Jolanda Bufalini
A proposito di “Quando c’era l’Urss”

Il corpo dei soviet

Gian Piero Piretto racconta «70 anni di storia culturale sovietica», dal culto di Lenin contestato da Malevic a Raissa Gorbaciova che a Parigi voleva vedere Picasso: una linea di frattura costante fra i le avanguardie e il potere

La scomparsa e la canonizzazione del corpo di Lenin era iniziata ancor prima della morte: le fotografie di Vladimir Ilič malato, sulla poltrona a ruote, lo sguardo fisso, le gambe e le braccia abbandonate, non furono pubblicate fino al 1989. Negli ultimi mesi, dai giornali sovietici erano sparite del tutto le notizie relative alla sua salute: «Al pubblico sembrava che Lenin fosse rimasto politicamente attivo e in stretto contatto con la dirigenza del Partito» (Aleksej Yurchak citato in Piretto, pp. 121-124). Alla trasformazione del corpo del capo bolscevico in oggetto di culto, alla sua de-materializzazione a dispetto della conservazione della salma (un po’ Cristo e un po’ Tutankhamon) nel Mausoleo, Gian Piero Piretto dedica, in Quando c’era l’Urss, 70 anni di storia culturale sovietica, un’ampia parte del secondo capitolo (1924/25-1927). A fare da guida sono gli appunti “furiosi” di Kazimir Malevič. L’occhio dell’artista penetra nelle manipolazioni in corso, sulla salma mummificata e sul pensiero: «Il ritratto di Lenin non esiste nell’arte. […] Gli artisti a lungo andare hanno creato una realtà di Cristo che non esiste. Nel futuro creeranno anche un ritratto di Lenin. I leninisti saranno convinti in nome della sua immagine artistica, e la prenderanno per reale. Di conseguenza i leninisti arriveranno a vedere il proprio maestro come reale soltanto nell’immagine artistica ideale, mentre la semplice realtà materialistica resterà loro nascosta» (p. 109). La “furia” degli appunti di Malevič, a cui accenna Piretto, testimonia una difficoltà, una complessità, un bisogno di riflessione dell’artista su Lenin. I testi del grande maestro appaiono in qualche modo contraddittori e hanno dato occasione a interpretazioni diverse da parte degli studiosi.

Non c’è da sorprendersi, ci spiega Nadia Caprioglio in La parola di Malevič, (Testo e immagine, a cura di Claudia Scandura e Emilio Mari, Edizioni Nuova Cultura, 2018), che «… Il suo pensiero, in costante movimento, si dispiega nei saggi teorici, negli articoli polemici e nelle lettere, è continuamente ripreso e interrotto, come se l’autore rifuggisse la versione definitiva, scrivendo i testi di getto, senza rivederli». Secondo Piretto il bersaglio polemico di Kazimir Malevič è la reificazione superstiziosa, il ritratto kitsch secondo la tradizione del lubok, il calendario con il volto pietrificato e inespressivo: «Lenin era ortodosso ma per tutta la vita lottò contro l’angolo delle icone, se ne liberò in prima persona e cercò di liberarne anche gli altri. Egli intendeva allontanare tutti dall’angolo delle icone, lottava per l’affermazione della realtà. In guisa di icona ora si erge a testimonianza del suo precedente involucro materialistico, della vita, mentre ai credenti in lui hanno detto che il Suo spirito aleggia su di loro…» (p. 110).

Moriva Lenin nasceva il leninismo, i princìpi della sacralità di Ilič si trasferivano a Stalin, nel nuovo folclore sovietico «grande successo avevano i versi dedicati alla celebrazione dell’immortalità di Lenin, interpretata come naturale confluenza nella figura di Stalin: Lenin per noi tu non sei morto!/ Guida dell’Ottobre tu sei fra noi!/ Tutta la terra tu sveglierai/ Con le tue campane». (1937, riportata in Piretto p.117).

Un aspetto veramente affascinante di Quando c’era l’Urss è quello visivo, la scelta dei manifesti, delle copertine dei periodici illustrati, satirici come “Krokodil” o per bambini come “Murzilka”, dei modellini da ritagliare dei nuovi edifici della costruzione del socialismo, le fotografie, non sono mai ovvii, spesso sono poco visti se non mai visti. Essenziali nell’intreccio con il testo, nutrito dell’apporto di molti studiosi e, quasi numi tutelari, dei riferimenti a il Bachtin di Rabelais e Boris Groys.

C’è un nesso forte fra l’avvento del sonoro nei film e la costruzione del culto della personalità. La grande stagione del montaggio cinematografico, che tanta importanza ha avuto nella poetica delle avanguardie, lascia il passo al discorso, al logos, staliniano. Euforia e terrore è il titolo del capitolo dedicato al periodo 1934-1936. La tesi è che si tratti di due facce della stessa medaglia.

