Gianni Cerasuolo
Storie di Sport

Un derby venduto?

Accadde nel 1927: il Torino vinse lo scudetto. Ma (forse) dopo aver comprato un derby contro la Juventus. Un (presunto?) illecito per il quale pagò la persona sbagliata (Gigi Allemandi). Ricostruiamo un giallo fatto di sport, corruzione, giornalismo facilone e tanto fascismo

È come se qualcuno avesse passato sopra il bianchetto. Ci sono due spazi vuoti nel romanzo della serie A del calcio. Scudetti non assegnati, è la formula. E tutte e due le volte c’è di mezzo una squadra di Torino. 1926-1927: il Torino. 2004-2005: la Juventus.

Calciopoli è vicina e dell’ultimo scandalo tutti sappiamo, più o meno. Della vecchia e torbida faccenda, no. Amanti del Toro a parte, pochi conoscono quella storia intricata di fine anni Venti. Del resto, sono passati 90 anni. Non si riuscirà mai più a conoscere la verità. Quel derby torinese resta un giallo. Quali giocatori della Juve si vendettero? Allemandi o Rosetta? O tutti e due? Oppure Munerati e Pastore? E ci fu davvero una compravendita, come pure molte cose fanno credere anche a distanza di tanti anni?

La novità è che adesso si reclama – con più forza che nel passato – la restituzione di quello scudetto. Il Torino lo ha chiesto, attraverso il presidente Urbano Cairo, pochi mesi fa all’inaugurazione del nuovo Filadelfia. La Federcalcio ha preso tempo, come fece in altre occasioni. Promise già nel ’49, quando si piangevano Valentino Mazzola e tutti gli altri morti a Superga. La tesi torinista è: in quella vecchia inchiesta sportiva ci furono troppe incongruenze, pesanti condizionamenti politici, prove raccattate a caso, imputati senza difesa. Anche il Bologna, che arrivò secondo quell’anno, vuole il triangolino di stoffa tricolore.

È un episodio certo lontano della saga del pallone, ma anche lo spaccato di un periodo politico e sociale. Attorno allo scudetto cucito e poi scucito ci sono tante cose. C’è il fascismo con la sua retorica littoria. C’è il nuovo capitalismo (gli Agnelli) che prevale su quello tradizionale (i Marone Cinzano). C’è il calcio che lascia il dilettantismo e diventa sport professionistico e di massa, insinuandosi tra ciclismo e boxe. C’è l’innocenza ben presto perduta di tutto un ambiente già corrotto, nonostante le pretese di pulizia delle camicie nere. C’è un giornalismo asservito al governo e comunque poco incline a indagare, preferendo (anche perché costretto) essere imbeccato dalle veline del regime. C’è infine anche la leggenda di un club, il Torino, la cui vita è stata spesso contrassegnata da tragedie (in questi giorni, 50 anni fa, moriva Gigi Meroni, la farfalla granata) e disavventure come se una mano invisibile avesse tracciato una malinconica riga rossa di infelicità.

La storia è questa. La sera del 13 luglio 1927, il Torino festeggia il suo primo scudetto al ristorante “Du Parc” al Valentino. È la squadra con il Trio delle Meraviglie, come vengono chiamati i tre in attacco: Baloncieri, Libonatti e Rossetti. Metà italiani e metà argentini. La classifica del girone finale del primo campionato a carattere nazionale recita: Torino 14 punti; Bologna 12; Juventus 11; Genoa 9; Inter 8; Milan 6. Alla festa scudetto si stappano spumanti Cinzano, prodotti dal presidente granata, conte Enrico Marone Cinzano, si vedono soubrette e il podestà, si legge il telegramma del principe Umberto, che tifa Toro.

Passa però poco tempo e cominciano a circolare voci di una combine, di una partita comprata da parte dei neocampioni. Non una partita qualsiasi ma il derby, la sfida con la Juve: quella giocata domenica 5 giugno ore 15,30 al Filadelfia, lo stadio costruito l’anno prima dall’ingegnere Miro Gamba, mattoncini rossi, gradinate di cemento e tribune di legno e ghisa. 10 lire i posti popolari, 40 quelli per i ricchi. Risultato: 2-1 per il Torino. A quattro giornate dalla conclusione del campionato. Fine primo tempo, segna Vojak per la Juve. Nel secondo tempo pareggia al 9’ Balacics su punizione (questo è il gol “incriminato”: molti ripensano a Rosetta con le gambe larghe sul tiro dell’ungherese che batte Combi) e, ad un quarto d’ora dal termine, gol partita di don Julio Libonatti, primo oriundo a giocare nella nazionale italiana. Le malelingue sostengono che qualcuno dentro il Torino abbia sganciato dei bigliettoni a qualche giocatore bianconero: 25 mila lire, con la promessa di arrivare a 35 mila se tutto fosse filato liscio. Si è parlato anche di una cifra maggiore, 50 mila lire. Ma non c’è da crederci.

