Giovanni Piccioni
A proposito delle celebrazioni per Gruppo 63

Venerati Maestri

Sedici giorni di letture poetiche, spettacoli teatrali, esecuzioni musicali e una mostra a cura di Achille Bonito Oliva per il cinquantenario della formazione intellettuale che ha «rivoluzionato il panorama letterario degli anni 60». Ma un testo anonimo pubblicato sul programma che presenta la manifestazione all'Auditorium di Roma, suscita indignazione... Ecco perché

Gruppo ’63 63×50 è il titolo della manifestazione in corso all’Auditorium Parco della Musica di Roma dove i poeti aderenti a quella formazione intellettuale, che avrebbe «rivoluzionato il panorama letterario degli anni 60», sono per ben 16 giorni (dal 18 ottobre fino al 3 novembre) «interpretati in un’intensa cornice musicale e visiva» attraverso letture poetiche, spettacoli teatrali, esecuzioni musicali e una mostra a cura di Achille Bonito Oliva dal titolo tutt’altro che modesto di Arte Totale, in cui sono rappresentate opere selezionate tra quelle più rappresentative dei diversi «linguaggi sperimentati o attraversati». Queste celebrazioni per i cinquant’anni dalla formazione di Gruppo 63 (prodotte dalla Fondazione Musica per Roma in collaborazione con Mlac – Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea, Università La Sapienza, Maxxi – Museo Nazionale delle Arti del XXI secolo, Gnam -Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea) sono annunciate nel programma della stagione sinfonica dell’Auditorium – certamente seguito da molte persone, una buona parte delle quali probabilmente non conosce bene la realtà culturale espressa nel secolo scorso dal nostro paese – da un testo non firmato e quindi anonimo lungo poco più di undici righe. Già l’assenza della firma dell’autore di questo scritto e il suo contenuto stesso potrebbero indurre a una serena indifferenza. Ma, leggendolo, qualcosa all’interno dell’animo di chi conosce davvero e ama la cultura italiana del secondo Novecento perché l’ha sentita, vissuta e compresa (limitiamoci al periodo in cui il Gruppo 63 riscosse assensi ed entusiasmo presso una certa critica e un certo pubblico e divenne così à la page) insorge e vuole fare chiarezza, senza lasciar passare sotto silenzio quel testo così difficilmente definibile.

SanguinetiLo scritto che proclama la rivoluzione del panorama letterario italiano operata dagli artisti del Gruppo 63 espone i seguenti frettolosi pensieri: «Cinquant’anni fa una generazione impegnata nelle lettere, nella musica e nelle arti si era trovata di fronte al compito esaltante di interpretare un paese nuovo che esigeva nuove parole, nuove forme, nuovi suoni. Di lasciare al macero un passato provinciale, cinico, bigotto, fatto di compromessi e sopraffazione, egoismo e cialtroneria. Di attingere alle nuove idee e energie che si sviluppavano dovunque in un mondo in trasformazione. Le manifestazioni in programma all’Auditorium ripercorrono l’esperienza del Gruppo 63 che a Palermo mezzo secolo fa ha riunito giovani scrittori che hanno avuto un ruolo determinante nel rinnovamento della letteratura italiana: Alberto Arbasino, Nanni Balestrini, Umberto Eco, Luigi Malerba, Giorgio Manganelli, Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti e altri. La messa in scena dei rapporti e delle collaborazioni con musicisti e artisti loro contemporanei propone il quadro di un periodo straordinario, che potrebbe offrire, soprattutto ai giovani, esempio e esortazione a uscire dalla (refuso) mortificante stallo in cui si trova oggi la cultura italiana». (Tale associazione si scioglierà nel ’68, l’anno successivo Sanguineti si candiderà alle elezioni alla Camera nelle liste del Partito Comunista – che scelta viscerale e intellettualmente retrograda! – e il suo impegno politico aumenterà sempre di più).

