Luca Fortis
I diritti dei popoli

Metti Gandhi a Gaza

Quale pacifismo può salvare davvero Gaza? Non quello minato da Hamas e Netanyahu, ma la lotta non violenta di Gandhi e Mandela. Una riflessione non scontata (e non "tifosa") sulla crisi mediorientale

Ormai è talmente difficile poter ragionare sulla questione israelo-palestinese, senza essere schierati da una parte o dall’altra, che a volte si tende a evitare accuratamente il discorso. Le persone come me, che pensano che il popolo palestinese e israeliano siano entrambi da tempo ostaggio dei loro politici, di speculari estremismi religiosi e di interessi geopolitici multipli, hanno veramente difficoltà a poter spiegare i loro dubbi di fronte ai tanti giudizi taglienti di entrambi gli schieramenti.

Nel giro di pochi minuti, al primo dubbio espresso, vengono apostrofati come seguaci della parte avversa di quella per cui “tifa” la persona con cui si parla. Interlocutore che ovviamente sta dalla parte del bene, mentre dall’altra ci sta il male.

Qualcuno che invece percepisce i due popoli, quello israeliano e quello palestinese, come vittime entrambi di propagande religiose, nazionalistiche e degli interessi geopolitici, viene visto per forza come un provocatore.

Giudicare l’attacco del 7 ottobre di Hamas contro la popolazione civile inerme israeliana e il successivo e spropositato attacco israeliano a Gaza, come due atti assolutamente immorali e ingiustificabili dal punto di vista geostrategico, viene vista come una posizione naif.

Con questo articolo vorrei spiegare perché le teorie politiche di Gandhi e Mandela, se applicate al conflitto israelo-palestinese avrebbero più possibilità di riuscita nella risoluzione del conflitto, che 70 anni di guerre e violenza, che hanno portato a un perenne stallo. Per esempio se tutti i palestinesi sparsi nel mondo, compresi quello che vivono in Israele e Palestina, facessero una volta alla settimana una protesta pacifista, simultanea in tutto il mondo, in cui si dicesse: «Fratello israeliano, siamo disponibili a condividerà questa terra con te, se solo tu volessi condividerla con noi».

Di fronte a una mossa così mediatica, dirompente, i coloni israeliani sarebbero nudi di fronte alla loro colonizzazione e non potrebbero sostenere davanti al mondo che l’aumento degli insediamenti in Palestina sia dovuto alla necessità di difendersi dalla violenza dei palestinesi.

Anche Hamas e l’Iran – cioè una potenza coloniale non meno audace di quella israeliana, come sanno bene i libanesi, i siriani, gli iracheni e gli yemeniti – sarebbero spiazzati. Infatti, sia i Fratelli Musulmani, a cui Hamas è affiliata, che gli ayatollah iraniani, hanno bisogno di un nemico da affrontare con retorica e violenza, in modo tale da poter giustificare l’imposizione delle loro ideologie estremiste, su popolazioni arabe, curde, turche e persiane, storicamente tolleranti e multi confessionali.

Sulla carta è difficile trovare persone che non si dicano favorevoli alla costruzione di due stati indipendenti e integrati tra loro, ma nella pratica si usa la scusa della violenza dell’altro, per minare da dentro tale processo. Su questo Hamas, gli ayatollah khomeinisti e il governo di Netanyahu sono di fatto alleati, perché per sopravvivere hanno bisogno della sopravvivenza del loro nemico. Per rompere questo meccanismo servirebbe una mossa dirompente e il pacifismo di Ghandi e Mandela potrebbero esserlo. Soprattutto se portato avanti dal più debole, dalla vittima.

I palestinesi sono vittime non solo del colonialismo israeliano, ma anche di quello iraniano. L’Iran da millenni è una potenza imperiale e geopolitica e anche oggi compete con l’Arabia Saudita per rafforzare il suo dominio.

