Lidia Lombardi
La Domenica: itinerari per un giorno di festa

A casa di Olimpia

Liberata dai bancarellari sostituiti con una Befana solidale, Piazza Navona si riappropria (ma ancora non del tutto) dei suoi spazi e delle sue gemme, che sono lì per essere ammirate. Come Palazzo Pamphilj, antica dimora di una chiacchierata dama romana…

Piazza Navona quest’anno è diventata un caso. Per un vizio del bando di concorso, vinto dal torbido trust dei bancarellari, il commissario Tronca ha bloccato il bailamme della tradizionale fiera. E via il rosario delle polemiche, con Lega e Forza Italia in gramaglie per l’allontanamento dei “presepari”. E con gli ambulanti sul piede di guerra. Niente da fare. Il successore del sindaco Marino ha detto no ai consueti occupanti della piazza. E però ha detto sì a diciotto ong che in questi giorni e fino al 6 gennaio mettono su i loro stand: ci sono i volontari della Croce Rossa che con un bambolotto steso sui sampietrini mostrano come si rianima un bambino; e poi Amnesty, Unicef, Amref, Greenpeace, Sant’Egidio, in nome di una Befana solidale in tempi di Isis. Ebbene, chiamatemi pure oscurantista, ma io vorrei che nell’antico stadio di Domiziano trasformato quindici secoli dopo in salotto barocco non ci fossero né baracche né burattini, pur dai nobili scopi. Che, insomma, lo spazio dilatato dell’agone, nel quale gareggiavano imperiali imbarcazioni, rimanesse sgombro, a mostrare le architetture – fontane, palazzi, chiese – così come furono concepite, col rispetto dei vuoti e dei pieni, delle armonie urbanistiche create nei secoli.

Piazza NavonaAlla vigilia di Natale – prima della sistemazione degli stand delle ong, i soliti bianchi tendoncini stile giardinetto in condominio – piazza Navona si è mostrata proprio così. Nessuna “barriera” effimera a impedire la vista dei primi piani dei palazzi, con la fila di ciclamini bianchi e rossi su balconi e finestre. Libere dall’assedio delle bancarelle le panchine in marmo, praticabili perciò a chiunque volesse sedersi per guardare, che so?, la fontana del Bernini o le cupole di Borromini, il capriccio architettonico di palazzo Braschi o lo scorcio di Palazzo Madama, sullo sfondo di corso Rinascimento. Nel cielo azzurro, quell’azzurro malato di polveri sottili, palloncini colorati richiesti a gran voce dai bambini. In fondo, un’antica giostra a cavalli. E una Natività, allestita in una capanna di legno, con statuette provenienti dal Museo del Presepio “Angelo Stefanucci” situato presso la chiesa dei Santi Quirico e Giuditta. L’ambientazione è nella Roma del 1800, anno giubilare. Una scenografia che, avverte una didascalia, riproduce la scomparsa via Capocciuto, al Ghetto, ma che accosta monumenti ancora esistenti, coma la fontana di Piazza San Simeone lungo la vicina via dei Coronari, e, maestosa sul fondale, la Cupola di San Pietro. Peccato che un vetro, a protezione delle statuette pregiate (le suore “cappellone”, un cardinale in portantina, il caldarrostaio, lo scrivano, oltre ovviamente alla Sacra Famiglia sistemata in un angolo, all’ombra di un balconcino) impedisca con i riflessi un’agevole osservazione del presepe e, ai turisti, la possibilità di scattare foto. E peccato anche, intorno alla antica giostra, sei/sette bancarelle da luna park, con gli usurati giochi del tiro al bersaglio o della pesca delle paperelle. Meglio comunque della rivendite di cianfrusaglie pacchiane che per decenni, queste sì, hanno snaturato la tradizione della piazza di ospitare i “presepari”. Che erano diventati pochi, soffocati dai rivenditori di paccottiglia cinese, di sciarpe giallorosse o biancazzurre, di cd, copritelefonini, fermagli, anellini, braccialetti e via elencando.