Dopo aver letto quanto sopra, la prima cosa che viene in mente è l’Articolo 21 dei Principi Fondamentali della Costituzione della Repubblica Italiana, che nella Parte Prima Diritti e Doveri dei cittadini, relativamente al Titolo 1 Rapporti Civili afferma che «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione». È grazie a questo articolo, vigente in questo paese dal 1948, a questa libertà (che altrove, nei paesi a regime stalinista ad esempio, i quali pare abbiano fornito non pochi motivi d’ispirazione a poeti e narratori sperimentali, non sarebbe stata altrettanto garantita) che l’anonimo ha potuto scrivere quanto abbiamo riportato in questa nostra presa di posizione indignata e polemica. Ma di fronte a questo testo ci si chiede se stiamo parlando di veri e propri pensieri, cioè di riflessioni, di opinioni, di giudizi motivati e validi oppure del frutto inatteso e sorprendente di una crassa ignoranza della vita culturale italiana del secondo Novecento (limitiamoci a questo periodo) che accompagna una inaudita falsificazione dei valori artistici e letterari che hanno dato forma ai sentimenti e ai concetti che fecero grandi quegli anni.

Essendo impossibile una disanima puntuale ed esauriente del numero quasi incalcolabile di poeti, narratori, artisti, uomini di teatro e registi cinematografici attivi in Italia dal 1950 alla fine del secolo, scusandoci per i molti autori di valore tralasciati, ci limiteremo a una sintetica rassegna, dopo aver tentato di comprendere cosa si intenda dire con le espressioni «paese nuovo» e «mondo in trasformazione». Il periodo 1958-1963 è quello del “miracolo economico”, del “boom”, quando l’Italia conosce la rivoluzione industriale, che causa un mutamento di stili di vita. La nuova generazione assume comportamenti, modi di vestire (si pensi alla minigonna) e di pensare (la concezione della sessualità) nuovi, scopre la televisione e anche la musica leggera cambia. A questi anni si avvicineranno, in modo diretto, poeti, narratori, artisti del tutto indipendenti dal Gruppo 63.

Arte totaleFacendo un passo indietro di molti anni e pensando alla poesia di Sanguineti che Daniele Piccini definisce «interamente ed esclusivamente intra-linguistica», e che abolisce del tutto la storicità dell’esperienza, Pirandello, alla fine del primo decennio del secolo, sostiene la contraddittorietà insita nel reale e che l’arte contemporanea si basa sulla scomposizione della realtà, sulla disarmonia e la dissonanza, diversamente dai nostri abituali e quotidiani abiti mentali: il reale è al centro della sua scrittura. Ma probabilmente una delle confutazioni più stringenti delle tesi del Gruppo 63 è contenuta in una tutt’altro che semplice riflessione di Eliot che va riportata per esteso: «Nessun poeta, nessun artista di qualsiasi arte ha il suo completo significato in uno spazio esclusivamente proprio. Il suo significato, il suo apprezzamento deriva dall’apprezzamento della relazione con i poeti e gli artisti morti. Non può avere un significato a sé stante… ciò che accade quando una nuova opera o arte è creata è qualcosa di simultaneo che accade con tutte le opere d’arte che la precedono». Queste parole implicano l’aborto dell’idea di avanguardia o di sperimentalismo, se si pensa all’antistoricismo della lingua antipoetica, al suo isolamento e all’abolizione della storicità che distinguono il tipo di scrittura di un Sanguineti.

Qui, per una forma di onestà intellettuale che vogliamo mantenere anche in questa polemica (una qualità che non si riconosce nell’autore, quasi un fantasma, delle undici righe citate) bisogna dire che, come risulta da una lettera di Luciano Anceschi a Ungaretti del 1956 e da un’intervista a Sanguineti realizzata da Giuliano Galletta, pubblicata dal Secolo XIX nell’ottobre 2009 (entrambe contenute in Giuseppe Ungaretti, L’Allegria è il mio elemento. Trecento lettere con Leone Piccioni, a cura di Silvia Zoppi Garampi, Oscar Mondadori), il giudizio di Ungaretti su Laborintus di Sanguineti, edito nel 1956 a cura di Anceschi per la casa editrice Magenta, fu entusiasta. Il grande poeta volle appoggiare la raccolta di Sanguineti al Premio Viareggio, il quale, forse in un modo non del tutto equilibrato, dichiarò che Ungaretti probabilmente amò le sue poesie perché gli ricordavano le avanguardie che aveva frequentato a Parigi.