L’epoca che si apre con l’assassinio di Kirov è la stessa in cui si costruisce l’ottimismo di “Stalinland”. Nei manifesti di propaganda, nelle pubblicità, si concretizza il sogno del benessere. La vita reale è piena di difficoltà ma la comunicazione fa immaginare il futuro nel presente: il grammofono per il papà, un bel vestito alla mamma, il meccano al bambino, sullo sfondo il ritratto del piccolo Padre Stalin. Al Savoy si suona il jazz, al cinema furoreggiano i musical. Il sogno sovietico assomiglia molto al sogno americano. Stachanov, fotografato in abito elegante, bello come Henry Fonda in Furore, applaudito mentre sale sulla sua nuova lussuosa automobile.

Anche il Terrore entra nello “storyboard” del futuro radioso, i processi sono contro i nemici del popolo: «Nessuno di quei maledetti traditori ci sbarrerà il cammino», scrive Demjan Bednyj nel 1937 (citato a p. 242). Osip Mandel’štam molto presto, in anticipo sui tempi, nel 1933, scrive versi crudi, che smontano la retorica: «Le sue dita dure sono grasse come vermi,/ le sue parole esatte come fili di piombo./ Ammiccano nel riso i suoi baffetti di scarafaggi,/ Brillano i suoi stivali./Ha intorno una marmaglia di ducetti dagli esili colli/ E si diletta dei servigi di mezzi uomini».

Artisti, poeti, registi – nel rispetto formale dei canoni del realismo socialista – squarciano il velo del conformismo kitsch. Pavel Filonov, con la tela Lavoratrici d’assalto della fabbrica Aurora rossa (1931, p. 171) o con l’inquietante ritratto di Stalin (1936, p. 225). Nel 1937 Daniil Charms (già una volta arrestato nel 1931) pubblica sulla rivista per bambini “ČIŽ” una filastrocca: «Un tizio uscì di casa/Con una mazza e una bisaccia/E per un lungo cammino/E per un lungo cammino/Si avviò a piedi. //Andava sempre dritto e sempre avanti//E sempre avanti guardava. /Non dormiva, non beveva, /Non beveva, non dormiva, /Non dormiva, non beveva, non mangiava. //E un bel giorno, all’alba/Entrò in un bosco scuro. / E da quel momento, / E da quel momento, / E da quel momento sparì. //Ma se per qualche accidente/Vi capitasse di incontrarlo, / Allora presto, / Allora presto,/ Allora presto venitecelo a dire» (pp.242-243).

L’architettura è un aspetto essenziale del nuovo byt, del nuovo modo di vivere. Negli anni trenta si parlò moltissimo del celebre, monumentale palazzo dei Soviet: progetto, immagini, modelli da ritagliare hanno grande diffusione. Non verrà mai costruito ma intanto si sogna. Non senza incidenti di percorso, come nel caso del film di Aleksandr Medvedkin (che Piretto definisce enfant terrible del cinema sovietico), Novaja Moskva, del 1938. Il palazzo dei Soviet appare nel film di Medvedkin in sovraimpressione, in perfetta corrispondenza con il canone imperante dell’ottimismo. Ma il regista non resiste alla tentazione di giocare pericolosamente con il plot: «Il giovane ingegnere protagonista del film giunge a Mosca dalla lontana provincia per mostrare un modello animato (oggi si direbbe computer grafica) in cui la simulazione del nuovo paesaggio prende il posto delle vecchie e fatiscenti costruzioni. Per una serie di divertenti equivoci, la proiezione del progetto parte all’incontrario. Tra le risate del pubblico le nuove rutilanti costruzioni collassano per lasciare il posto a casupole e chiesette: la Mosca antica e obsoleta pare vincere sul progresso e la tecnologia. Le cose vengono prontamente sistemate e il trionfalistico modello animato giunge debitamente a conclusione con le sue memorabili scene. Ma l’ironia che aveva condito anche tutto il resto della pellicola non poté imporsi sull’esigenza di serioso rispetto della sacralità e il film fu ritirato» (p. 313).