L’esportazione della velāyat-e faqih, tradotto in italiano “tutela del giurisperito”, l’ideologia sciita creata da Khomeini negli anni Settanta, è da sempre al centro della politica della Repubblica Islamica e nonostante la propaganda la faccia passare come una difesa degli sciiti, contro le aggressioni altrui, la popolazione iraniana, siriana, irachena e libanese, non sembra essere dello stesso parere, visto le continue proteste, migrazioni di massa, conflitti, che dilaniano queste società multiculturali. Basti pensare alla strenua battaglia delle donne iraniane per togliersi il velo e vivere secondo l’autentica tradizione persiana, liberandosi di un’ideologia che percepiscono come inventata di sana pianta da Khomeini.

I palestinesi sono sunniti e cristiani, non sciiti, eppure per l’Iran hanno una valenza geopolitica fondamentale, perché insieme a Hezbollah, permettono agli iraniani di continuare la loro guerra per procura agli israeliani. Conflitto per procura che gli serve a fine di propaganda geopolitica.

Al contrario del pacifismo, la teoria khomeinista, fin dagli esordi, prevede la teoria del martirio, basti pensare a quanti iraniani furono mandati morire con la scusa della religione, durante la guerra Iran-Iraq, nonostante l’ironico particolare che tutti e due i paesi fossero a maggioranza sciita.

Ora è assolutamente ovvio che sia gli ayatollah iraniani che Hamas, conoscano bene la consuetudine israeliana di rispondere ad ogni attacco in modo sproporzionato, anche perché si tratta di una tattica militare dichiarata, quindi era ovvio che, per gli strateghi militari di Hamas e degli ayatollah khomeinisti, una parte dei palestinesi fossero sacrificabili, fossero destinati al martirio, volenti o nolenti.

In questo senso non sono solo gli israeliani a colonizzare i palestinesi, ma anche il governo iraniano. Il popolo di Gaza per decenni è stato isolato, ma non lo sono stati i governanti di Hamas. Come sa bene oggi il governo ucraino, i missili costano e un paese davvero isolato non potrebbe permetterseli, quindi se Hamas ha potuto riempire i suoi arsenali e ha potuto costruire una formidabile rete di tunnel, è perché le risorse economiche invece di giovare al popolo, sono servite a militarizzare la striscia.

Si potrebbe sostenere che questo abbia permesso ai palestinesi di vincere la loro battaglia, ma non è così. Se così fosse, Gaza oggi non sarebbe rasa al suolo. Alcuni potrebbero dire che Israele lo avrebbe fatto comunque, ma non è così, la destra israeliana lo ha potuto fare, perché ha potuto dire che era in risposta alla violenza palestinese del 7 ottobre.

In fondo anche il Libano è crollato perché Hezbollah ha creato uno stato nello stato, che ha il potere di trascinare il paese in guerra contro la volontà del governo e dell’esercito ufficiale, con il risultato che sia i sauditi che gli americani hanno smesso di finanziare il paese, che è quindi andato in bancarotta.

Qualcuno potrebbe contestare che però in qualche modo bisogna pur fermare il colonialismo israeliano ed è qui che entra in gioco il pacifismo. Se è grazie alla foglia di fico fornita dalla violenza di Hamas e di Hezbollah, che gli israeliani nascondono il loro espansionismo, ecco che bisogna spiazzarli con il pacifismo. Con scioperi di massa, anche della fame, in cui si chiarisca che nessuno, da una parte, come dall’altra verrà “buttato a mare”, ma che il perdono, in cambio di una verità storica, permetterà una nuova convivenza.

Molti direbbero che già Arafat e Rabin, ci avevano provato ed è andata male. Ma Arafat e Rabin, non erano due esponenti del pacifismo mondiale, bensì due leader politici che avevano giustamente scelto di fermare un conflitto e che sono stati sconfitti dagli estremisti di ogni schieramento. Quello che servirebbe ora è un movimento pacifista, trasversale e mondiale, che parta però dai palestinesi perché per essere forte e dirompente, deve partire proprio dalle vittime e sostenuto anche da una parte della popolazione israeliana, anch’essa vittima della propaganda dei propri politici e di reali crimini di Hamas ed Hezbollah.

