Leo Carlesimo
Una storia romana

La libertà di Diana

Inizia un romanzo inedito che sarà pubblicato in quattro puntate ogni settimana. «Diana era figlia unica di una famiglia molto tradizionale: padre magistrato, madre rigorosamente casalinga, ma donna colta, grande lettrice, perfettamente a suo agio col greco e col latino...»

Così affiatati. E così diversi. Questo ripetevano di Diana e Lucio gli amici, dopo quasi vent’anni di matrimonio. La coppia più longeva del gruppo. La prima a formarsi, a fare sul serio. Ne erano venuti tre figli, stabilità, successo economico. Un sodalizio di lungo corso ancora in grado di esprimere slanci e aprire nuove prospettive, pur dopo tanto tempo. Come la novità che annunciarono loro a tavola quella sera.

“Abbiamo poi preso quel terreno poco lontano da Morlupo, sulla Flaminia,” disse Diana.

“Un ettaro di bosco con un casale. Su uno scorcio di collina che pare ritagliato da un altro secolo, ci sono persino le scuderie,” proseguì Lucio.

“Non credevo esistessero posti così a due passi da Roma… I lavori di ristrutturazione cominceranno il mese prossimo. Spero che per la fine dell’estate riusciremo a entrare,” Diana distribuì a tutti uno dei suoi sorrisi. A Mauro, fin dai tempi del liceo, avevano sempre fatto un effetto duplice: da un lato gli parevano uno strumento per sondare gli altri, chiederne o carpirne il giudizio; dall’altro mascheravano la vera questione, nascosta dietro. Ormai la conosceva bene: Diana vi faceva ricorso quand’era in difficoltà, spinta su un limite. Sorrisi in apparenza incerti e timorosi; in realtà penetranti come gli spilloni di un agopuntore: senza accorgertene, te li ritrovi conficcati in corpo, che ti lavorano.

“Stavolta abbiamo proprio esagerato: quattrocento metri quadri su due piani, da perdercisi dentro…” andava dicendo Lucio.

Piazza Caprera, quartiere Trieste. Una cena in pizzeria tra ex-compagni di scuola. Il loro vecchio liceo biancheggiava dietro la siepe di palazzi. Attorno al tranquillo cerchio della fontana un gruppetto di ragazzini giocava a freesby alla fioca luce dei lampioni. Una di quelle miti serate autunnali che sul groviglio di viuzze serpeggianti tra Viale Gorizia, Corso Trieste e la Nomentana, sul retro di Villa Paganini, stendono un velo d’ingannevole serenità. L’attardarsi dell’estate assume tante forme in città, ogni quartiere di Roma ha le sue.

“Beh, ma siete sicuri? Trasferirvi in campagna con gli impegni di lavoro che avete tutt’e due, i figli che vanno a scuola…”

“Oh, ma non lasceremo Roma,” rispose Diana. “Sarà solo uno sfogo, quand’occorre. Per tirare un po’ il fiato. Brevi vacanze, week-end allungati…” Sorriso.

Comparve il cameriere, a prendere le ordinazioni. Rituale che aveva resistito al tempo, quella cena. Una dozzina di ex-compagni di classe che tutti gli anni, grossomodo alla ripresa scolastica, si ritrovavano in una trattoria alla buona, scelta nei dintorni del loro vecchio liceo. Miracolosamente, nel corso di vite lavori e storie divergenti, lontane geograficamente, dissimili per intenti e scelte ma abbastanza uniformi – e perlopiù deludenti – nei risultati, si produceva una volta all’anno quell’intersezione che riportava i dodici – sei donne e sei uomini – attorno a un tavolo con la tovaglia di carta, a mangiare le stesse pizze e bere le stesse birre di quand’erano ragazzi e dividersi poi il conto da pochi euro come allora. Uno dei sottotesti di quelle cene egalitarie era: cancelliamo le differenze che la vita ha prodotto tra noi, torniamo per un attimo quelli là, facciamo finta. Ve n’erano altri di sottomessaggi, meno espliciti e forse meno innocenti, si disse Mauro; i sorrisi di Diana ne inviavano uno.

 

Lo stesso sorriso con cui s’era presentata in classe tanti anni prima, in un’aula distante non più di cento metri da lì. Una brunetta esile vestita all’antica, provinciale e fuori luogo in uno dei più prestigiosi licei romani: i capelli tenuti su con le forcine raccolti sotto un cerchietto di tartaruga, una gonna plissé di panno grigio, calze spesse e opache su scarpe di vernice. Però tanto ordinata, tanto pulita; e in apparenza così spaesata. Rispondendo all’appello della prof, che la presentava ai compagni, s’alzò in piedi tenendo gli occhi bassi, intimidita da quella classe di sconosciuti. Lei, proveniente da un paesello del meridione, ci metteva piede allora per la prima volta; Lucio, Mauro e gli altri, cittadini, la frequentavano fin dal ginnasio.

Diana era figlia unica di una famiglia molto tradizionale: padre magistrato, appena trasferitosi a Roma per via di una promozione (Consigliere di Corte di Cassazione) madre rigorosamente casalinga, ma donna colta, grande lettrice, perfettamente a suo agio col greco e col latino. Vigilava severamente sugli studi della figlia, per non parlare dei suoi costumi. Avevano una domestica venuta su assieme a loro dall’Isola; e abitavano in un palazzo signorile, ma non lussuoso, nel primo tratto di via Nizza, poco lontano da piazza Fiume.