A “sparare” la notizia è un giornalista, Renato Ferminelli, che scrive qua e là, e fa il corrispondente per Il Tifone, un settimanale satirico romano. Ferminelli un po’ ce l’ha con la società granata perché non gli ha dato l’accredito per seguire le partite in tribuna stampa (guai negare un pass ad un giornalista… ). Un po’ riceve le confidenze di uno studente siciliano, Francesco Gaudioso, che sta a Torino nella sua stessa pensione in piazzetta Madonna degli Angeli. Che è un porto di mare: vi alloggiano infatti anche due calciatori della Juve, i terzini Virginio Rosetta e Luigi Allemandi (nella foto accanto al titolo). Quest’ultimo è diventato amico del giovane siciliano, che non si fa scrupolo di chiedergli soldi, non avendo una lira in tasca. Gigione, fisico notevole, non può sapere che l’amicizia con il futuro ingegnere lo marchierà a fuoco. Perché la partita combinata si intitolerà d’ora in avanti lo “scandalo Allemandi”.

Ferminelli pubblica con il contagocce le cose che sa. Non si firma né sullo Sport, bisettimanale milanese, né sul Tifone. Ma tutti sanno che è lui a scrivere. Articoli criptici come i titoli (“Preludio”, “Sinfonia”), pieni di allusioni, dove si dice e non si dice. Compare anche un sottotitolo significativo: «C’è del marcio in Danimarca…», in cui si parla di pacchi e di traffici del presidente della squadra torinese, Marone Cinzano (nella foto).

Allemandi a settembre del ’27 viene venduto all’Inter e il suo amico Ciccio, lo studente universitario di Francofonte, provincia di Siracusa, ha smesso di chiedergli denaro, ormai ne ha a sufficienza. In molti si fanno domande sul quell’improvviso benessere. Ferminelli deve aver capito qualcosa. Si dice addirittura che abbia origliato dietro qualche camera per ascoltare un litigio tra Allemandi e Gaudioso. Ma pare un falso secondo quello che scrive nel suo libro – che ben ricostruisce la vicenda – Massimo Lunardelli, professione bibliotecario: Indagine sullo scudetto revocato al Torino nel 1927, edito da Blu Edizioni, che gode della prefazione di Gian Carlo Caselli, il magistrato che tutti abbiamo conosciuto, tifosissimo della squadra granata.

È probabile che lo studente si sia sfogato con il giornalista, rimproverandogli di aver scritto in maniera sibillina del derby truccato: «Adesso non soltanto i giocatori della Juventus che si erano venduti il derby del 5 giugno continuano a pretendere la seconda tranche di quanto pattuito, ma il dirigente del Torino che quei soldi aveva promesso e che dopo la partita aveva deciso di non sborsare più, visti gli articoli, lo sta minacciando», si legge nel libro.

Il regime non può far finta di niente.

Il 1927 è un anno di grosse novità e della definitiva fascistizzazione del calcio. Il Coni ha come presidente Lando Ferretti scelto da Mussolini per l’attuazione delle sue direttive. Il pallone vive da anni a livello dirigenziale una fase di confusione e di crisi, gli arbitri hanno addirittura proclamato uno sciopero. Ferretti prende in mano la situazione, fa dimettere i dirigenti, affida ad un triumvirato la riforma del settore e nomina presidente della Federcalcio, Leandro Arpinati, il ras di Bologna, anarchico e poi fascista, molto ascoltato da Mussolini, prima di cadere in disgrazia. La riforma porta un nome. Si chiama “La Carta di Viareggio” perché scritta in Versilia. I calciatori vengono divisi in dilettanti e non dilettanti, spuntano il “rimborso spese” e il “mancato guadagno”. Praticamente è l’apertura al professionismo. Niente stranieri ma quelli che già ci sono restano tesserati, l’oriundo va salvaguardato per le glorie future. Campionato su base nazionale diviso in due gironi e poi pole finale.

Arpinati apre sul derby chiacchierato un’inchiesta tutta personale con il suo collaboratore più stretto Giuseppe Zanetti, fatto segretario della Federcalcio contro il parere dei camerati. Zanetti non è iscritto al partito fascista. Ma Arpinati con uno dei suoi colpi di testa che lo fanno un personaggio unico tra i gerarchi risponde: «Non ho chiesto un fascista, ho chiesto un competente e un galantuomo».

