Vincenzo Nuzzo
Un libro da rileggere

Un fado per Emma

«O Santo da Montanha» dello scrittore ottecentesco Camilo Castelo Branco è una sorta di anti-Bovary portoghese sospeso tra mistero morboso e cinico realismo

Vi è una Lisbona tutta solo letteraria. Che parla per mezzo dei suoi libri. Dunque anche attraverso di essi si può raccontare un luogo. Raccontarlo attraverso l’unico modo in cui esso poteva colpirci personalmente. Fare reportage non è forse proprio raccogliere in cisterne questa così strana pioggia?

E però si viene colpiti solo in quello che si fa. Io, che sono quasi solo un lettore insaziabile ed onnivoro, un compulsivo della lettura, un esploratore di giungle di libri, non potevo che essere colpito per mezzo di questo. I libri. Soprattutto vecchi libri da bancarella. Lisbona, come Parigi e Torino ne abbonda. Ebbene, ognuno di essi reca stampata sulla sua copertina soprattutto il profondo mistero di un tortuoso passato aperto ad un destino dai percorsi in qualche modo già segnati. È così che il libro si lascia sempre incontrare, ci intercetta, ci attira nel vortice irresistibile della sua orbita. Per qualcuno, anche diversi pensatori, è il «Progetto divino su di noi…».

Insomma è proprio così, credo, che i libri ci raccontano la storia di un luogo. Ed insieme anche dove un luogo ha intenzione di spostarsi sfruttando le proprietà magnetico-dinamiche appunto dei suoi libri. E così ora Lisbona viene a voi per mezzo di me (umile servo) e di un grande libro del grandissimo Camilo Castelo Branco. Lisbona e, come sempre, i luoghi piccoli e grandi che da sempre le orbitano intorno. Questo libro ha un titolo impressionante: O Santo da Montanha (Parceria A-M. Pereira, Lisboa 1972).

Castelo Branco è uno dei più famosi scrittori del XIX secolo luso, ma sembra proprio che questo suo libro nessuno lo conosca. Un caso, dunque, che sia caduto nelle mie mani su una bancarella do Chiado, per raccontarsi a me e poi ri-raccontarsi a voi?

Castello Branco è uno di quegli autori che operarono a cavallo tra il Romanticismo ed il Verismo, per cui nei suoi libri c’è sempre un po’ del morboso mistero del primo e dell’amara e cinica sobrietà del secondo. Ma questo libro, credo, porta veramente all’acme questa mistura. Perché è una storia condotta sul filo di quel tragico che lo spirito luso ama moltissimo specie nella forma del destino (Fado) ‒ ora mi viene il dubbio : che siano elleni per davvero? Ma soprattutto è una storia in cui il destino tragico si incarna in un personaggio che è anche un tipo antropologico e spirituale.

È quello che io da molto tempo mi ostino a definire come «l’inerme».

L’inerme è qui il giovane Dom Balthasar Pereira da Silva, fidalgo piuttosto povero di quel di Olarias, rustico paesello di montagna. Il suo alter ego amoroso è una specie di Madame Bovary, la bella quanto insidiosa Dona Mecia, figlia di Lopo Vaz Sampaio, di Ansiães, altro paesello montano di Trás-os-Montes (prossimo al confine castellano), ultimo discendente di una famiglia di governatori dell’India ormai impoveritasi e decaduta. Il terzo incomodo è un altro fidalgo e del più nobile sangue luso, Dom José de Noronha Gamboa e Távora, di Alijó. Ricchissimo e potentissimo, ma assolutamente sanguigno e tutt’altro che di buone maniere. Anzi un vero cafone! Tra i due giovani vi è un’amicizia di cacce e vagabondaggi a cavallo, che l’incontro con la fatale D.Mecia porterà a distruzione. I due amici sono stati sempre molto diversi. Balthasar un uomo profondo e malinconico,  sognatore e tendenziale solitario. La sua passione è perdersi nei boschi per settimane andando a caccia. L’altro è un vero e proprio misto di Pantagruel e Calibano. Uno che vive intensissimamente ma solo alla superficie. Amante di cavalli, uccisore di tori ed in amore uno che va assolutamente al sodo. Il disgusto ed antipatia reciproci che subito nascono tra lui e D.Mecia lasciano dunque immediatamente intuire futuri inquietanti scenari. Balthasar cade invece in pieno nella trappola tesa dalla bellezza studiatamente ritrosa, discreta ed esangue della ragazza. Dietro le quali è chiaro da subito che si nasconde ben altro, e cioè uno spirito ordinario, gretto e calcolatore. «Questa donna è vile», dirà Balthasar quando di colpo gli occhi gli si apriranno sull’orrore. Ed infatti la vera D.Mecia era una donna da nulla, svenevole, falsa, avida e senza scrupoli. E qui fatalmente entrerà in scena José, che nello spazio di poche ore, mentre intanto l’altro si ritirava nei boschi a covare il suo dolore, si trasforma da suo amico fraterno in rivale amoroso. Così José chiede la mano di D.Mecia ed il padre Lopo Vaz tocca il cielo con un dito. Perché con i soldi del genero potrà finalmente rimettere in sesto le fortune della famiglia. Era questo il progetto del quale vilmente ed obbedientemente D.Mecia era complice. Da qui in poi Balthasar resterà nell’orbita dell’amico francescano Frei António de Cristo, in gioventù ritiratosi in convento guarda un po’ anche lui per una cocente delusione amorosa. «Meus preságios!», diceva sempre Balthasar.