Palazzo PamphiliInsomma, evviva – passatemi la rima da slogan – piazza Navona senza movida cafona. Che non significa morta, perché l’abbiamo vista piena di bambini, di famiglie di tutti gli accenti, da quello veneto a quello siciliano, per non dire degli spagnoli, dei francesi, degli americani, dei russi, dei polacchi, dei tedeschi. Una piazza senza fronzoli pacchiani, che non le servono perché è costellata di gemme. Talvolta non conosciute, offuscate dalla fama nazionalpopolare della fontana dei Fiumi e di Sant’Agnese. Ne segnaliamo una, proprio accanto alla chiesa, anzi, con una porta interna che nella chiesa si affaccia. È Palazzo Pamphilj, un tempo la dimora di donna Olimpia, la più chiacchierata signora romana, quella che Pasquino spernacchiava col motto “Chi dice Olimpia Maidalchina dice donna, danno e rovina”. L’edificio è summa di storia e arte capitolina, ma è territorio straniero. Appartiene al Brasile, che lo ha comprato nel 1960 (in quell’anno a Palazzo Chigi si succedettero da premier Tambroni e Fanfani, ministri di Esteri e Difesa la coppia Segni e Andreotti) dopo averlo affittato dal 1920 per insediarvi l’ambasciata. Insomma, c’è aria di bossa nova nel palazzo realizzato tra il 1644 e il 1650 da Girolamo Rainaldi. Ma la vicinanza tra Roma e Brasilia – che proprio nel 1960 divenne capitale – testimoniata dai tanti italiani emigrati laggiù rende i proprietari custodi gelosi dell’immobile, ovviamente vincolatissimo dai Beni Culturali.

Olimpia«Quando manca la luce o si ferma un ascensore diciamo che c’è lo zampino del fantasma di donna Olimpia», sorride l’addetta culturale che ogni martedì aspetta i visitatori prenotatisi sul sito del Centro di Cultura brasiliano. Uno scalone porta al piano nobile e subito ci si imbatte nel ritratto di Olimpia (Olim pia, rideva in latino il popolo della arrampicatrice che sposò Pamphilo Pamphilj e grazie al suo patrimonio tanto brigò da portare sul soglio pontificio il cognato, Giovanni Battista, papa Innocenzo X). È un piccolo olio, nella prima sala del palazzo che proprio il pontefice Pamphilj volle sui vecchi terreni di proprietà, per dar lustro alla famiglia. Il quadro quasi scompare sotto la magnificenza del soffitto e del fregio affrescato da Andrea Camassei con le Nozze di Bacco e Arianna. Olimpia è raffigurata vecchia, capelli bianchi e sguardo spento. Tanto lontana dalla “papessa” che influenzava la Curia al punto da giustificare la diceria che del Pontefice fosse l’amante. Si ritirò nelle sue terre del Viterbese quando Innocenzo X morì. E il figlio Camillo, avuto in dote dalla sposa Olimpia Aldobrandini il fastoso edificio Doria Pamphilj di via del Corso, svuotò quello di piazza Navona. Degli arredi originali rimangono solo quattro specchi istoriati nel salone di rappresentanza. Rimandano i riflessi del soffitto a cassettoni, con al centro la tiara papale e il simbolo di famiglia, la colomba con ramoscello d’ulivo, leit motiv che ricorre in tutte le decorazioni della dimora. Della quale poi, a causa del lungo abbandono, non si sa molto. Per esempio solo durante un restauro recente in un tinello sotto il controsoffitto si è scoperto un affresco raffigurante le quattro Virtù, forse di Pier Francesco Mola. È attiguo alla Sala Palestrina, concepita da Francesco Borromini con un ovale sul soffitto che funge da tamburo acustico, dove Arcangelo Corelli tenne moltissimi concerti.

S’accende la fantasia nella scenografica galleria affrescata da Pietro da Cortona con le Storie di Enea. C’è di nuovo la mano dell’architetto ticinese in questo spazio dilatato. Confina con la chiesa di Sant’Agnese. Innocenzo X apriva la porta alla quale abbiamo accennato sopra e assisteva alla Messa. Lì è sepolto. Ma un finestrone contornato da stucchi dorati permette alla Galleria di affacciare anche sull’esterno, appunto piazza Navona. Godetevi la vista quando non è invasa dagli stand.

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