Daniela Matronola
A proposito di "Autobiografia dei miei cani"

Vite (belle) da cani

Il nuovo libro di Sandra Petrignani insegue il filo della vita vissuta attraverso la relazione con gli animali domestici: un espediente per scavare dentro l'universo degli uomini

“Il nostro addio è stato la stravagante esperienza di una carezza non consegnata”, è un passaggio in cui ci imbattiamo, leggendo Autobiografia dei miei cani di Sandra Petrignani (Gramma Feltrinelli, 206 pagine, 18 Euro), a pagine 196, e sembra raccogliere il senso profondo, esistenziale, del libro, oltre ad essere il punto esatto in cui una volta per tutte i destini animali e umani è dimostrato che coincidono e ruotano gli uni negli altri, anche se non tutti gli umani sanno cogliere questa semplice e spiazzante verità.

Durante la lettura del libro, lenta e appassionante, circolare e cumulativa, tra rievocazione, dialogo amicale e cronaca di oggi, tra storia letteraria dei decenni attraversati dall’autrice e storia del mondo e della società, è costante un senso di struggimento, una percezione di incertezza e di vulnerabilità, in cui, ad esempio, la scrittrice, bambina e poi adolescente, incrocia il destino di numerosi compagni domestici, propriamente suoi o in sintonia con lei da case e famiglie d’altri, con un perenne senso, per noi che ne siamo spettatori, certo di apertura a ogni possibile gamma dell’esperienza ma anche di pericolo, di frangibilità, di rischio.

Ed è questa l’idea di esistenza o meglio di condizione esistenziale che in genere comunicano o ci infondono gli animali domestici di cui ci circondiamo. Più segnatamente, in genere, i cani, che hanno un legame stretto con noi semplicemente per una esigenza autentica di sopravvivenza nel cerchio della famiglia.

Il nostro rapporto con loro o la nostra trascuratezza verso di loro ha il significato di un interruttore vitale.

Questo nuovo libro di Sandra Petrignani ci conferma la sua propensione letteraria e attitudine naturale alla biografia, quindi alla cura, asciutta e generosa, delle vicende personali nelle singole esistenze.

Questo fa quadrare il cerchio della sua vocazione, emersa attraverso numerosi libri, sin da Navigazioni di Circe e (per ragioni che in apparenza poco sembrerebbero entrarci ma neppure troppo misteriosamente vi si conciliano) in Il catalogo dei giocattoli, e poi sempre più chiaramente nei libri più recenti, per una letteratura che faccia innanzitutto i conti con la ricostruzione biografica, col biografismo.

Da La scrittrice abita qui a L’ultima India, poi da Marguerite a La corsara, fino a Addio a Roma, Sandra Petrignani persegue una scrittura che renda conto del senso del nostro stare al mondo come abitanti avventati del pianeta, delle nostre città, delle nostre case, delle intimità familiari, del contesto ambientale in cui caschiamo o scegliamo di vivere e dove incidiamo con le nostre esistenze – con la nostra impronta.

È questo ad includere il rapporto spontaneo con gli animali. E a dare spazio all’interazione quotidiana non solo coi nostri cani (e gatti), ma in generale con le specie che condividono il nostro tassello geografico  – creature di grande dignità il cui impatto sulle nostre vite è significativo di per sé e che tutti noi dovremmo avere maggior sensibilità a riconoscere e saper interpretare, a tenere nel dovuto peso perché l’equilibrio quotidiano delle nostre vite sia innocente e onesto, privo di macchie o di mancanze o di colpe cioè di mai incolpevole incuria.

Leggere questo magnifico libro fa tornare in mente un film di Pupi Avati, Una sconfinata giovinezza, in cui il nodo cruciale, il Big Bang nell’esistenza del protagonista (cronista sportivo, celebrato e temuto, cui si smaglia a un certo punto ogni nitidezza mentale precipitandolo fuori sesto in modo disarmato e violento), è un antico dolore dell’infanzia – la separazione dall’amatissimo cane, un maestoso setter irlandese (dal mantello rosso-Tiziano, come le folte capigliature di due bambine e dei cani Lea e York, madre e figlio, negli anni Sessanta), unico membro della famiglia rimastogli dopo la morte dei genitori in un incidente stradale. Quel cane dunque era suo fratello, l’eredità lasciatagli dai genitori. Per un assurdo scambio tra ragazzini (dei cugini infernali, figli degli zii cui il protagonista bambino, ormai orfano, resta affidato), con impensabile leggerezza il nostro cede il cane che poi finirà non si sa dove perché i cuginetti, passato lo sfizio di averglielo tolto, vorranno disfarsene. Quella povera anima finisce fuori dal campo visivo e il nostro avrà per sempre nel cuore il buco, un dolore sordo e profondo come un pozzo incolmabile, di non aver saputo aver cura del suo unico fratello. Quando, ormai adulto, avanti negli anni e nella carriera, Lino (Fabrizio Bentivoglio) inizia a soffrire di sintomi degenerativi segnaletici dell’Alzheimer, ecco che gli riappare il cane, cioè lo riassale il ricordo incancellato di questo autentico fratello a quattro zampe che da bambino con troppa leggerezza Lino non seppe tenere con sé abbandonandolo a un destino sicuramente tragico. L’unica memoria che regge, la memoria remota dell’infanzia, la memoria pulita, immacolata, gli fa incontrare di nuovo in una bolla di immaginazione il cane-fratello, e subito si fa chiaro che il disastro mentale e esistenziale di oggi non è che l’esito ultimo di una deflagrazione cominciata allora, in quella sciagurata ferita dell’infanzia.