Certo fino a oggi, all’orizzonte sembrano mancare un Mandela o un Gandhi che sappiano far uscire i palestinesi dalla trappola dell’eterna vendetta o della vittoria totale sul nemico. Mandela e Gandhi, come dimostrano bene l’India ed il Sud Africa, non promettevano il paradiso in terra, ma la “normalità” con tutte le sue difficoltà. Una normalità che però rimane un sogno irraggiungibile per un iraniano che vive nel paradiso in terra di Khomeini o un arabo in quello dei Fratelli Musulmani, così come la “normalità” sarebbe stata irraggiungibile per un russo nello stato ugualitario di Stalin, per un cinese in quello di Mao o per un cambogiano nel “sogno” di Pol Pot.

Queste grandi ideologie hanno promesso il paradiso, la giustizia e l’uguaglianza in terra e creato invece inferni ideologici, mentre il pacifismo non promette sogni, ma semplice normalità e gestione del conflitto con il compromesso e dure realtà, perché alla fine tutti calpestiamo lo stesso suolo.

È probabile che Hamas, come già fatto da Hezbollah, pur di rimanere al potere di fronte alla forza militare di Israele, finisca per venirvi a patti, ma questo non dovrebbe bastare a una battaglia pacifista in favore dei palestinesi.

Un vero pacifista dovrebbe combattere per una Palestina dove i diritti umani siano rispettati e dove il tradizionale pluralismo religioso arabo e moderne forme di laicità possano convivere. Basti vedere come il trionfo di Hezbollah in Libano ha comportato una migrazione di massa dal paese, in quanto nessun libanese pensa che il Libano abbia alcun futuro.

Un pacifista dovrebbe comprendere che non serve a molto far nascere un paese indipendente, se poi l’unica chance di sviluppo della sua classe media è l’emigrazione. Ecco perché il rispetto dei diritti umani e civili e l’integrazione economica con i vicini, non va chiesta solo a Israele, ma anche ad Hamas in Palestina e Hezbollah in Libano.

Se paesi come la Turchia, la Siria, l’Iran, la Giordania, L’Arabia Saudita, l’Iraq, gli Emirati, l’Oman e l’Egitto, fossero maggiormente integrati con l’Europa, in un mondo pluralistico, democratico e di riconoscimento reciproco, visto che i popoli dell’area si conoscono e influenzano da millenni, si potrebbe creare una delle aree più ricche del mondo.

In fondo il vero virus che l’Europa ha trasmesso agli altri paesi, non è il colonialismo ottocentesco, che è presente in forme diverse anche in altre culture, ma il nazionalismo. Quel nazionalismo che ha distrutto imperi multietnici e multi religiosi, creando le basi per guerre e genocidi. I risultati sono nuove nazioni piene di religioni e culture diverse che rischiano di implodere in continuazione, perché inseguono la chimera del nazionalismo, con il rischio di veder nascere nuovi stati monoculturali sempre più piccoli.

Ma negli imperi arabi, turchi e persiani, non vi erano aree omogenee culturalmente o religiosamente e se vi sono oggi, spesso sono la conseguenza di migrazioni di massa, se non di pulizia etnica. Anche l’Islam, non avendo un Papa, né strutture religiose unificate, di per sé può trionfare solamente in contenitori politici che ammettano il pluralismo interpretativo.

L’integralismo islamico di oggi, che non accetta più la libertà di interpretazione del Corano, fu teorizzato per la prima volta per inseguire le ideologie che nacquero in Occidente, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Quelle ideologie che volevano le nazioni uniformi culturalmente al loro interno. Ecco perché un vero pacifista, non può che contestare il dogmatismo degli ayatollah iraniani che sposano l’ideologia khomeinista o dei Fratelli Musulmani, in quanto sono riforme dell’Islam che hanno inserito elementi tipici delle ideologie legate ai nazionalismi e alle idee europee e americane di fine 800 e inizio 900.

Questi movimenti pretendono di tornare alle origini dell’Islam, ma hanno più in comune con il fascismo o il comunismo che con i primi califfati islamici.

I primi califfati erano entità pluralistiche e aperte, come gli antichi romani. Dopo aver conquistato popoli diversi, ne garantivano il pluralismo religioso e sociale, in cambio della supremazia politica. Mentre gli integralisti islamici di oggi si ispirano alle idee mussoliniane e staliniste, in cui era il partito politico unico che si faceva interprete delle regole della morale pubblica.