In Laborintus contano il poundismo, la psicoanalisi, il pluringuismo e una metrica atonale e gestuale. Il linguaggio si disgrega e si riferisce alla musica di Berio e di Cage, alla pittura informale di Pollock, Fautrier e Rothko. Ma poi, nel ’64, con il Purgatorio, la scrittura inizia a ripiegarsi sul quotidiano e sul diarismo. Si vede che lo sperimentalismo è destinato a finire rapidamente. La poetica, invece, continua a proporre il binomio ideologia-sperimentalismo che verrà presto rifiutato dalla poesia successiva, la poesia contemporanea italiana. Infine l’Orlando furioso diretto nel ‘69 da Luca Ronconi, è il frutto della collaborazione di Sanguineti con il regista e propone una simultaneità di scene e labirinti rappresentativi in cui si dipana l’intreccio, mentre il pubblico interagisce con gli attori. Detto questo, il capitolo sull’influsso “rivoluzionario “ che Sanguineti avrebbe esercitato sul panorama letterario italiano, ammesso che mai ci sia stato, si può definire concluso.

UngarettiIl quadro effettivo della cultura espressa dal nostro paese che i “novissimi” avrebbero rinnovato in “un periodo straordinario” e rispetto al quale, al giorno d’oggi, potrebbero offrire un esempio e un’esortazione rivolti ai giovani per uscire dallo “stallo mortificante” di cui sarebbero vittime è, a grandi linee, quello che comincia dai grandi “vecchi” ancora attivi in quegli anni. Giuseppe Ungaretti pubblica  Les Cinq livres, text francaise etablì par l’autor et Jean Lescure, Parigi 1954, Il Taccuino del Vecchio, 1960, Dialogo del 1968, il Meridiano Mondadori Vita di un uomo, settembre 1969, e inoltre opere in prosa, saggistica, epistolari, premi internazionali e traduzioni (Shakespeare, Gongora, Mallarmé, Racine, William Blake). E questo fa parte del «passato provinciale, cinico bigotto» ecc. ecc.? Dopo Ungaretti almeno alcune righe su Umberto Saba, morto nel ’57, sei anni prima dell’apparizione “risolutiva” dei novissimi. Poeta dalla vita assai tribolata a causa delle persecuzioni razziali (era di origine ebraica) e di gravi disturbi nervosi, legato da profonda amicizia sia a Ungaretti che a Montale, i quali lo protessero a rischio della vita, ha dato la sua impronta all’opera di Comisso, Quarantotti Gambini e Sandro Penna. Si sottopose a una terapia psicoanalitica ma, quando la sua poesia era già largamente ricosciuta, si convertì al cattolicesimo e volle essere battezzato. Negli ultimi mesi di vita, mentre era ricoverato in una clinica di Gorizia, lavorò a un romanzo pubblicato postumo, Ernesto, che affronta in modo veritiero il tema dell’omosessualità. Basta questo per capire il suo rapporto con l’avanguardia.

Adesso Eugenio Montale: la conoscenza delle lingue straniere e della poesia di T.S. Eliot assumono una grande rilevanza per la sua opera poetica. Una volta, in una “Intervista a se stesso” tiene a precisare che «la condizione umana non è tanto questo o quello avvenimento storico, ma la coscienza con cui va distinto l’essenziale dal transitorio». Xenia è del 1966, come La farfalla di Dinard, Satura del 1971, poi viene il Diario del ’71 e del ’72. Il Premio Nobel per la letteratura gli viene assegnato nel 1975. Classificarlo nella categoria del «passato provinciale» anche in questo caso mi pare un pervicace travisamento della realtà.

