Lidia Lombardi
La Domenica: itinerari per un giorno di festa

La via dell’olio

Tour da Roma a Latina alla scoperta di frantoi dop che applicano le più moderne tecniche di produzione. Tra storia e leggenda, a partire da Gaeta, dove un nave perse un carico di olive che rimanendo a bagno nell’acqua di mare rivelarono il loro sapore

Una catena lunga di montagne, aspre sulla pianura che porta al mare e che per secoli, fino alla bonifica dell’agro pontino, era palude. È la catena dei Volsci, composta dai Lepini, gli Ausoni, gli Aurunci: dalle propaggini della provincia di Roma a quella di Latina corrono paralleli alla costa e arrivano fino a Gaeta. Quando digradano verso valle hanno filari di viti e di kiwi, ma mentre la vetta si fa più vicina sono un ininterrotto tappeto di sempreverdi ulivi. Già, anche in questo Lazio del Sud e non solo in Sabina o nel Viterbese prospera la pianta nata, racconta il mito, là dove Atena conficcò la sua lancia. Al punto che da Gaeta ai dintorni della Capitale si può tracciare una via dell’olio, come ha mostrato, nei giorni scorsi, un progetto della Camera di commercio di Latina in collaborazione con quelle di Viterbo e Rieti e sotto l’egida della Regione Lazio, culminata venerdì scorso al Palaexpò in una Giornata Internazionale Lazio Terre dell’Olio nella quale i produttori hanno portato le loro produzioni dop.

Andare a rintracciare il frantoio che molisce le olive coltivate nei terreni circostanti, veder sgorgare dalla lavorazione dei frutti l’olio color verde mela, dal sentore di rosmarino o di pomodori acerbi è incontrare una fetta di questo nostro Paese capace di stupirci nonostante le continue offese subite da chi lo governa. La via dell’olio dei Volsci, per esempio. Il viaggio alla scoperta dei frantoi può far tappa in luoghi speciali di Storia, natura e architettura.

olio oliviaEcco Roccamassima, il comune più alto della provincia di Latina, leggendaria patria di Ponzio Pilato, ottocento metri sul livello del mare, 1200 abitanti in cima a una frangia rocciosa dei Lepini. A mezza costa, il Frantoio Olivia: un’azienda nata nel 1977 in una tenuta di 17 ettari nella quale si coltiva la nobile oliva Itrana, che dà tre/quattromila litri d’olio all’anno e 500 quintali di olive da tavola. «Le mettiamo in salamoia, ed ecco le famose cosiddette olive di Gaeta – spiega Sara Del Ferraro, che manda avanti l’azienda con la madre – tutte della stessa qualità e specie, dal Golfo a Itri e appunto al nostro territorio. Prendono il nome da una leggenda secondo la quale una nave proveniente dalla Grecia perse il carico di olive al largo di Gaeta: rimaste a lungo nell’acqua salata del mare, quando furono ripescate divennero tipiche del luogo. Tipiche e genuine, a differenza delle olive verdi giganti, che subiscono un processo chimico di sbiancamento». Nel casale col soffitto a capriate i contadini scaricano le ceste piene di frutti. Subito vengono lavati, privati delle foglie e immessi nell’impianto a ciclo continuo: grandi frangitoi chiusi che non permettono l’ossidazione e garantiscono l’igiene, riducono le olive in pasta; poi la forza di una centifruga divide l’olio dall’acqua e dalla sansa, l’osso. Da un tubo sgorga l’extravergine, tale se ha un’acidità non superiore allo 0,80 e parametri fissati di perossidi. La sansa diventa invece il nocciolino, ottimo combustibile per caldaie a biomasse. «Se l’olio è amaro, ringraziate chi ve lo ha dato», è scritto su un muro bianco nel reparto molitura. «L’extravergine pregiato è quello dell’oliva ancora verde, che si raccoglie fino a novembre-dicembre», spiega Del Ferraro.

Dall’azienda lo sguardo spazia sui colli dirimpetto. Oltre ai quali Norba – l’urbs preromana con una possente cinta di mura, porte, templi – e il più bel giardino del Lazio, Ninfa, tra le rovine di torri e cattedrali del Medioevo, fiera città dei Papi nel feudo dei Caetani. Un giardino all’inglese impiantato ai primi del Novecento, che in primavera è una tavolozza sconfinata di colori ma che adesso rosseggia ancora delle rose e delle camelie, ha i fiori viola della lavanda e della salvia, quelli gialli della mahonia, mentre sui tronchi batte ritmico il picchio e l’acqua intona armonie a seconda che scorra nel verde fiume Ninfa o che si incunei in ruscelletti e piccole cascate. L’anfiteatro dei monti propone in alto, oltre a Norba, la medievale Norma, e più lontano Cori, che fa il pane più buono della provincia. Più a valle Sermoneta, con la rocca dei Caetani e la cinta delle mura. Allo scalo, un uliveto di quindici ettari, nato ai primi del Novecento, insieme all’agrumeto. È la tenuta Palombo, con un frantoio che lavora dal 2013: estrazione dell’olio a freddo con impianto a ciclo continuo per l’etichetta “La valle dell’Usignolo”. «Raccogliamo da ottobre a metà dicembre – spiega Giobattista Palombo, il più giovane della famiglia – e quest’anno le nostre tremila piante ci daranno 40 mila litri d’olio, tutto da monocoltura, l’Itrana».

olio casale san giornioPiù a nord, tra Aprilia e Ardea – la città di Turno, il re dei Rutuli, caratteristica per lo sperone di tufo e ricca di resti archeologici – il Casale San Giorgio ha sperimentato un nuovo tipo di coltivazione, intensiva: gli olivi, di origine spagnola, sono a filari, bassi come le viti e agganciati con rami e foglie ai sostegni. «In questo modo possiamo utilizzare le macchine per l’irrigazione, la potatura, la raccolta. In tre ore si possono prelevare dalla pianta 70/80 quintali di olive, che vengono immediatamente molite. La meccanizzazione di tutti i procedimenti permette una produzione maggiore ma non va a scapito della qualità» – spiega il patron Alessandro Federici. «Riusciamo a lavorare subito i frutti, e ciò evita ogni processo di ossidazione e garantisce la qualità dell’extravergine. Così si opera in California e in Tunisia e ritengo che questo sia il futuro dell’olivicultura: si produce un ottimo olio italiano e si fronteggia la concorrenza». Si chiamano Maestrale e Ponentino le due etichette di Casale San Giorgio. Che con l’olio fa pure cioccolatini, patè e creme cosmetiche.

E gli altri itinerari dop del Lazio, tour che mostrano come si fa l’extravergine? C’è quello Canino, lungo il vulcanico territorio farnesiano (Artena e Ischia di Castro, Cellere, Farnese, Tessennano, Tuscania e Montalto di Castro dove la coltivazione fu avviata dagli Etruschi); quello della Sabina, in una tradizione che risale a duemila anni fa (poco lontano dall’Abbazia di Farfa vegeta l’olivo più antico d’Europa); quello della Tuscia, 53 comuni in provincia di Viterbo nei quali l’olivo rappresenta la coltura più diffusa, insieme alle nocciole. La dieta mediterranea è servita.

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