In fondo, se nei paesi islamici della regione, si creassero figure politiche, che ispirandosi ai primi califfi arabi, li sostituissero con quella di un moderno garante, un califfo contemporaneo, si potrebbero, rimanendo perfettamente nella tradizione degli imperi arabi, turchi e persiani, creare mondi multiculturali, magari riuniti in confederazioni, aderenti alle esigenze della modernità. I primi califfati, con la loro storia multiconfessionale e aperta alle scienze, dovrebbero rappresentare quello che per l’Europa rappresenta la Grecia o Roma. Certo per un vero pacifista, bisognerebbe anche lottare perché queste confederazioni, rinuncino alla guerra come forma politica accettabile per far prevalere le loro idee. La guerra dovrebbe essere vista come semplicemente difensiva e anche in questo caso, come ultima ratio.

Questo vale anche per l’Unione Europea o gli Stati Uniti, ovviamente. In fondo, anche l’Unione Europea, è anche essa il superamento dei nazionalismi europei, che in poco meno di cento anni, hanno portato a milioni di morti, per un ritorno a un’entità politica multinazionale, che potrebbe essere paragonata ai vecchi imperi, mitigati dai diritti universali dell’uomo di stampo illuministico e dal diritto internazionale.

Così la questione Israelo-palestinese non può essere scissa dalla creazione degli stati post coloniali, laddove prima esistevano da millenni solo grandi imperi multiculturali. Imperi decaduti con il passare del tempo e conquistati a loro volta da altri imperi.

Anche la questione di Israele come corpo estraneo, popolato da europei colonizzatori, va presa con cautela, in quanto milioni di ebrei che vivono in Israele sono in realtà ex cittadini dell’impero ottomano e iraniano.

Inoltre, non va sottovalutato come tutte le guerre mediorientali degli ultimi anni, compreso quella israeliano-palestinese sono intimamente legate tra di loro, in quanto potenze locali, come non, si fanno guerre indirette utilizzando milizie e partiti, nei paesi vicini considerati più fragili. Un modo per non affrontarsi mai direttamente, che sfrutta le occasioni create di volta in volta in paesi terzi.

Quello che servirebbe sono leader politici e un movimento pacifista che oltre a proporre forme di confederazioni statuali più ampie, multiconfessionali, ispirate ai primi califfati arabi, e ai classici diritti universali dell’uomo di stampo illuministico e al diritto internazionale, si facciano promotori di idee come quella africana dell’ubuntu, che tanto ha ispirato Mandela.

Ubuntu è una teoria e un’etica nata nell’Africa sub-sahariana che si focalizza sulla lealtà e sulle relazioni reciproche delle persone.

È un’espressione in lingua Bantu che indica “benevolenza verso il prossimo”. Appellandosi all’Ubuntu si è soliti dire Umuntu ngumuntu ngabantu, “io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”. È una regola di vita, basata sulla “comprensione, il rispetto dell’altro. L’Ubuntu esorta a sostenersi e aiutarsi reciprocamente, a prendere coscienza non solo dei propri diritti, ma anche dei propri doveri, poiché è una spinta ideale verso l’umanità intera, un desiderio di pace”.

Ecco che le radici dei primi califfati, della cultura romana, greca e bizantina, che queste terre hanno governato, le radici comuni dell’Islam, cristianesimo ed ebraismo, l’illuminismo con i diritti universali dell’uomo e le idee politiche di Gandhi e Mandela, possono essere le armi con cui un moderno pacifista può lottare per politiche che siano una risposta efficace, spiazzante e pratica, che si contrappongano alla visione di chi vede il conflitto come la vera risposta pratica e razionale.

La storia dimostra il contrario, sangue chiama sangue, mentre una visione che prevede il pluralismo, la convivenza e soprattutto il compromesso quotidiano, creano le basi per una vita normale e in fondo è proprio di normalità che ha tanto bisogno l’area geografica che un tempo faceva parte degli imperi persiani, arabi e ottomani e prima ancora bizantino e romano. Per far questo servono però leader che sappiano ispirare le masse, ecco perché è importante battersi per la scarcerazione di leader politici che tali battaglie potrebbero ispirare.


Le fotografie inserite nel testo di Luca Fortis sono le immagini di Alejandro Cegarra (The New York Times-Bloomberg) che hanno vinto la sezione Long Term Project del World Press Photo 2024.

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