Danilo Maestosi
Al museo di San Salvatore in Lauro di Roma

Ritorno alla figurazione

Una bella mostra recupera la stagione della "nuova figurazione" che ha segnato gli anni Sessanta e Settanta nella Capitale. Da Ennio Calabria a Ugo Attardi, da Franco Mulas a Renzo Vespignani

Una mostra ambiziosa e controcorrente, quella appena inaugurata e in cartellone fino al 21 luglio, negli splendidi spazi del museo romano di San Salvatore in Lauro. Ambiziosa perché rivendica come un tema di stringente attualità il ritorno ad un ventennio remoto per le generazioni del nuovo Millennio, quello tra gi anni Sessanta e Settanta, E insegue come obiettivo il rilancio di pittura e scultura, due discipline della tradizione visiva dirottate fuori moda.

Controcorrente perché punta a colmare un vistoso vuoto di analisi e di giudizio aperto dalle rigide classificazioni di tendenze e di gusto della critica più accreditata dal sistema dell’arte. Critica che giustamente registra gli scarti di novità delle avanguardie, ma non setaccia e rifiuta di interrogare i movimenti e le personalità che ne rimodellano i messaggi nella continuità di andirivieni del proprio tempo e del proprio linguaggio, continuano a cercare la propria verità in altri approdi. Finendo così per legittimare una ricostruzione storica incompleta e a singhiozzo, costellata di condanne frettolose alla disattenzione e all’oblio. Di anelli mancanti, come li aveva definiti in un suo saggio pubblicato nel 2002 Domenico Guzzi, critico e storico d’arte, loro collega più rigoroso e meno condizionato dalle logiche del successo personale e del mercato, purtroppo scomparso.

Il merito di riportare in campo questa questione è di un gallerista di lungo corso, Enrico Lombardi, e di suo figlio Lorenzo che lo affianca con il dinamismo della sua età. Insieme hanno costruito il telaio di questa mostra, intestandosene la responsabilità come curatori e coniando il titolo, Figurazione anni ’60-’70 che la battezza. Insieme sono riusciti a coinvolgere nell’operazione una sede museale grande e prestigiosa come il museo di San Salvatore in Lauro, a trovare sostegno finanziario nella Fondazione Terzo Pilastro che sotto la guida dell’ex presidente Emmanuele Emanuele aveva imboccato la stessa direzione. Insieme sono riusciti a ottenere la collaborazione di un gruppo di collaudati esperti da tempo vicini a queste posizioni, Lorenzo Canova, Alberto Dambruoso, Guglielmo Gigliotti, ai quali commissionare i saggi in catalogo e aiuti preziosi per definire i quattro capitoli che scandiscono questa rivisitazione. E anche riceverne un grosso sostegno per scegliere e rastrellare le sessanta opere che le danno corpo. Difficile con un copione a così tante mani e un budget molto limitato costruire una mostra vicina alla perfezione. Ancor più difficile annodare in modo condiviso periodi storici in questi anni in cui la coscienza collettiva del tempo si è frantumata nell’occupazione di un eterno presente. E la destra al governo insegue una deriva autoritaria di autolegittimazione che rischia di smantellare l’approdo nel porto comune della Costituzione, figuriamoci il ripristino di una collana di valutazioni retrò che accontenti tutti.

Troppi gli anellli mancanti da riesaminare, per non lasciarne qualcuno per strada. Come è capitato tra i pittori ad Alberto Sughi e Pino Reggiani e tra gli scultori a Giuliano Vangi. Non sono servite neanche le limitazioni introdotte nel titolo, perché i due decenni sotto i riflettori, gli anni Sessanta e Settanta, rimandano a due rivoluzioni di gusto, abitudini, mutamenti sociali e politici di massa , la stagione dell’Italia del boom e quella del sessantotto, che hanno dilatato la scena, e la schiera dei protagonisti: vistosa la mancanza dei pittori che sulle orme di Mario Schifano hanno ritradotto in italiano gli influssi e l filosofia del pop made in Usa, e di autori che sono migrati verso le terre dell’arte povera.

Regge invece di più lo spartiacque della figurazione, come territorio e bandiera di appartenenza, anche se già allora la distinzione fra i fedeli del realismo iconico e i seguaci dell’arte astratta d’importazione americana stava franando in una fitta rete di reciproche ibridazioni. Tradimenti e sconfinamenti che del resto la mostra non può fare ameno di registrare, soprattutto nel capitolo riservato alla Natura: il tema del paesaggio come specchio conflittuale della espressione della propria interiorità e dell’inconsapevolezza dell’altro da sé e dell’altrove.

A generare altri vuoti e scompensi da soprannumero infine il tentativo di includere in elenco anche i maestri sempreverdi di stagioni precedenti. Certo i due De Chirico del ritorno alla metafisica in chiave pop, il quadro sfolgorante della Raphael, i nudi con sfaccettature cubiste di Pirandello, la natura morta di un Morlotti mai così incupito, le dense pennellate dell’ultimo Ziveri, l’intero capitolo riservato agli scultori del ritorno all’ordine, sono capolavori, in linea con gli intenti di ricucire il tessuto slabbrato della pittura del dopoguerra, che fanno richiamo e cassetta. Ma inserire in percorso un disegno di Balthus, o un foglio di uno Zoran Music che dava sfogo ai suoi ricordi di prigioniero di un lager, due grandi poco presenti nella vita culturale di Roma, e cancellare dalla carrellata dei debiti un pittore come Francis Bacon che nella seconda metà del Novecento ha trasfigurato il tema del ritratto influenzando un’intera generazione di pittori italiani, è errore o capriccio che una rivisitazione calibrata su criteri da museo non avrebbe dovuto permettersi.