Vincenzo Cardarelli pubblica le sue  Opere complete, curate da G. Raimondi nel 1962, le Invettive e altre poesie disperse nel 1964. La sua è una poesia lineare, che risente dell’influsso di Baudelaire, Nietzsche, Leopardi, Pascal, legata a ricordi passati espressi in una lingua discorsiva e impetuosa. Conobbe la solitudine, pur frequentando al caffè alcuni amici, e in una poesia che intitolò Adolescente scrisse che «la fanciullezza fa ruzzolare il mondo, e il saggio non è che un fanciullo che si duole di essere cresciuto». Cosa di più lontano dall’avanguardia può esserci di queste parole?

mario LuziDopo il saggio di Carlo Bo Letteratura come vita, si era sviluppata, fra gli anni Trenta e Quaranta, la poesia ermetica, chiusa e complessa, ricca di analogie difficilmente interpretabili. I modelli sono i grandi francesi: Mallarmé, Rimbaud, Verlaine, gli italiani Ungaretti, Quasimodo e Montale e una espressività vicina a Rilke, Eliot, Lorca, al simbolismo di Pascoli e al surrealismo. La poesia è attimo, puro frammento. Rifiuta ogni impegno politico e sociale e si stacca nettamente dal fascismo. Bilenchi, Vittorini, Gatto e Pratolini assumono posizioni antifasciste. Fra i teorici e critici ermetici vanno ricordati Oreste Macrì,  Giansiro Ferrata, Luciano Anceschi, Piero Bigongiari, che unisce l’attività saggistica a una significativa pratica poetica e Luzi. Quest’ultimo, in quella fase pubblica tre raccolte (Onore del vero, Dal fondo delle campagne e Su fondamenti invisibili) segnate da una forte inquietudine. Un paesaggio aspro e scarse presenze umane denunciano un’esperienza del vivere amareggiata dall’insensatezza che vi scopre. Nominato senatore a vita da Carlo Azeglio Ciampi, dopo la morte, nella basilica di Santa Croce a Firenze è stata posta una lapide in sua memoria. Anche qui cinismo, provincialismo, bigottismo, compromessi, sopraffazioni, egoismo e cialtroneria, secondo quanto scrive gratuitamente l’anonimo? Accanto a Luzi come non ricordare Caproni che nel 1965 pubblica Congedo del viaggiatore cerimonioso e nel 1975 Il muro della terra, il Sereni degli Strumenti umani,1965, Bertolucci, che negli anni Sessanta lavora alla Camera da letto, il Betocchi dell’Estate di San Martino,‘65, Parronchi, che nei suoi innumerevoli versi scrive del dramma che scaturisce dalla constatazione della finitezza della vita e dall’aspirazione all’eterno. Cosa c’è di «certo» e di «bigotto» in questi poeti e nelle loro opere?

L’attività di Pasolini è troppo intensa e varia per essere restituita a sufficienza. Ricordiamo i versi de La religione del mio tempo, Comizi d’amore, un film documentario, una sorta di inchiesta sulle opinioni degli italiani in merito alla sessualità, l’amore, il buon cotume, la morale vigente nel nord e nel sud del paese. Verranno poi i versi di Poesia in forma di rosa, il Vangelo secondo San Matteo e Uccellacci e uccellini, che affronta il tema della crisi del Partito comunista e, più in generale, del marxismo. Nel ’68, gli scontri di Valle Giulia fra la polizia e gli studenti di Architettura a Roma gli ispirarono la poesia Il P.C.I. ai giovani, che scatenò una forte polemica non del tutto spenta. Il poeta rivolse agli studenti l’accusa di essere i protagonisti di una falsa rivoluzione, solo dei borghesi conformisti, “figli di papà” in cerca della guerra civile.  Questa parte dell’opera di Pasolini, sostanzialmente contemporanea ai “novissimi” che, comunque la si giudichi, ha avuto molta risonanza per quanto riguarda le sue forme espressive e il suo contenuto, non tiene mai presente il Gruppo 63.