Ma qui il romanticismo gotico e demoniaco inizia a gettare la sua sinistra ombra sui personaggi e la vicenda. Sullo sfondo appaiono infatti cose come l’Hoffmann di Elixiere des Teufels con il suo monaco dal sosia (Doppelgänger) assassino e l’inquietante monaco estatico di Caspar David Friedrich. Balthasar si rifugia nella promessa di pace di una vita da religioso ma non può fare a meno della sua sete di vendetta. Così, dopo aver per un po’ ripreso a vagare nei boschi cacciando (mentre chiede a Dio di mettere fine alla sua «disperata esistenza» ), finisce poi per tornare ad Ansiães per ammazzare Josè. Poi va in convento da António, che sa e dispera sempre più per l’anima dell’amico. «Disgraziato» senza speranza, dice. È la definizione della sostanza stessa della sua vita. Potrebbe ancora spegnere il suo odio e vivere almeno santo, ma non può. E così va avanti finchè sull’isola di Funchal, finirà per ammazzare anche D.Mecia. Sparandole dal cortile del convento francescano di laggiù. E poi gli resta solo un arido, desolato e vuoto «Onde está Deus?». Ma la sua vita subisce di colpo un rovesciamento prodigioso (come in Hoffmann). Viene rapito da pirati algerini e laggiù diverrà il ricco e felice Ali-Fendi. Una figlia verrà, mezza lusa e mezza algerina, che egli adorerà con tutte le sue forze. Sperimenta insomma quella strana Vendetta divina che è Misericordia. Come accade nella Croce. Ma, veleggiando di nuovo verso le coste luse, una palla di cannone sparata dal forte di Foz gli porterà via Lindaxara. E così giungerà per lui il tempo dell’espiazione. Infine morrà dopo essersi ritirato da eremita in un campicello nei pressi del convento di António. Risanato dalla preghiera e dalla santità. Ma nell’ora della morte lo visiterà ancora il fantasma di Mecia. Le conclusioni di Castelo Branco? Eccole : «E più nulla. La pietà congettura che Balthasar si salvò. Io non congetturo un bel nulla. Ma a Dio nulla è impossibile».

Nel bel mezzo di questa intricatissima ed avvincente vicenda vi sono spunti di meditazione davvero fulminanti. Eccone solo alcuni. L’immagine assolutamente romantica della Donna come «angelo in carne» («messaggera dei mondi stellati»). L’amore per la quale è amore per Dio. Sempre lasciva Dea Madre, padrona di vita e morte e castratrice (fata dalla bacchetta magica rivelante il serpente), è anche insieme colei che serba «non inquinata» una «parte del cielo», rivelatrice dell’«infinito». Ella rivela Dio «al sole della terra». Così la contempla il sognatore affacciato per notti inteso al parapetto del ponte, la cui anima è divisa tra due incanti, quello dei cori dei monaci e quello delle indicibili tenerezze sensuali e profumate della notte estiva.

Romanticismo morboso e melenso? Forse. Misoginismo? Forse. Lo stesso in Flaubert.

Ma in che senso? Nel senso che la Donna è in sé un profondo mistero. La Donna è molto più che una donna. Per questo essa è per alcuni uomini molto speciali strumento del destino. Uomini destinati a passare per l’amore  terreno proprio per scoprire in sé stessi il germe terribile della santità, ovvero di quell’Amore divorante che prima di elevare sempre devasta. Riempie il cuore di lacrime e prepotente «trasborda dall’anima». Ma con questa stessa violenza esso lotta contro l’altrettanto divorante Odio. E non sempre vincendo. Entrambi ci rivelano la vanagloria di un uomo che è fango («barro»). È solo nel cuore e nell’anima dell’Inerme (da questo marchiato), la donna che lo perde. L’altra, quella vera, è una creatura come lui, inoffensiva ed innocente. Il Fuoco brucia in lui e solo in lui. Ed è solo per esso che egli può perdersi o raggiungere le estreme vette della comprensione del reale. Giungendo a vivere i suoi giorni al costante cospetto dell’Invisibile.

Un libro come questo risuona fatalmente nel cuore e nell’anima di chi in qualche modo è un Inerme. E con esso risuona anche Lisbona con tutti i suoi profondi e misteriosi significati.

Mostruoso e salvifico Destino! Fado!

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