Francesco Improta
Su “Gli zoccoli nell’erba pesante”

Amarcord in Piemonte

Giovanni Tesio ha scritto un memoir a metà strada tra Emanno Olmi e Fellini nel quale la vita vera del Piemonte contadino degli anni Cinquanta si mescola ai sogni (in senso proprio) di una generazione che cercava una sintonia con la natura

Gli zoccoli nell’erba pesante di Giovanni Tesio (Lindau, 200 pagg, 17 Euro) non è un romanzo e neppure un’autobiografia; non rispetta le regole di montaggio del genere e non ha il ritmo progressivo e regressivo del romanzo, non tiene cioè viva l’attenzione del lettore su ciò che verrà né lo induce a riconsiderare ciò che è stato detto in precedenza, anche perché presente e passato si sovrappongono e si confondono continuamente, lasciando intravedere un futuro più sognato che vissuto. Importante e decisiva, all’interno della vicenda, la dimensione onirica.

Non è un’autobiografia perché non c’è il riscontro oggettivo tra realtà e scrittura; semmai si potrebbe parlare di un memoir in quanto il ricordo è legato non tanto ai fatti quanto alle emozioni che quei fatti hanno generato; in poche parole non conta tanto la verità fattuale quanto quella emotiva. E comunque io credo che le forme, i modelli e le regole dei generi lascino il tempo che trovano e si mostrino insufficienti per classificare o valutare una narrazione così ricca di colori, di suoni e di umori qual è Gli zoccoli nell’erba pesante. A un cinefilo impenitente e incallito come me sono venuti subito in mente L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi, per il pudore che l’attraversa da cima a fondo, a dispetto della violenza manifestata in alcuni momenti nei confronti degli animali, e uno dei film più belli di Fellini, Amarcord, un amarcord piemontese, lontano dal mare e immerso in una realtà contadina, un ventennio dopo.

Si tratta più che altro di suggestioni non prive, però, di fascino e di fondamento: i pantaloni alla zuava; la scuola, i giochi con i compagni e soprattutto l’apparizione nella nebbia del Rex che qui viene sostituita dall’eclisse solare, che lascia allo stesso modo tutti a bocca aperta. Nel film di Fellini la vicenda si svolge nel 1932, in pieno fascismo, qui siamo negli anni Cinquanta in un periodo di rinascente fascismo, si pensi al governo Scelba e al clima di repressione che si respirava a tutti i livelli, anche se nel paese d’origine del protagonista la politica rimane sempre sullo sfondo e sembra non coinvolgere gli abitanti.

La narrazione non procede in maniera lineare e rigorosa ma attraverso nuclei tematici e grovigli psicologici ed emotivi da dipanare. Spesso si ritorna sul già detto per approfondire e chiarire alla luce di esperienze successive, sogni ricorrenti od ossessioni personali. Molto spazio viene concesso al seminario che egli frequenta e per obbedire alla madre e per avere svolto in chiesa fin da piccolo le mansioni di chierichetto, che egli assolve con solerzia e con una buona conoscenza della lingua latina. Ben presto però avverte la permanenza in seminario come una prigione dalla quale evadere; anche perché lì nasce e si rafforza il disprezzo del corpo come tale, come ostacolo per il volo dello spirito a cui la Chiesa cattolica ha sempre dato la priorità e contro cui grida la Trilogia della vita di Pier Paolo Pasolini. Senza contare gli altri guasti a cui può portare una troppo rigida educazione religiosa, penso a La Scuola Cattolica di Edoardo Albinati e a La Maleducation di Pedro Almodovar.

Nel libro si ravvisano moltissime cita­zioni letterarie, esplicite o implicite: Guido Gozzano; Giovanni Pascoli; Antonio Machado; Ugo Foscolo; i fratelli Grimm; Paul Valéry; Dante; Eugenio Montale che non solo impreziosiscono la narrazione ma rivelano la duplice e apparentemente contraddittoria anima dell’autore. Il con­tadino, da un lato che conosce, per dirla con Esiodo, “le opere e i giorni” della vita di campagna e lo studioso, dall’altro, che trasferitosi in città è diventato titolare di cattedra universitaria e autore di molti libri di poesie, di critica e di saggistica, ma che a un certo punto decide di tornare al paese natio. La sua vicenda, per molti versi esemplare, si riflette nella figura di Ulisse, visto nella duplice veste di colui che vagheggia, su uno scoglio nell’isola di Ogigia, il suo ritorno a Itaca, pur sapendo che in questo caso avrebbe rinunciato all’immortalità e di colui che vuol «divenire del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore», non è un caso che a pagina 135 si legga testualmente: «… perché la sua meta è il senso di una vita, di più vite, di tutte le vite che sono la sua».

All’interno della narrazione, incorniciata da un preludio e da un epilogo o piccolo finale, ci sono tre interludi in cui l’autore passa dalla narrazione eterodiegetica a quella omodiegetica ed è, a mio avviso, un escamotage per tirare il fiato, per mettere ordine nella memoria affastellata di ricordi. Nel secondo di questi interludi egli parla della sua scrittura paragonandola a immagini ed elementi della vita agreste: prato, alberi, granturco, ruscelli e fili d’erba (altra citazione indiretta di un grande poeta come Walt Whitman). Una scrittura chiara, precisa, adamantina, che nasce dalle sue non comuni competenze linguistiche e che aderisce alle cose, alla loro essenza più profonda. Una scrittura che non descrive né rappresenta ma evoca. Una scrittura decisamente lirica che privilegia il significante al significato, creando una vera e propria sinfonia di suoni come nel brano che segue: «E che dire dei tonfi dei bastoni, i cigolii dei carri, i muggiti delle mucche, i chioccolii delle galline, i chicchirichì dei galli, le porte uggiolanti, le campane squillanti, le campane dolorose e osannanti?». Ma non è solo l’orecchio a trarre gioia dalla lettura, dal momento che tutti gli organi sensoriali vengono sollecitati ed esaltati, soprattutto nella descrizione del granaio: «L’aranciato del grano, la traspirazione dei chicchi, la pressione dei piedi e l’accoglienza delle braccia nei tuffi ad angelo, l’odore un po’ cascante e umidiccio di chiuso, la poco sapida consistenza del chicco, macinato dai denti».

Il libro si conclude con una visita al piccolo cimitero di campagna dove, dinanzi alle tombe dei propri genitori, il protagonista immagina di dialogare con entrambi e di chiarire alcune cose che erano rimaste in sospeso. Riconciliato con loro e con sé stesso lascia il camposanto e il paese, convinto che il mondo contadino sia definitivamente perduto, ma corroborato da quel tuffo nel passato e deciso a proseguire senza incertezze sulla via che ha intrapreso. Non si dissolve del tutto, però, quell’aura di morte che grava su tutta la narrazione, si pensi alla morte dei genitori e del pescatore, colpito da un fulmine con la lenza in mano. Lui abile nel gioco delle carte non riesce a vincere la partita contro il destino. Ma è soprattutto il paesaggio a mostrare segni evidenti di desolazione e di rovina: cascine abbandonate, case e stalle fatiscenti, capannoni scrostati e sgretolati, fabbriche dismesse. Un paesaggio che sembra sfumare e dissolversi nella fioca, pallida luce lunare del bellissimo quadro divisionista di Maximilien Luce cui si accenna in chiusura del libro.

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