gruppo63I “novissimi” con il loro estremismo incidono davvero nello sviluppo delle esperienze principali del secondo Novecento, che hanno sciolto ormai il legame ermetico e simbolista? La loro antologia del ’61 propone orientamenti diversissimi. Il capofila del movimento, Sanguineti pare basarsi essenzialmente su una carica ideologica quasi ossessiva che trova un suo collegamento con l’indirizzo politico di alcune riviste, una fra tutte “Quindici” (1967-1969). Nasce così una vulgata d’“avanguardia” di massa, come si è detto, molto à la page. L’editoria viene in pratica occupata, chi è lontano da quel verbo vive in modo periferico, mentre i maestri e gli autori che stanno per affermarsi restano indifferenti allo sperimentalismo e alle sue idiosincrasie politiche. Raboni non ha niente a che fare con loro e in uno scritto del 1966 prende seccamente le distanze dalla sterilità del movimento, registrabile ad esempio in Balestrini. Analoga è la situazione di Giudici. Sembrerebbero più vicini alla nuova avanguardia Amelia Rosselli e Andrea Zanzotto. Ma il terreno su cui si muove la Rosselli è del tutto personale, e la sua lingua insegue le variazioni di una psiche dolente. Zanzotto invece, che esordisce negli anni Cinquanta, adotta una lingua che ingloba tutti i possibili sviluppi della sua scrittura dalla quale non evaderà mai. Quindi la sua è una concezione della poesia come evento autonomo, del tutto priva degli intenti polemici dell’avanguardia.

La generazione post-sessantottesca, quella responsabile, secondo l’anonimo, del “mortificante stallo” odierno esige un’alternativa ai dettami della neo avanguardia e alla sua svalutazione del fatto letterario a favore della prassi politico-contestataria. Dopo aver citato Piersanti, Cesare Viviani nel 1993 pubblica L’opera lasciata sola, un testo per capitoli narrativi con una chiusa filosofico- narrativa che aprirà il ciclo sulle opere successive. In Roberto Carifi poesia e filosofia convivono e danno luogo a una produzione molto vasta. L’attività del poeta inizia negli anni Ottanta, grazie all’amicizia con Piero Bigongiari e alle traduzioni di Hesse, Rousseau, Racine, Bataille, Trakl e Simone Weil. Dopo un’esperienza psicoanalitica (andò a Parigi per seguire le lezioni di Lacan), ha abbracciato il pensiero buddista. Grande estimatore di Heidegger, conosce a fondo anche il pensiero giapponese zen. Tra le sue numerose raccolte ricordiamo Casa nell’ombra (Almanacco Mondadori 1993) e i più recenti L’essere e l’abbandono, (Il ramo d’oro, 1997), Nomi del Novecento (Le Lettere 2000), fino all’ultimo Il monaco e la luce (Le Lettere 2013). Sorge il dubbio più che fondato che il vero provinciale sia l’autore che c’invita ai sedici giorni della celebrazione della neoavanguardia.

Giuseppe Conte inizia a tradurre dall’inglese, a comporre versi e a scrivere l’abbozzo di un romanzo ispirato a Sterne durante il liceo. Omero, Shakespeare, Goethe, Foscolo, Shelley e, successivamente, Mallarmé, Baudelaire, Lawrence e Henry Miller sono i suoi riferimenti. Il processo di comunicazione secondo Sade (’75) e L’ultimo aprile bianco (1979), ricompreso ne L’Oceano e il Ragazzo (1983), contengono la riscoperta di miti e teorie estetiche che appaiono come una risposta alla negazione della letteratura dei predecessori, dei teorici della dissoluzione della parola poetica. Il vitalismo del primo Novecento, ad esempio quello di D’Annunzio, la celebrazione dell’energia naturale di Lawrence, la riproposizione di culture vinte e travolte dal razionalismo dell’Europa moderna (gli Atzechi, gli Etruschi) rappresentano la riscoperta del sacro e della natura. Nel 1994, assieme ad altri poeti, fra i quali Roberto Carifi, pronuncia sul sagrato di Santa Croce un discorso che è la rivendicazione del primato etico e spirituale della poesia. Ferlinghetti, Mary de Rachewitz, Mario Luzi e Zeo Xingian gli inviano messaggi di adesione. Anche qui provincialismo, “mortificante stallo culturale”?