I diari della poetessa Ol’ga Berggol’c, che all’epoca era redattrice della radio di Leningrado, (pubblicati nel 1990-1991 da “Zvezda”) sono la traccia principale nel racconto sull’assedio di Leningrado. Sono in parte pagine rimaste a lungo segrete, in cui si descrive la disperazione, la delusione, il crollo delle certezze e delle speranze: «Forse si combatte in modo tanto vergognoso non solo perché è lacunosa la tecnica (ma perché, accidenti, è lacunosa? non può permettersi di esserlo, visto che noi tutti ci siamo sottoposti a sacrifici e privazioni nel suo nome!), non solo perché la disorganizzazione ci soffoca, dappertutto non ci sono che corpi in decomposizione, dovunque gradassi e tromboni, quadri dirigenti dello sterco del ’37 e del ’38, ma anche perché la gente già molto prima della guerra si è stancata, ha smesso di credere, ha scoperto che non ha senso alcuno continuare a lottare» (p. 288). Ma poi c’è la resistenza, quasi tre anni di difesa civile nella città assediata, registrati dai diari di Berggol’c. Anna Achmatova parla alla radio alla fine di settembre 1941: «Miei cari concittadini, madri, mogli, sorelle di Leningrado … La città di Pietro, la città di Lenin, la città di Puškin, di Dostoevskij, di Blok, città di grande cultura e lavoro è minacciata dal nemico di morte e vergogna …» (p.308). Dmitrij Šostakovič parla, anche lui sotto i bombardamenti, il 17 ottobre e annuncia che sta lavorando alla Settima sinfonia: «Perché vi dico questo? Perché i radioascoltatori sappiano che la vita nella nostra città procede normalmente … Ciascuno porta il proprio fardello bellico. E anche i lavoratori della cultura con la stessa onestà e lo stesso spirito di sacrificio compiono il proprio dovere» (p. 309). Sul retro della minuta di Šostakovič c’è l’elenco delle cose da fare per la città: 1) Organizzare delle brigate, 2) Collegamenti per le strade, 3) Costruzione di barricate, 4) Lotta con bottiglie incendiarie, 5) Difesa della casa, 6) Sottolineare che la battaglia si conduce su fronti molto vicini.

Rappresentare la Settima a Leningrado fu un’impresa titanica, la partitura prevedeva 100 musicisti da far confluire nella città bloccata. Altre testimonianze, tragiche, crude, sono state raccolte ne Il libro dell’assedio, curato nel 1979 da Daniil Granin e Ales’ Adamovič. Granin non aveva voglia di fare il libro: «Credevo di sapere cosa fosse stato l’assedio. Tutte cose note, non riuscivo a immaginare nulla che mi riuscisse nuovo». E invece venne fuori un racconto diretto, aspro, senza sconti e senza concessioni alla retorica. Quando furono bombardati i magazzini della fabbrica di dolciumi Badaev, la gente accorreva a raccogliere la terra, la terra impastata di dolce e di grasso veniva venduta al mercato nero, il prezzo variava a seconda della profondità a cui era stata raccolta: «Mi è rimasto il sapore di quella terra, ancora adesso mi sembra di aver mangiato una ricotta grassa» (testimonianza citata a p. 312).

L’intento di completezza, dal 1917 al 1991, forse un poco danneggia la forza del volume, sebbene il contrappunto visuale sia straordinario dall’inizio alla fine, fino alle parafrasi dell’arte concettuale sulla propaganda dei tempi di Brežnev. La storia che Piretto racconta negli ultimi capitoli è quella che abbiamo vissuto direttamente: Mosca e Leningrado-Peter nell’ultimo trentennio del secolo scorso. L’Urss con le sue tragedie ma anche paradossale e sorprendente, umoristica e sulla vodka. Il disgelo degli anni Sessanta ma anche il populismo di Chruščëv, la sua incomprensione per l’arte non figurativa, il processo a Brodskij. La stagnazione brežneviana, i soli otto manifestanti sulla piazza Rossa contro l’invasione della Cecoslovacchia.

Nelle ultime pagine, quelle su Gorbačëv, si racconta l’insofferenza di milioni di sovietici per i film «che lavano i panni sporchi fuori dall’isba», come La piccola Vera, prodotti durante la perestrojka. L’odio che suscitava Raissa Gorbačëva, troppo first lady. In un’intervista pubblicata su l’Unità nel 1990 Bohumil Hrabal mi confessò tutto il suo amore per la colta, raffinata Raissa che, in visita ufficiale a Parigi, chiese come prima cosa di andare al Beaubourg, a vedere Braque e Picasso. Hrabal predisse (temeva) la rapida fine di quella stagione.

Un filo d’Arianna si snoda a collegare Il’ja Kabakov, della serie sulle komunalke (la vita nelle case in coabitazione) con Petrov-Vodkin, Festa per l’inaugurazione dell’appartamento (1937). Oppure Pëtr Belov: un fiume di gente inghiottita nella costruzione del Canale del Mar Bianco, rappresentato dal pacchetto di papirosy Belomorkanal (1985, p. 202), con G. Klucis Memoria, Fotomontaggio costruttivista dedicato a Lenin, 1928: un fiume di gente inghiottita dal mausoleo di Lenin. O ancora Ljubimov direttore alla Taganka con Bulgakov. A significare una linea di frattura costante, fra i movimenti delle avanguardie e un potere che nelle sue diverse stagioni, non capisce, non accetta, non tollera la decostruzione antiretorica dei linguaggi, facendosi forte del conformismo, del perbenismo di massa. Faglie che interagiscono e si contaminano nei momenti migliori, per separarsi di nuovo nella spirale delle aperture e delle repressioni.

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Nelle immagini, opere di Kazimir Malevič

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