Domenico Calcaterra
Un libro illustrato da Gianluca Folì

Favola del disamore

Antonio Moresco continua ad alternare grandi romanzi a piccole fiabe di notevole valore simbolico: come la nuova storia «un po’ da ridere un po’ da piangere»

Giorni fa, una nota scrittrice italiana di successo, intervistata, sosteneva candidamente che le fiabe sono belle anche se inutili. Ma è proprio così? Ritornare, anche solo per il tempo della lettura, al mondo privo di filtri e di ruminazioni dell’infanzia, alle storie semplici ed esemplari, è davvero così inutile? Personalmente, ogni volta, la lettura di una fiaba mi provoca un piacevole choc emotivo (e mi lasciano di stucco quei critici che si rifiutano di recensirle, le fiabe, con la scusa che si tratta di mera letteratura per ragazzi). Le fiabe sono «crudeli»: fingendo scenari consolatori, ci riportano a verità elementari e tremende sull’umano, come nota giustamente Sandra Petrignani introducendo la Piccola fiaba un po’ da ridere un po’ da piangere di Antonio Moresco che va a impreziosire un progetto editoriale tra i più interessanti degli ultimi anni come quello dei Quaderni quadroni di Rrose Selavy. Testo qui accompagnato dalle fresche e smaglianti illustrazioni ad acquerello, inchiostro e matita di Gianluca Folì (che aveva già illustrato, sempre per la stessa collana, il Re Micio di Roberto Piumini).

Moresco negli ultimi anni ci ha abituato a questo suo concedersi a scritture brevi e condensate: infatti, dopo Le favole della Maria (Einaudi, 2007), sono seguiti romanzi di grande concentrazione simbolica come La lucina (Mondadori, 2013) e Fiaba d’amore (Mondadori, 2014), un libretto divertente come 21 preghierine per una nuova vita (2014) e, adesso, questa Piccola fiaba. Un po’ da ridere perché racconta di una scuola strampalata, dove i bambini hanno nomi stranissimi, c’è una maestra, Slurp Slurp, che ha una lingua lunghissima e una Bidella Budella (per metà strega, per metà fata) che per vendicarsi delle canzonature dei bambini, lancia il sortilegio che darà avvio alla confusione degli innamoramenti a catena; un po’ da piangere, perché è soprattutto una storia d’amore e di solitudine: l’incantesimo, andrà a stravolgere infatti il già singolare idillio tra Sonnambulino e Sonnambulina, i veri protagonisti di questa fiaba, entrambi sonnambuli, che si ritrovano di notte a camminare insieme, mano nella mano, sui tetti. Per quanto «ribalda», la «logica infantile» (ancora la Petrignani) di Moresco non fa che riproporre una sua personale verità, qui puntualmente una volta ancora declinata: l’amore è impossibile a realizzarsi, perché il destino dell’uomo (anche dell’uomo-bambino), è un destino di solitudine.

moresco foli 2Ecco che in Piccola fiaba l’amore viene descritto come «la più grande disgrazia» che possa capitare al mondo, ed esso non può che nascere perciò da una «maledizione». Né può sfuggire il fatto che solo in un’altra dimensione, quella appunto del sonno e del sogno, l’amore tra i due teneri protagonisti sia possibile. E che esso si manifesti, nella realtà (?), se non come confusione, come caos, per usare una parola cara al vocabolario dello scrittore (o comunque come transito verso una nuova verità di rapporti). Quel sortilegio che dà avvio al valzer esilarante degli innamoramenti, a suggerire piuttosto non la condizione alterata, ma quella concreta, dell’amore nella vita (stravolta, viziata sempre, da un costitutivo disordine). Si pensi alle considerazioni del colombo che accompagna e vigila sul protagonista di Fiaba d’amore, sulla pena di tanto cercarsi e non trovarsi, sul germinare, tra gli uomini, di un seme di solitudine (per quel libro avevo parlato di congenita incapacità di inventare l’amore). E, qui, nel destino di solitudine di Sonnambulino, il solo sopravvissuto a credere nei sogni, che trova conforto e guida nella luce della sonnambula del cielo, la Luna (suggestione leopardiana, evidentemente assai cara a Moresco). Il crescendo, dalla situazione comica all’epilogo triste della fiaba, è sottolineato anche dalle illustrazioni di Folì, che dalle prime tavole tutto un tripudio di colori, passa ai finali e quasi bicromatici quadri notturni e lunari, a mimare, con poetica visione, il senso del destino di solitudine di Sonnambulino.

Colpisce poi come le narrazioni fiabesche di Antonio Moresco evochino un mondo di visione a occhi aperti, dove gli opposti si contaminano continuamente, ogni cosa e il suo contrario sono compresenti; e dove rimane, fisso, un fondo di sospetto su quale sia la vera realtà: così nella contiguità tra vivi e morti in La lucina o in Fiaba d’amore, così nelle invocazioni anfibie rivolte agli animali in 21 preghierine; così, infine, in questa Piccola fiaba, nella quale il dubbio passa attraverso il regno dei sogni, come suggerisce questo fulmineo dialogo tra Sonnambulino e Sonnambulina: «Chissà se le cose che ci diciamo sui tetti sono vere oppure no?» «Certo che sono vere!» le rispose il bambino. «Però allora dormiamo, sogniamo…» «E se invece sognassimo adesso?».

In conclusione, perché il lettore adulto (e il critico) dovrebbe leggere le favole e le fiabe di Antonio Moresco? Dal momento che ogni autore, anche se si cimenta con generi essenziali e di concisa pregnanza come la favola e la fiaba, non può non lasciar trapelare, nello scriverle, la sua poetica, mi pare più che evidente come il complesso di queste narrazioni brevi (che ci auguriamo vengano raccolte quanto prima in un unico volume) agiscano, per così dire proppianamente, da disvelamento delle funzioni elementari che presiedono alle fabule maggiori dello scrittore, come il fresco di stampa Gli increati (Mondadori, 2015) da poco approdato in libreria.

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