Roberto MussapiMilo De Angelis pubblica Somiglianze nel 1976, raccolta in cui confluiscono l’esperienza del simbolismo e quella del paesaggio metropolitano di matrice lombarda, mentre Biografia sommaria è del 1999, e due anni dopo esce l’autoantologia Dove eravamo già stati con una nota di Eraldo Affinati. Ha tradotto dal francese Blanchot, Baudelaire, Maeterlinck, De Vigny, Dieu La Rochelle. Roberto Mussapi, poeta, drammaturgo, autore di saggi e opere narrative è anche un traduttore molto prolifico. Docente di Drammaturgia all’Università Cattolica, ha lavorato per Radio Rai e diretto la collana “I poeti “ di Jaca Book. Scopre in età precoce La terra desolata di Eliot, i libri di mare e di avventure. Il poemetto con il quale esordisce nell’81, s’intitola Il sonno di Genova e ha la prefazione di Mario Luzi. Piero Bigongiari, due anni dopo, presenterà le poesie di Luglio nel nome, apparse sull’“Almanacco dello Specchio”. Sarà Luce frontale (1987), a imporlo all’attenzione della critica. Alla sua produzione teatrale appartengono Villon, Voci dal buio, La grotta azzurra. Antartide, del 2000, vuole essere un poema epico, genere assente nella moderna poesia italiana, e mette in essere una concezione ampia, nella quale trova posto l’allegoria del Novecento, secolo sconfitto dalla paralisi del pensiero negativo a cui l’autore contrappone la celebrazione dell’umano. Maurizio Cucchi dà alle stampe Il disperso nel ’76: è un sorta di romanzo in versi sulla morte del padre, immagine che sarà presente in modo ossessivo nella sua produzione successiva. Nell’Ultimo viaggio di Glenn (’99), questa morte si rivelerà un suicidio. L’impossibilità di nominare e affrontare la tragedia determina un modo di sfiorarla riempiendo la pagina di un catalogo di oggetti utili a colmare il vuoto. Donna del gioco rappresenta l’inizio di una seconda maniera, di un dettato limpido dal respiro lirico L’ultimo Cucchi chiude il suo percorso con un abbassamento sull’insensatezza del quotidiano.

Nel 1980 esce da Feltrinelli Ora serrata retinae di Valerio Magrelli (ottimo francesista), un esordio che mostra una consapevolezza tecnico-letteraria quasi impassibile e che adotta una parola netta e cristallina. Sia Raboni, che introduce una raccolta precedente, che Siciliano, nella prefazione alla raccolta principale di Magrelli esprimono ammirazione per questo esordio e sono colpiti dalla metaletterarietà dei testi. Al segno quasi sospeso tra silenzio e parola si collega l’evocazione del sonno, del riposo serale della calcificazione del corpo nel letto. L’intera realtà si trasforma in un quaderno che la controlla e la domina. La fattualità, la vita in se stessa non appartengono a questa scrittura che si dedica esclusivamente alla ricerca del meccanismo della conoscenza. Sia l’avanguardia che i suoi oppositori (ad esempio Bellezza) sono del tutto ignorati, e Magrelli si affida a una tecnica metrica e sintattica invidiabile e trasparente. Ne deriva un senso di razionale claustrofobia, un ripiegamento della parola sul suo formarsi, che diventa l’oggetto quasi esclusivo della sua poesia.

L’esordio di Alessandro Ceni avviene nel 1981 con Il viaggio inaudito, opera stilisticamente e concettualmente compiuta, avvio di un discorso poetico che si conserverà ciclico. L’essenza tragica che sta al centro del flusso poematico si configura come emanazione di una potenza arcaica e tirannica. Il dettato si fa impersonale e l’irruenza del magma esistenziale è incondizionata e trascina con sé anche l’Io poetante. Il soggetto altro non è che un apparecchio registratore di una quantità indefinita di eventi al di fuori della sua portata. L’impersonalità coincide con un discorso privo di riflessione, senza un intermediario. L’enallage e l’ipallage destrutturano la linearità comunicativa, e l’ordine discorsivo ricerca una diversa significazione. Il mondo esterno, nonostante la scienza e la tecnologia resta irriducibile ed enigmatico. Per Ceni il contemporaneo è arcaico e nel ciclo delle trasformazioni è riconoscibile l’immutabilità. La raccolta di tutte le sue poesie s’intitola Parlare chiuso e risale al 2012. Come saggista è l’autore di La sopra realtà di Tommaso Landolfi. Ha tradotto per grandi editori Coleridge, Poe, Milton, Oscar Wilde, Stevenson, Conrad, Lewis Carroll, Lawrence, Melville, Whitman, Dickens e altri. Oltre che poeta è pittore. Il testo che ha suscitato la nostra indignazione è divenuto ormai simile a una di quelle foglie morte di cui parla una malinconica canzone francese.

