai patriarchi, al verso 53 si scartano “immon­da, ingorda, scarna, smunta, macra, stolta, insana, indegna, improba, tetra, sorda, torva, prava, trista, oscena, smorta”. Si potrebbe seguitare, tanto più che i versi delle dieci Canzoni che ho esaminato per studiarne le varianti sono più di 600.

Pubblicando questo apparato io pensavo che sarebbe potuto essere utile agli studiosi che si mostrassero eventualmente interessati a un tipo di proble­ma come questo. Vero è che il mio libro non si poteva e non si può certamente trovare nelle librerie, ma si poteva e si può certamente, a chi interes­si, trovare nelle biblioteche.

Nel corso dell’intervista a la Lettura, Paola Italia accenna giustamente e brevemente, come è necessario fare in un incontro giornalistico, a un dibatti­to intenso che ci fu con De Robertis e Contini da una parte e Croce dall’altra: i primi due sostenevano l’importanza dello studio delle varianti (e io totalmente, come si può vedere, la pensavo come il mio maestro De Robertis e come l’amico Contini), il terzo invece li considerava “scartafacci”.

Prendiamo l’inizio della Sera del dì dì festa. Composta nel 1820, appare nelle prime edizioni del Canzoniere così:

Dolce e chiara è la notte e senza vento
e queta in mezzo a gli orti e in cima a i tetti
la luna si riposa, e le montagne si discopron da lungi
O donna mia…

(Aveva iniziato, assai peggio: Oimè, chiara è la notte…).
Una sola piccola variante nell’edizione del ’31 con un secondo verso che diventa e queta in mezzo a gli orti e sopra i tetti, ma nell’edizione napoleta del ’35 finalmente l’ultima edizione:

Dolce e chiara è la notte e senza vento
e queta sovra i tetti, e in mezzo agli orti
posa la luna, e di lontan rivela
serena ogni montagna. O donna mia…

Come si fa di fronte a una tale splendida risultante da un processo variantistico parlare di “scartafacci”? Si pensa a una nota di Leopardi negli Appunti e ricordi: «Veduta notturna colla luna e ciel sereno dall’alto della mia casa, tal quale alla similitudi­ne d’Omero…». Nell’ultima edizione Leopardi ha trovato che il punto di osservazione, il motore del paesaggio è la luna, che non si “riposa”, ma “posa”. (E viene in mente il «parea posar come persona stanca» nella Morte di Laura del Petrarca).

Giuseppe-UngarettiUn lavoro variantistico assai lungo e difficile lo ebbi per le varianti ungarettiane della Terra promessa o meglio della “Canzone” che apre il libro di poesie (Nude le braccia di segreti sazie...). Eravamo nel 1948. Ungaretti aveva vissuto lungamente in Brasile, ma in questo soggiorno non riuscì a scrivere neppure una poesia. Ma tenne però una specie di grosso brogliaccio dove segnava alcuni versi, poi a distanza altri versi, note, indicazioni di lavoro, schemi diversi e sovrapposti che formavano un fitto percorso di ricongiungimenti e di separazioni. Ungaretti mi affidò questo brogliaccio nel ’48 e io, come potei, riuscii a dare un ordine a tutti i versi, decifrati in quel tumulto di parole, e agli schemi. Dirò in breve che Ungaretti approvò il mio lavoro e decise di utilizzarlo come prefazio­ne alla Terra promessa uscita da Mondadori nel ’50, confermandola poi nel “Meridiano” Mondadori con tutte le poesie. Si trova nell’edizione del ’69 che curai io e in quella di Ossola del 2009 (la mia edizione durò dunque per quarant’anni). Questi libri si possono trovare sia in libreria che nelle biblioteche.

 

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