Dunque, il regime non può tollerare uno scandalo nel primo campionato “riformato”. Francesco Gaudioso si rifugia in Sicilia. Ha paura. Chi indaga ha scoperto che gli piace scommettere. Ciccio (Gaudioso) allora scrive una lettera a Gigi (Allemandi): «…sono stato interrogato da un commissario della Federazione e naturalmente ho negato l’accusa infondatissima di corruzione di due giocatori. I nomi corrispondono a Pastore e Munerati ed io sarei stato il corruttore…». Pietro Pastore, attaccante, ha giocato male quel derby e si è fatto anche espellere lasciando la Juve in dieci. Federico Munerati gioca all’ala, anche lui è sotto la sufficienza in quella partita.

Gaudioso va a Bologna, dove è stata spostata la sede della Federcalcio (prima era a Torino), e viene interrogato da Arpinati. Che ha gioco facile a fargli dire quel che gli interessa. Il giovane ammette di avere tentato di avvicinare un dirigente del Torino per convincerlo a sborsare dei soldi per aggiustare il derby. In seguito modifica la versione. La combine non c’è stata perché il suo interlocutore non ha accettato di dargli dei soldi. Arpinati vuole nomi. E Gaudioso fa un nome: «Il dottor Guido Nani». L’avvocato Nani è molto amico del presidente Marone, è stato suo dipendente, divide con lui un ufficio nel centro del capoluogo piemontese. Nelle cronache dell’epoca viene descritto come un importante dirigente della società di calcio. Nella ricostruzione di Lunardelli è solo un revisore dei conti. Anche Nani viene convocato a Bologna. Come i giocatori della Juve coinvolti: Pastore, Munerati, Rosetta e Allemandi. Quest’ultimo rivela che Munerati aveva ricevuto in regalo dal presidente del Torino una cassetta di vini e di liquori. Il giorno prima della partita. I confronti si susseguono. Arpinati ha fretta, conviene chiudere presto il caso. È convinto della triangolazione Nani-Gaudioso-Allemandi. Non ha prove però.

Il 3 novembre, mentre è in corso il nuovo campionato, durante l’ennesimo interrogatorio notturno condotto dallo stesso gerarca, Nani confessa: «Ho dato a Gaudioso 25 mila lire per corrompere alcuni giocatori bianconeri». Lui non ne conosce i nomi. In società tutti sapevano, compreso il presidente granata, dice. Più avanti, nel processo per diffamazione intentato da Marone contro il suo ex amico, Nani scagiona tutti i dirigenti tranne il segretario del club Pietro Zanoncelli: «Mi ha dato ventimila lire, le restanti cinque le ho messe di tasca mia». A sua volta Gaudioso ammette di aver ricevuto il denaro e di averlo dato a Pastore, Munerati e Allemandi. Poi ritratta, secondo un copione conosciuto ormai.

Il 4 novembre la Federcalcio toglie lo scudetto al Torino e squalifica a vita tutto il Consiglio direttivo della società. Due giorni dopo Arpinati, circondato dai giornalisti, non si trattiene e teatralmente rivela: «Non sono uomo di misteri. Dite pure, prima che esce il comunicato ufficiale… che stanotte mi è stato possibile individuare il giocatore verso il quale il signor Gaudioso avrebbe esercitato con successo la propria opera di corruzione. Si tratta dell’ex juventino Allemandi che ho intenzione di squalificare a vita».

Il terzino, ora all’Inter, non ci sta. Scrive un sorta di memoriale per difendersi, continua a ripetere che in quella maledetta partita è stato uno dei migliori, trascrive i giudizi sulla sua prestazione che ha letto sulla Gazzetta dello Sport e sugli altri giornali. Bruno Roghi ha scritto sul giornale sportivo: «Dall’altra parte, i torinesi lavorano a maglie fitte ma Allemandi è imbattibile. Qualche disordine notiamo invece nel lavoro di Rosetta». Allemandi non fa nomi, non dirà mai: sono stati questi. Ma nel memoriale diretto ad Arpinati scrive a proposito della strana postura di Rosetta sulla punizione: «Io penso quasi con terrore, onorevole, alla mia situazione attuale, se l’infortunio di Rosetta fosse occorso casualmente a me». Anche Gianni Brera nella Storia critica del calcio italiano dedica questa osservazione sul comportamento di Rosetta: «La punizione dal limite era stata battuta raso terra: la palla era stranissimamente passata fra le gambe divaricate di Rosetta disposto in barriera ed era entrata in porta uccellando Combi». Però aggiunge «il ragionier Virginio Rosetta della Juventus era del tutto inattaccabile per via della sua “dirittura morale”», chiosando quanto aveva detto Baloncieri a proposito dell’altro difensore sospettato.