CalvinoPer concludere il discorso sulla poesia contemporanea, anch’essa del tutto estranea al Gruppo 63, chi scrive trova assai stimolanti le considerazioni di Daniele Piccini, il quale sostiene che non vi è crisi della poesia, ma semmai della sua “esistenza sociale”. La crisi comunicativa aperta dalla nuova avanguardia, in quest’ottica, non manca di una sua grave responsabilità. Passando a una selezione molto sintetica dei narratori nei quali ha rilievo la riflessione sulla società contemporanea ci limitiamo a parlare di quattro scrittori particolarmente impegnati nell’analisi di quel “mondo in trasformazione”(tralasciando i nomi consacrati di Tozzi, Gadda, Landolfi, Bilenchi, Emilio Cecchi forse il nostro maggiore critico letterario e scrittore in prosa e inoltre quelli di Soldati, Flaiano, Tobino, Moravia e Parise), di cui parla con tanto trasporto il già citato anonimo autore. Incontriamo così Italo Calvino, sempre ispirato a un razionalismo non ideologico e che non ha mai condiviso l’impostazione del Gruppo 63. Le prime cosmicomiche vanno in stampa nel ’61, nel ’71 scrive Gli amori difficili e nel ’72 vince il Premio Feltrinelli. A cominciare dall’80, ispirato dall’amico Quenau, è alla ricerca del luogo d’incontro fra letteratura e scienza. Nell’85 comicia il lavoro alle Lezioni americane.

Paolo Volponi inizia a pubblicare nel 1962 con il Memoriale, che narra la contrapposizione operai-imprenditori. Nel ‘65 esce La macchina mondiale, storia di un proprietario terriero accusato di violenza domestica dalla moglie, che contiene una concezione del mondo in cui l’uomo viene controllato, con piacere o con sarcasmo dagli dei che lo hanno creato. Nel ’74 esce Corporale, un lungo romanzo in cui il protagonista dopo le esperienze negative vissute in fabbrica e in città, vuole a tutti i costi conquistare la realtà. Volponi è sempre rimasto estraneo agli autori a lui non congeniali, anche se  politicamente anch’essi schierati, ma stilisticamente poco convincenti. Ottiero Ottieri pubblica nel’59  Donnarumma all’assalto, il suo libro più celebre. Il protagonista è un disoccupato disposto a tutto pur di avere un posto nella fabbrica aperta dall’Olivetti nel sud. Ottieri coglie tra i primi il contrasto tra il progresso tecnico e materiale e l’arretratezza culturale del meridione d’Italia. Consacrato come pioniere della letteratura industriale, pubblica sul “Menabò” alcuni brani del suo diario, che nel ’63 uscì integralmente con il titolo Taccuino industriale. Luciano Bianciardi collaboratore di “Belfagor”, dell’“Avanti”, de “Il Mondo” e de “Il Contemporaneo”, si interessò alle lotte operaie e, dopo un’inchiesta sui minatori della Maremma, partecipò alla creazione della Feltrinelli. Traduttore di Jack London, William Faulkner e John Steimbeck, nel suo capolavoro, La vita agra, espresse la  sua rabbia verso il mondo e la società “economicamente miracolosi”, riscuotendo un ampio successo di critica e di pubblico.

