Attilio Del Giudice
Un storia di pioggia e d'amore

Storiella patafisica

«Mi piace pensare che i cani randagi forse avevano rispettato le sue sembianze di uomo buono e il suo sentire raro e prezioso...»

Lo abbiamo visto al funerale di Evelina, la moglie amatissima. Il suo bel faccione di uomo giusto e buono conteneva uno sguardo di delusione, come di chi dal Padreterno proprio non se lo aspettava.

Il piccolo cimitero, distante un paio di chilometri dalla città, era un luogo semplice, dove l’assenza quasi totale di cappelle familiari ricche e sontuose, (quali esibite testimonianze di discriminazioni di casta, di censo, di casato, di razza) e la presenza di cerri, meravigliosi cipresseti, varie piante autoctone sempreverdi e tombe prevalentemente “a terra” aiutavano a conciliarsi con un’idea più dolce e poetica della morte.

Angelo veniva ogni giorno a portare un fiore sulla tomba di Evelina, ogni giorno cambiava l’acqua in un vaso di ceramica celeste e puliva con un panno umido il marmo della sepoltura. Si tratteneva molto tempo in quel luogo di pace.

Parlava a lungo con sua moglie di tutto quello che gli stava a cuore e, spesso, chiedeva il suo consenso.

“Lo so, non puoi parlare, però se sei d’accordo con me, mi fai un segnale. Io guardo quella foglia lì, a terra, se entro cinque secondi si muove un po’, capisco che abbiamo la stessa opinione e approvi il mio operato. Facciamo così!”

Più o meno era questo il metodo che aveva adottato e gli sembrava un’idea folgorante, utile e speciale per comunicare con la sua Evelina. Talvolta chiedeva il segnale di assenso o di dissenso nel canto di un merlo, o nel movimento delle nuvole e poneva sempre una sorta di dicotomia: “Faccio bene o no? Sono nel giusto o non lo sono? Mi sto comportando bene o sbaglio?” E così via. Non pensava mai che questo strano dialogare con la moglie adorata potesse essere una sua chimera, una illusione, un rifugio consolatorio dell’anima del tutto irreale e, perfino, un comportamento giudicato infantile e ridicolo.

Un giorno piovoso, verso la metà di febbraio, nel tardo pomeriggio, poco prima delle sei, quando solitamente il guardiano lo avvertiva che era l’ora di chiusura, Angelo sentì una voce, una voce cara, l’inconfondibile voce di Evelina: “Torna qui tra tre ore, devo parlarti”.

“Evelina, amore mio, ma sei tu? Sei proprio tu? Oddio, mi hai parlato? Allora devo tornare qui? Sì, fra tre ore, hai detto così? I cancelli sono chiusi, ma troverò il modo. Amore mio, mi hai parlato? È vero? Rispondi, ti prego! Parla ancora! Fammi sentire la tua voce!”

Angelo sentì invece la voce roca del guardiano: “Signor Angelo, si chiude!”

Uscì dal cimitero che pioveva a dirotto e il vento forte gli aveva rivoltato l’ombrello, il guardiano con l’ape lo affiancò e gridò. “Signor Angelo, salite, vi dò un passaggio!”

“No, no! grazie. Faccio due passi!”

“Ma come due passi, co’sta pioggia? Vi volete ammalare?”

“Preferisco così, Abbi pazienza!”

“Che vi devo dire, signor Angelo? Come volete voi, buona serata!”

Angelo camminava senza badare agli scrosci violenti di pioggia e all’ombrello, che sembrava in balia del vento e non lo riparava quasi per niente. Aveva in mente quella voce, quella voce dolce, inconfondibile, era stata chiara quella voce, non si poteva sbagliare, doveva ritornare dopo tre ore sulla tomba. Non aveva ancora esaminato il muro di cinta del cimitero e dove trovare un punto agevole, da dove insomma fosse stato possibile scavalcare. Era passato del tempo, forse un’ora, forse di più. Certo che aveva camminato molto senza rendersene conto, con questo pensiero della voce, con l’idea del meraviglioso prodigio, che gli riempiva la mente di gioia e di stupore. Aveva camminato svelto come se dovesse andare in un luogo prestabilito. A un certo punto subentrò un turbamento: temeva di essersi allontanato dal cimitero, e non trovarsi presso le mura di cinta. Il buio pesto non gli permetteva di guardare l’orologio. Decise di tornare indietro, benché non si raccapezzava del dove si trovasse. Non aveva riferimenti e gli sembrò che avesse lasciato inopinatamente la strada asfaltata e avesse imboccato un tratturo campestre, infatti si accorse che camminava nel fango. “Oddio, dove mi trovo adesso?” Non vedeva niente, la pioggia scendeva sempre a catinelle, non sapeva se doveva girare a destra o a sinistra, come doveva fare per tornare sui suoi passi, verso il cimitero. Come doveva fare? Era disperato e disperate erano le parole che rivolse ad Evelina: ”Amore mio, aiutami! Mi sono perso. Devo tornare da te. Aiutami!” Si sentì in colpa e gli venne da piangere. Buttò via l’ombrello e guardò il cielo. Le lacrime si mescolavano alla pioggia che gli batteva forte sul viso come per un castigo. Cadde in ginocchio nel fango. Sentì l’abbaiare lontano di un cane, pensò a quello che aveva letto sul giornale, che un vecchio era stato azzannato alla gola da un branco di cani randagi. Che importanza poteva avere se fosse stato attaccato da un branco di cani, di fronte a questa tragedia dell’essersi perso come un bambino? Sennonché, mentre ancora singhiozzava, improvvisamente, si fece strada nella sua mente un pensiero, che, in un baleno, divenne irriducibile: “Ho capito, Evelina, ora ho capito! Dopo il tempo che mi hai dato, dopo le tre ore, devo raggiungerti nell’Aldilà! Questo mi volevi dire, amore mio? Si! vengo, vengo da te, tesoruccio.”

Lo trovarono due cacciatori il giorno dopo in aperta campagna in una pozzanghera con gli occhi aperti che guardavano il cielo e sembrava che sorridesse.

La sua fine fu dolcissima. Angelo l’aveva inseguita per amore senza dover dar conto a persona umana, alla comunità cittadina dalla quale da tempo si sentiva estraneo.

* * *

Mi piace pensare che i cani randagi forse avevano rispettato le sue sembianze di uomo buono e il suo sentire raro e prezioso. Gli psicologi invece non dettero alcuno aiuto per interpretare la sua morte e spiegare con un approccio scientifico come si fosse modellata la sua emotività e come fosse stata ingenuamente gestita nella coscienza. Del resto nessuno ormai poteva nutrire interesse per un sentimento di natura spirituale così forte.

Diciamo la verità: in un mondo sempre più omologato nei modelli dominanti del consumo di inderogabili meschini piaceri, di un miserabile volgare edonismo e di strenua difesa del proprio orticello, perseguendo talvolta o giustificando svariate forme di brutale violenza, c’è poco spazio per un qualche anelito al bene, al bello, alla poesia, alla solidarietà umana. Lentamente, ma inesorabilmente, svaniscono i comportamenti disinteressati, le belle amicizie, le condotte virtuose, i valori e gli ideali.

La morte per un sentimento assoluto, per un amore profondo e gentile, non per odio o per vendetta o per esercizio del potere, manca poco che non possa nemmeno essere concepita e accettata se non come racconto eccentrico e grottesco, come una rozza storiella patafisica.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini

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