Allemandi vuole essere ascoltato dal suo inquisitore. Consegna il memoriale a Zanetti. Arpinati lo attende al varco a Bologna. E con un colpo di scena dei suoi inchioda il difensore. Gli domanda se ricorda di aver scritto una lettera a Francesco Gaudioso, il suo amico Ciccio. Il calciatore dice di non ricordare. E l’altro tira fuori un foglio di carta e gli legge delle frasi: «C’è della gentaglia a Bologna! Nega tu che nego anche io! Il primo a pagare sarà Ferminelli!». Il terzino non sa che dire. Il gerarca gli urla in faccia tutto il suo sdegno e gli dice che quella lettera è stata faticosamente ricostruita da lui (e dalla moglie!). Pezzetti di carta trovati in un cestino della stanza della pensione occupata dal calciatore. È la prova definitiva per Arpinati e gli accusatori. A chi avanza dei dubbi su questo singolare ritrovamento il segretario della Federcalcio Zanetti dirà, molti anni dopo: «Fu un’inchiesta minuziosa – si legge sul sito Storie di calcio – condotta in tutta segretezza con indagini svolte in Piemonte, in Lombardia e in Sicilia. In uno di questi viaggi venne visitata la pensione che ospitava Allemandi, Gaudioso e il giornalista per rilevare l’ubicazione delle camere. In quella di Allemandi vennero notati dei pezzettini di carta nel cestino, pezzettini di carta che vennero raccolti… Infatti, incollati quei pezzettini su della carta trasparente (lavoro che durò ben diciotto ore) si poté ricostruire una lettera in cui Allemandi si lagnava del mancato versamento delle venticinquemila lire, sostenendo di aver collaborato e non poco alla conquista dello scudetto da parte dei granata…».

Il 21 novembre Gigione Allemandi viene squalificato a vita. A Munerati e Pastore vengono dati dei buffetti. Rosetta non viene nemmeno nominato. Pagano il Torino e il terzino ex Juve. Arpinati, probabilmente “consigliato” da Mussolini, evita di assegnare lo scudetto alla squadra seconda in classifica, il Bologna, di cui è tifoso. Già una ripetizione molto discutibile della partita proprio contro il Torino nello stesso campionato, un mese dopo il derby torinese, ha suscitato perplessità e ironie. Un favore alla squadra del Duce del pallone, pensano un po’ tutti. Ma il Torino vince anche la partita ripetuta (con un rigore).

In realtà, Allemandi rimane “in esilio” dal calcio soltanto 8 mesi. Un’amnistia, guarda caso, lo ributta dentro la mischia. Fino a farlo diventare uno dei pilastri difensivi della nazionale di Pozzo, campione del mondo nel ’34.

Si chiese in seguito Adolfo Baloncieri, che sapeva di calcio e di tressette nella definizione di Brera: «Venne provata la corruzione? E allora perché il presunto colpevole venne in seguito amnistiato, lasciando il giudizio di colpevolezza nei soli confronti della squadra?».

Brera nella sua voluminosa opera va giù pesante: «A questo punto, non sembra necessario essere Sherlock Holmes per appurare come sia andata, e subito dopo capire come abbia potuto Allemandi militare nell’Inter di Giovanni Mauro, vicepresidente della Federazione e temibile capo degli arbitri. I soliti ricatti reciproci avevano lasciato alla Juventus il terzino più dotato di classe (Rosetta) e avevano impedito al Bologna di acquistare un terzino che avrebbe fatto irresistibile coppia con il suo Monzeglio ai Mondiali 1934».

Qualcuno ha sospettato anche che Allemandi abbia pagato anche il fatto che non fosse iscritto al Fascio come non lo era la sua famiglia. Lui fino alla morte (1978) si è sempre detto innocente. Anche in indagini più recenti fatte da alcuni giornalisti: «Non ho mai preso quei soldi. Voglio giustizia. C’è stato del marcio, è vero, ma il colpevole non sono io». Quando morì Rosetta (1975), Giglio Panza lo andò a cercare per Tuttosport, sollecitando per l’ennesima volta un giudizio sul suo compagno di reparto, Gigione rispose: «Rosetta adesso è morto e per me la vicenda è finita qui».

Resteranno 7 gli scudetti del Torino o diventeranno 8?

Facebooktwitterlinkedin