Mario Di Calo
Visto al Brancaccino di Roma

Trainspotting a teatro

Il romanzo cult di Irvine Welsh, che trionfò al cinema più di vent'anni fa, va in scena con la regìa di Sandro Mabellini: un viaggio nella disperazione che mantiene tutta la sua attualità

Portare a teatro Trainspotting è impresa abbastanza ardua, intanto perché parte da un romanzo di un autore oramai divenuto cult come Irvine Welsh e poi per via del successo del film di Danny Boyle del 1996 da esso tratto, che passa per essere al decimo posto dei film più belli del ventesimo secolo secondo il British Film Institute. A tentare l’impresa ci pensa un regista coraggioso e dalle scelte non sempre convenzionali, Sandro Mabellini, con la complicità di quattro generosi attori: Michele Di Giacomo, Riccardo Festa, Valentina Cardinali, Marco Bellocchio, che curano anche una drammaturgia scenica ad personam. Lo spettacolo è in scena per la seconda volta a Roma dopo essere stato a Carrozzerie n.o:t. nel 2017, stavolta lo si è potuto vedere al Teatro Brancaccino dal 5 all’8 aprile all’interno della stagione Spazio del Racconto.

All’ingresso in sala troviamo i quattro interpreti che spessissimo si sdoppiano per essere altro da sé seminudi (a testimoniare l’impersonalità del loro essere attori in attesa di rivestirsi dei loro personaggi una volta che l’azione prende campo nello spazio seminudo del palcoscenico, solo una tenda da campeggio usata sapientemente in varie prospettive interpretative) seduti che guardano incuriositi e impazienti, il pubblico che prende posto in sala. Alle loro spalle, sulla parete di fondo del palcoscenico, come una disamina/distribuzione di personaggi e interpreti, sono scritti i nomi dei personaggi più importanti che vengono evocati e/o nominati nel corso dello svolgersi del racconto, in attesa di arrivare in proscenio a narrare la propria straziante storia. Un passaggio inevitabiledi treno suggella le 12 stazioni di questa via crucis laica che conduce il protagonista Mark Renton verso un punto di non ritorno. L’eroina (purtroppo) è così. Ci si entra per gioco e come un tunnel ferroviario senza via d’uscita, che tracima chi vi ci incappa nei suoi viaggi immaginari, suggellando indifferenza alla vita, senso di distacco, disinteresse affettivo; la sostanza ha effetti immediati su alcune zone del cervello rendendole inattive.

Le storie spifferate da questi ragazzi fanno riflettere su quanto le cose non siano cambiate da quel lontano 1993, anno di pubblicazione del crudo romanzo di Irvine Welsh, di quanta alienazione e disorientamento ci possa essere ancora in chi decide di affrontare questa strada, ma anche quanta poesia si nasconda dietro le pieghe di un braccio teso in attesa di ricevere la spada che dona l’oblio. Lo spettacolo lungi dall’ispirarsi al film, ne prende le distanze volutamente, e il regista ricercando una forma espressiva autonoma escogita delle belle soluzioni sceniche. Come un dj set, smanettato direttamente in scena dagli interpreti, o come quelle luci led issate su delle aste usate a mo’ di microfono, che evitano, o forse prendono in giro – finalmente – quell’uso smodato, eccessivo a volte fastidioso nel teatro contemporaneo del microfono, e intanto illuminano i volti degli attori che ne fanno utilizzo, esaltando in maniera autorevole il loro dettato. La messinscena ricca di spunti, purtroppo manca di quell’eversività, di quella trasgressione, di quella forza insita nel corpo del racconto. Una regia più del dovuto edulcorata, certo più azzardata, più spinta avrebbe sostenuto un pubblico avvezzo a un genere troppo amato.

La versione odierna, molto interessante, è ad opera dell’autore libanese che da anni vive e lavora in Canada Wajdi Mouawad, (del quale è stato recentemente visto con la regia Massimiliano Vado,il suo Incendies, testo del 2003), è tradotto da un altro eminente autore italiano Emanuele Aldovrandi. Lo spettacolo ha debuttato a Vitorchiano nel 2016 all’interno del Festival Quartieri dell’Arte.

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