Ma sono valutazioni da critico che cerca di mantenere le distanze, perché dentro quel torrente di immagini e di autori ci si è immerso e ha maturato il suo modo d’intendere l’arte e la pittura, come un corpo a corpo continuo con il mondo attorno, che non importa ti consegni la vittoria, perché sul ring dei perdenti c’è spesso più sangue di vita e di verità.

Ecco, forzando troppo il distacco ho finito per dimenticare il vero pregio di questa mostra, fatta in casa con pochi mezzi e molte lacune imposte dalla necessità di arrangiarsi con quel che si trova nel proprio giro. La sincerità di un gallerista cresciuto nell’ambiente romano come Enrico Lombardi, in quegli stessi anni che ha deciso di riproporre qui in passerella. Un testimone che riconosce i limiti della sua formazione e della sua attività sul mercato. E ne fa tesoro imbastendo un racconto, cucito su esperienze, personaggi e incontri vissuti in presa diretta. Con un senso di responsabilità e un groppo di nostalgia di chi porta fiori sulle tombe di amici in un cimitero. Già perché gran parte di quei personaggi qui evocati sono purtroppo scomparsi. L’ultimo a uscire di scena con un inatteso e doloroso congedo è stato Ennio Calabria, pittore e intellettuale in perenne tormento con cui Enrico Lombardi ha condiviso inaugurazioni, bevute e infinite dispute, scambi di opinioni non sempre condivise ma illuminanti sul senso dell’arte, sui tagliafuori del mercato, sulle derive della società.

A lui Enrico Lombardi ha dedicato questa mostra. Un risarcimento della vergognosa disattenzione con cui i vertici nazionali e cittadini del governo e della cultura hanno archiviato la sua morte. Da ammiratore ed amico Lombardi ha tentato di colmare questo vuoto istituzionale accogliendo in catalogo un suo test inedito che registra come in un testamento l’evoluzione del suo pensiero nel misurare la frantumazione della realtà, innescata dalla velocità degli scambi, penetrando nella voragine della soggettività ipertrofica del nuovo Millennio, che rivendica se stessa come unico appiglio di verità praticabile ma si proietta verso territori dell’anima che recuperano gli orizzonti della metafisica.

Ed esponendo nel percorso della prima sala due grandi tele Anni Sessanta, che giganteggiano alle pareti come profezie da Cassandra. La prima per smentire in un cupo incastro di volumi che si avvitano su se stessi l’idea di un progresso continuo e immutabile che guidava Boccioni e il maestri del futurismo. La seconda per registrare la resa al consumo e agli inganni del benessere dell’Italia del boom, nello specchio impietoso e beffardo di una grottesca distesa di corpi che stanno perdendo forma e valori in cambio di un’abbronzatura su una spiaggia da week end.

Manifesti di quella nuova figurazione; così la ribattezzarono Calabria e un’altra qualificata schiera di artisti, che senza rinunciare all’impegno di cambiamento della sinistra vicina al partito comunista, si ribellavano alle regole ferree del realismo sociale, amministrata con polso da dittatore da Guttuso, spostando lo sguardo dall’azione delle masse alla tragedia individuale dei poveri e degli emarginati. Un rovesciamento di punti di vista che qui in mostra si rispecchia anche nel tratteggio cupo con cui Renzo Vespignani registra come un reporter di cronaca nera il paesaggio desolato di un delitto di periferia, il groviglio di lamiere e vite spezzate di un incidente stradale. O anche nella tavolozza brunita e terrosa con cui Ugo Attardi inquadra in un controluce caravaggesco una modella di colore. Il nero dei migranti allora faceva novità per l’Italia.

Tra le chicche del primo capitolo, dedicato alla politica di quel ventennio, due quadri di Franco Mulas, altro grande pittore appena scomparso; un balzo carico di amarezza sulle speranze sfumate della rivolta del ’68:la fantasia non andrà al potere, il titolo che li accomuna. Peccato che questa rivisitazione si fermi lì e non segua l’evoluzione di questi artisti, dentro e oltre la soglia della figurazione, e il loro modo di dipingere una realtà che gli continua a mutare sotto gli occhi, conferendo all’intera loro carriera un senso di attualità, di cui molti critici ufficiali hanno deciso di non prendere nota.

Ma è anche questo un vuoto che non intacca il vero pregio della mostra: accendere l’interesse verso un gruppo di pittori fuori scena come se stessimo osservando un vecchio album di famiglia. Un andirivieni di immagini datate ma tutte di alta qualità che ora ci appaiono nel loro fascino senza tempo. E un’antologia di autori che con le loro opere potrebbero restarti scolpite nella memoria. Spingerti a saperne di più. Eco qualche nome per cominciare: Edolo Masci, Carlo Mattioli, Alberto Gianquinto, Attilio Forgioli, Giuseppe Bancheri, Pablo Echaurren, Franco Ferrari, Lorenzo Tornabuoni. Vincenzo Gaetaniello.


Nelle illustrazioni, dall’alto, opere di: Ennio Calabria, Carlo Mattioli, Giorgio De Chirico e Antonietta Raphael Mafai.

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