Nessuno del Gruppo 63 ha mai scritto niente di paragonabile alle opere appena citate, relative a quel “paese nuovo” che, secondo il più volte citato anonimo, avrebbe saputo interpretare svolgendo così un “compito esaltante”. Ma la narrativa italiana seguita ad avere un proprio sviluppo senza subire la benché minima influenza dalla così tanto considerata attività  dei novissimi. Ci limitiamo ad accennare a tre scrittori contemporanei. Marta Morazzoni, ricca di interessi marcati, come l’antropologia culturale, il teatro, Proust, non ha mai considerato la scrittura come un’attività professionale ma come il suo “azzardo alla vita”, privo di qualsiasi tipo di pressione. Nel 1986 pubblica La ragazza con il turbante, nel 1992 Casa materna, nel 2005 Un incontro con il consigliere Goethe, nel 2006 La città del desiderio. Amsterdam, nel 2010 La nota segreta. Daniele del Giudice esordisce nel 1983 con Lo stadio di Wimbledon, a cui fanno seguito Atlante occidentale (1985), tre anni dopo Nel museo di Reims, storia di Barnaba e del suo volersi fissare le immagini di un museo prima di diventare cieco, Staccando l’ombra da terra, dedicato al volo, con il quale vince il Premio Bagutta. Tra i numerosi riconoscimenti che ha ottenuto anche il Premio Feltrinelli Accademia dei Lincei per l’opera narrativa. Paola Capriolo, importante traduttrice di opere dal tedesco (di Thomas Mann, Goethe, Schnitzler, Kafka, von Kleist) ha scritto più di venti libri tradotti in almeno tredici paesi, non solo europei, indipendenti da temi di attualità: essi rappresentano piuttosto risposte a precise esigenze interiori. Nel 1998 esce La grande Eulalia, che raccoglie quattro racconti i cui protagonisti sono affascinati dalle loro ricerche artistiche, soffrendo poi alla fine la disillusione, la sconfitta e la morte. No, del 2010, ha come oggetto una storia vera accaduta nel 1955 negli Sti Uniti, che riguarda la segregazione dei negri in quel paese.

logo 63x50Cerchiamo ancora, anche con una certa apprensione, temendo di non essere capaci di individuarlo, l’influsso del Gruppo 63, ma proprio non riusciamo a trovarlo. Per quanto riguarda l’arte figurativa, il teatro e il cinema ci limitiamo a nominare Giorgio Morandi, Alberto Burri, Lucio Fontana, Afro Basaldella, Giuseppe Santomaso, Giuseppe Capogrossi, Ennio Morlotti, Mino Maccari, Ottone Rosai, Mario Mafai, Marino Marini, Giacomo Manzù, Mirko Basaldella, Leoncillo. E non si possono dimenticare i nomi di storici e critici di arte figurativa come Roberto Longhi e Cesare Brandi. Proprio non crediamo che questi artisti e intellettuali abbiano mai avvertito l’esigenza di associarsi al Gruppo 63. Gli autori teatrali da Eduardo De Filippo a Giorgio Strehler, a Giuseppe Patroni Griffi, a Luigi Squarzina, a Diego Fabbri non hanno alcuna parentela con quanto (ma cosa?) ha messo in scena l’accolita ritrovatasi a Palermo mezzo secolo fa. Infine vanno almeno ricordati i registi cinematografici Rossellini, De Sica, Germi, Fellini, Antonioni, Visconti, Rosi. Anche qui siamo costretti a ripeterci: nessuno di loro ha mai avuto a che fare con Balestrini, Malerba, Eco o quant’altro. Con buona pace di colui che ha scritto senza firmarsi quelle ingannevoli undici righe in una pagina del programma della stagione 2013-2014 dell’Auditorium Parco della Musica. A questo punto ci pare di aver sintetizzato a sufficienza opere e nomi utili a chiarirsi le idee sulla letteratura e sulle forme artistiche che il nostro paese ha espresso nel corso di mezzo secolo, Fortunatamente al riparo dal velleitarismo e dalle ambizioni sbagliate del Gruppo 63.

Questo testo, scritto e pubblicato con l’intento di trovare adesioni (beneaccette anche repliche di parere contrario) è stato finora sottoscritto da: Marino Biondi, docente di Storia della Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università di Firenze; Loretto Rafanelli, poeta, critico ed editore; Alessandro Ceni; Silvia Zoppi Garampi, Associata di Storia della Letteratura italiana presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli.

Facebooktwitterlinkedin