Nel libro di Sandra Petrignani a un certo punto si affaccia un maestoso setter inglese, Ruggero – lui non lo avrà saputo mai ma era il supplente di Martino, un cucciolo salvato dall’autrice e da suo figlio da un canile, dalla salute molto precaria quindi scomparso quasi subito. Ruggero non era buono per la caccia per via di una displasia dell’anca ma come cagnolone effervescente, dai fianchi frementi per indomabile scodinzolio, pieno di vita e di affetto per i suoi umani adottanti, come da racconto, è stato perfetto.

C’è un momento, in Autobiografia dei miei cani, un momento a lungo rimandato perché troppo doloroso, che solo quasi a fine libro arriva e ci piomba addosso come la sciagura orribile che è stata: una tragedia di inconsapevole leggerezza, in cui la perdita è un delitto – la colpa oggettiva è soggettivamente insanabile, e però è anche frutto di distrazione, quindi irrimediabile e allo stesso tempo inesorabile, tanto che il racconto del fatto non può che risolversi (e desiderabilmente dissolversi) in sole tre pagine. Con passo e modo asciutto.

Non per minimizzare. Ma per neutralizzare. Per dare conto senza sconti di una pagina che nella storia c’è ma che si vorrebbe aver saputo prevenire ed evitare, e invece per incauta dimenticanza non è stato possibile impedire, e ora è incancellabile – dunque ora si può solo ridurre a una macchia piccolissima.

Non certo per reticenza. Né per incoscienza.

Tutto il libro è sorretto, in filigrana, proprio strutturalmente, dal dialogo, ripreso a ondate ricorrenti, con un amico scrittore. Il punto vitale di questo dialogo svolto per decenni, fin quando  l’amico non ha ceduto la propria carica di esistente cosciente e senziente alla malattia, è l’incessante ragionamento su letteratura e vita, su come la biografia (ciò che ci accade e cerca di suggerirci un karma o una lettura di noi) possa essere trasposta in pagina letteraria senza tradimenti e però accettando tutti gli incerti e le risorse della traduzione – senza che nulla vada perso ma anzi venga salvato e rivivificato fino a rifulgere in nuova luce.

È il contraltare meditativo, la riflessione letteraria ma anche esistenziale sulla funzione che, nel bilancio e nell’equilibrio di una vita ha la scrittura – pare anche un grado zero della qualità di vita perseguito di pari passo con le passeggiate nei boschi lungo i torrenti tra sentieri nascosti lontano dal fragore meccanico della vita di città, cui pure l’autrice non rinuncia. Non si tratta di ecologismo ma di restare vicino a un’idea di vita il più possibile semplice naturale incondizionata che a dispetto di tutto si collega o dà giusto seguito a un gusto dell’esistere come era percepito durante l’infanzia, quando, senza nemmeno l’illusione del controllo sulle nostre vite, però con naturalezza ci si rivolgeva ad affetti rischiosi e profondissimi ai nostri amici anzi fratelli animali.

Di libro in libro, nella produzione di Petrignani, si è rinforzata la natura, appunto, della tessitura della pagina – sempre nutrita di riferimenti ad opere e autori della grande letteratura come di colleghi scrittori quali altrettanti compagni di strada, in un folto e significativo intreccio con le molte unioni, e i molti amori, e le avventure sentimentali, spassionate almeno quanto, se non più, delle istintive corrispondenze d’amorosi sensi col fraterno mondo animale che da sempre ha circondato l’autrice nel corso dell’esistenza, in una idea dell’accompagnarsi in libertà che, mentre denota zero possessività o senso proprietario, tende piuttosto a lasciare liberi, a lasciar vivere, anche a perdere questi amati compagni – un rischio insito in questo spirito.

Così può succedere che nelle cose possa trovare spazio una mancata carezza o non voluta omissione. È il brivido di un rischio latente, di una carezza mancata, che trova curiosa corrispondenza in una figurina, una indimenticata amichetta dell’infanzia, Wendy, che per noi lettori evoca la versione kubrickiana di The Shining dal romanzo di Stephen King – e fa il paio con la conturbante rievocazione di un Carnevale a Venezia capace di rianimare atmosfere demoniache degne di Eyes Wide Shut. È la magia della pagina di Petrignani che da sempre oscilla tra un realismo documentato e sicuro, affidabile, e tutto il nascosto, e l’aleatorio che ogni buona narrazione promette di sbrigliare e animare presentando un enigma naturale.


La fotografia accanto al titolo è di Roberto Cavallini.

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