Alberto Fraccacreta
A proposito di “Delle nostre immagini”

Poesia della disarmonia

La prima raccolta poetica di Costantino Turchi si segnala per il rigore con il quale affronta un tema difficile: le "imperfezioni" della natura. Ossia la sua propensione a dare spazio anche a ciò che mina l'armonia del mondo

La poesia di Costantino Turchi, giovane autore marchigiano, ha qualcosa di barocco e, al contempo, classico in senso paradossale. Nella sua prima, interessante prova, Delle nostre immagini (Poesie 2014-2018) (Arcipelago Itaca, prefazione di Umberto Piersanti, pp. 96, € 13), il lettore sembra ingaggiare una lotta con il potere della visione, estrinsecato dalla durezza quarzica degli endecasillabi e da un forte impianto geometrico. Poesia peculiarmente visiva — tra i probabili influencers (!) si possono ravvisare Mallarmé, Stevens, Montale, Simic, il primo Magrelli —, rimanda in filigrana ad alcuni aspetti inizialmente posti in maniera teoretica e chiariti passo dopo passo dal poeta. Il primo è senz’altro l’accesso ai dati sensibili, sempre colpiti da un’ulteriore messa a fuoco, come se nella scena cittadina (Urbino, Praga, Roma: tutte città-sipario) mancasse un particolare appena colto da Turchi o se addirittura ci fosse un’impercettibile stortura: «Uscito dalla via tenebrosa/ degli oratorii ripudiati e uniti/ solo ai residui delle cornici, accorro al clamore dell’oracolo/ ultimo dell’orologio assonnato,/ estremo della meridiana spezzata».

Questo senso di non piena armonia — declinato da Piersanti in una vera e propria «desolazione appena rischiarata da incontri e sguardi» — parte da piccoli ma pervasivi fastidî: la zecca e la zanzara, simboli dell’impercettibile guasto, mentre si cammina in rimbaldiani campi brulicanti di alberi con minuscole creature in agguato e polpacci sanguinanti. Ecco che, se la gnoseologia ordinaria langue, torna in auge la dialettica negativa montaliana per affermare il non è: «Non datemi la palma spoglia e asciutta/ che poca ombra da lei dal deserto/ e non mostra accenno di alcun frutto/ ma i pioppi e il loro spargere di pollini/ tutta l’aria le vie nelle finestre/ o l’olivo che invecchiando si lascia/ radici e scorza ospitale nel cavo/ o qualsiasi albero di pruno tronco/ che attende a terra l’innesto del pesco».

Come sottolinea giustamente Piersanti, il rapporto con la natura, livido e screziato, non concede nulla all’idillio o al panismo dannunziano. C’è invece una sottile linea di mancato passaggio, di transito non avvenuto. L’edera che cresce «in un cespuglio dal davanzale», i quadri di casa, il descensus ad inferos effigiato da Termini («il tempo/ è avaro non piè di chi lo amministra,/ di chi ritaglia lo spazio in porzioni/ rendendo presenti i termini./ Ti basterà non vedermi confuso con la turba.// Mi basterà averti saputa tale,/ sapere che poi da lì a me riemergerai») sono tutte occasioni per avvertire il colpo dello straniamento (Verfremdung) dentro un dettame classico e forbito. Ed è proprio tale dettame a cozzare con le intenzioni (brechtiane?) della poesia e creare scintille. Da quale prospettiva osservare un albero, ad esempio? «Il fico che in giardino hai trapiantato/ trovo adagiato sopra il pavimento:/ del nutrimento non se ne è guardato/ e ora è un lungo rugoso memento.// Riposa attorno le foglie — il tepore/ del corpo si disperde nell’ambiente./ Un viso vi è scolpito con vigore/ quasi nel sonno vigilie dei totem:/ ma la calma del ramo non ci mente/ e nessuna carezza lo percuote». Impossibile non notare ancora l’ingerenza del Montale degli Ossi (Portami il girasole ch’io lo trapianti): il fico è visto da uno scorcio inedito, con inaspettati risvolti («viso», «totem», «calma del ramo») che straniano i normali sensi percettivi: in questo sbalzo mariniano la poesia di Turchi si inserisce come dimostrazione dell’esperienza epistemologica della letteratura. Non è un caso che l’artista prediletto del poeta sia Burri, maestro della manipolazione della materia, al quale è dedicato un componimento in endecasillabi con incastri di rime “petrose”: nell’autoritratto del pittore di Città di Castello «non c’è nessun verso// di uscire da quest’ordine di verso// in cui cola materiale diverso/ per ogni strofe, per ciascuna trave/ come tessere incastonate in volte/ attorno al buco che ne è la chiave». Come a dire: dalla geometria dell’immagine è impossibile uscire, tanto vale decrittare lo sfondo e rileggere costantemente sé stessi e la scena circostante. Qualcosa cambierà. Un nuovo senso si mostrerà.

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