Danilo Maestosi
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma

La Madonna di Gaza

Il prestigioso premio World Press Photo va a questa immagine di Mohammed Salem scatta a Gaza. La sua verità è unica testimonianza d'arte possibile di quella tragedia

Ecco la foto dell’anno. Scelta tra le oltre 61 mila immagini, scattate da centinaia di reporter di tutti i continenti e 130 paesi, che hanno partecipato al prestigioso concorso sull’informazione visiva della Word Press Photo che va avanti dal 1955. Non è per molti una novità, circola da giorni sui social, segnalata da condivisioni e commenti.

La novità è che questa foto è il pezzo forte di una mostra, ospitata fino al 9 giugno in anteprima per l’Italia dal Palaxpo di Roma. Uno spettacolo da non perdere, non confinato in un’area di specialisti, che apre la mente ed il cuore. E dal vivo: separato dal consumo all’ingrosso onnivoro e straripante della Rete, è davvero altra cosa. Acquista presenza e significati di un di un’icona da custodire nella memoria e citare come siamo abituati a fare con i capolavori dei musei. Con solo il piccolo sforzo in più di un’elaborazione culturale di ricordi e riferimenti a un nostro comune già visto.

Così provo a raccontarla. Partendo dalla didascalia che la colloca nello spazio e nel tempo. È stata scattata da un reporter palestinese, Mohammed Salem, che lavora per l’agenzia tedesca Reuter, il 17 ottobre, nella striscia di Gaza, in un villaggio al Sud, Khan Younis, dove gli abitanti della capitale sotto assedio e bombardati erano stati invitati a trasferirsi e mettersi al riparo dallo stesso esercito israeliano. Una tragica beffa. Le bombe hanno raggiunto le famiglie di sfollati anche lì.

Due giorni prima un missile ha centrato la piccola casa dove Inas Abu Maamar, 36 anni, si era rifugiata con i suoi parenti. Cinque morti. Tra queste vittime innocenti, anche sua nipote, Saly, di appena cinque anni.

Il reporter ha sorpreso la donna che prima della cerimonia funebre abbraccia il corpo del bambino, benedetto e avvolto in un sudario. Un’istantanea senza ritocchi, scolpita da solo quattro colori. Il grigio della parete sullo sfondo e del pavimento. Il bianco del lenzuolo piegato attorno al corpo e al capo. Il blu della veste che copre il corpo accovacciato della donna, da cui spunta solo una mano piegata ad accarezzare il volto di quella vita spezzata. E infine il giallo arancio, un colore che nella tradizione della pittura è già sfida. Il colore del velo che copre la faccia dell’Addolorata.

Sì perché quella immagine ha gli stessi tratti e la posa di una madonna che tante volte abbiamo visto. E ora perché li nasconde? Un’usanza da donna musulmana? Troppo facile cavarsela così, visto che la somiglianza con una Madonna del nostro Rinascimento, eccellenza della nostra iconografia cattolica per dirla alla Giorgia Meloni, è già scattata a indirizzare riflessioni e pensieri.

Pudore e impotenza di fronte a un dolore così grande? Certo l’obiettivo ha colto anche questo, ha riconosciuto e adottato quelle emozioni all’istante. Le ha abitate e interrogate come uno spettatore a teatro. E allora proviamo a farlo anche noi. Cercando di capire perché quest’immagine ci colpisce tanto e tanto ha colpito la giuria che l’ha premiata. E se fosse perché quello sguardo nascosto ci trasmette anche un desiderio di fuga, inutile negarlo. Una scorciatoia verso la tregua, della rassegnazione e dell’oblio?

L’invisibile che diventa visibile: la mutazione che è traguardo, marchio inconfondibile di un’opera d’arte. Di un frammento obliquo di verità che davvero ti risveglia dentro il senso inconsapevole della vita, ti vaccina contro l’ipocrisia della ragione che finge di poter gestire il tuo equilibrio e il tuo bene. Come fanno tanti commentatori nostrani che alzano il dito contro gli studenti che occupano le università di mezzo mondo in segno di solidarietà ai civili palestinesi sottoposti a massacri, dimenticando che cosa facevano anche loro negli anni della guerra in Vietnam, decisi a togliere ad ogni costo la parola ai pochi ribelli di una generazione, alla quale questo nostro Occidente di vecchi sta pregiudicando il futuro.

Insomma una foto d’arte, che compensa la delusione di tanta pittura di oggi: in quest’ultimo anno non ho visto un quadro o un’opera sulla guerra di Palestina di così intensa efficacia. Forse solo un’icona messa in rete da Banksy, tre altalene vuote in uno slargo di Rafah e, solo sulle ombre a terra, le immagini evanescenti di bambini che ci si dondolavano. Ma Banksy è un artista, un maestro dell’arte di strada che la critica stenta a inquadrare.

Sì, queste foto, questo tipo di foto, hanno molto da insegnare agli artisti di oggi che non riescono più a misurarsi con altra realtà che la forma da imprimere alle loro opere. Perché stiano sul mercato. E a tanti colleghi giornalisti che la realtà sui teatri di sofferenza e di guerra se la fabbricano a tavolino, incollando idee che non sottopongono a nessun vaglio.

Una salutare lezione da prendere a esempio quella di questa mostra. E di gran parte delle foto premiate o comunque laureate con diplomi di merito che sono esposte alle pareti. Possono essere le sequenze in bianco e nero di un reportage in Messico, per documentare la follia e la brutalità di un paese che vessato dai muri eretti dagli americani contro i propri migranti ne ha eretti altri contro i poveri in fuga dal Venezuela. O le immagini psichedeliche ottenute, manipolando scatti degli incendi in Australia, versandoci su e graffiando inchiostri di altri colori, per sottolineare l’inferno ecologico che il clima avvelenato e impazzito sta scatenando.

Lo stesso effetto, stavolta senza trucchi, che appare moltiplicato dalla desolazione di due soli scatti. Quelli che documentano l’inattesa siccità di alcune zone della più profonda foresta amazzonica: i letti di grandi fumi prosciugati e trasformati in piste polverose che stanno rendendo ancora più irraggiungibile e difficile da abitare la loro regione, un tempo meravigliosa.


La foto qui sopra è di Julia Kochetova, reporter ucraina, che con questa immagine ha ricevuto il premio “Open Format”.

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