Anche Lucio era figlio unico, i genitori erano commercianti. Il padre, uomo pratico che s’era fatto da solo, possedeva una fabbrichetta di articoli sanitari e rubinetteria sulla Salaria, dalle parti di Monterotondo, e un importante negozio di vendita al dettaglio in via Po. Una famiglia di arricchiti, salita dal basso. Abitavano un grande attico in via Panama, il padre guidava macchinoni nuovi fiammanti cambiandone all’incirca uno all’anno; la madre sfoggiava pellicce e gioielli e anche se non sapeva leggere un rigo né di greco né di latino, un punto in comune con la madre di Diana l’aveva: l’attaccamento vigile, ai limiti del possessivo, per quell’unico figlio maschio.

 

Ancora tanto diversi. Eppure così affiatati. A conclusione della cena a piazza Caprera, questi furono anche stavolta i commenti che – partiti Lucio e Diana – Mauro scambiò coi quattro o cinque single della brigata: quelli che, come lui privi d’impegni con coniugi e prole, erano rimasti al tavolo a tirar tardi, tra giri d’amaro e chiacchiere a vuoto, per allungare un po’ la serata prima di far rientro in tristi case vuote. Più tardi – mentre si lavava i denti, indossava un pigiama pulito e si coricava a smaltire la sbronza – gli tornarono in mente quei sorrisi. Una richiesta d’aiuto? Loro ci avevano scherzato sopra, quell’iniziativa presa a quarant’anni di andare a vivere in campagna era stata oggetto di battute triviali, che mancavano del tutto il bersaglio. Perché ce n’era uno, stavolta, che le loro sciocche spiritosaggini non avevano colto: tra quei due stava accadendo qualcosa. Mauro s’addormentò inseguendo pensieri… Non era male, quanto a intuito, nello scovare indizi interessanti nei fatti altrui: le prime impercettibili crepe di una carriera, di un’amicizia, di un matrimonio. Il fatto che stavolta il matrimonio riguardasse una donna che – lo sapevano tutti – fin dai tempi della scuola gli era sempre piaciuta, avrebbe forse dovuto spingere le sue fantasie verso uno scopo. Ma invece di analizzare razionalmente quei segnali, ci arzigogolò intorno, li adattò ai propri desideri, trasformandoli in sogni. Il suo libro dei sogni, che non si realizzavano mai.

 

Le divergenze tra quei due, però, c’erano eccome, su questo non sbagliava. Saltavano agli occhi fin dai tempi della scuola. Diana era un’allieva diligente, molto composta, seria e studiosa. Andava bene in tutte le materie ed eccelleva in greco, latino, storia e filosofia. Lucio invece era un po’ uno sbruffoncello, piccolo caporione dei gruppetti che via via, nel corso del ginnasio e poi del liceo, si formavano attorno a questioni cruciali nelle vite di adolescenti dei quartieri buoni: l’organizzazione di feste e tornei sportivi, le prime canne e le prime scopate, le settimane bianche e le vacanze estive. In quasi tutte le materie era appena sopra o giusto in pelino sotto la sufficienza, però riusciva bene nei tornei di ping pong e soprattutto a tennis era un piccolo asso.

Diana era piuttosto chiusa, guardinga più che timida, non faceva amicizia facilmente, parlava pochissimo di sé, dopo le lezioni filava dritta a casa e non c’era, in classe, una ragazza che potesse dirsi sua confidente. Veniva a scuola, studiava, prendeva ottimi voti e se ne andava. Per Lucio lo studio era solo uno dei tanti aspetti, non certo il più importante, di ciò il liceo rappresenta per un diciottenne. Quella scuola era il suo palcoscenico, la sua arena. Ci nuotava come un pesce nell’acqua.

Era uno che aveva successo con le ragazze. Ne aveva cambiate più o meno una dozzina nei quattro anni di ginnasio-liceo che aveva alle spalle. Bel tipo, esuberante, estroverso, allegro: parecchie delle fanciulle in fiore più in voga al Giulio facevano a gara per farsi un giro con lui. Per cui parve a tutti un po’ strano l’interesse che a un certo punto – grossomodo subito prima della pausa natalizia – sia Mauro che gli altri notarono in Lucio per quella nuova: bellina, certo; ma così fredda, così compassata, così scostante. Piuttosto scialba e antiquata, in realtà, e per di più secchiona. Non all’altezza delle mire di un tipo brillante come Lucio. Mauro provò a metterla così, per allontanare il pericolo. Lui, timido e taciturno, con le ragazze non ci aveva mai saputo fare; e in quella provincialotta isolana tanto chiusa e spaesata, forse bisognosa d’aiuto, aveva intravisto una possibilità alla sua portata.

“Questa è la volta che piglia buca,” sentenziò.

“Figurati,” gli rispose un compagno, con un’alzata di spalle. “Uno come Lucio. Se la fa e la molla il giorno dopo, il tempo di togliersi lo sfizio.”

“Voi maschi non vedete più in là del vostro naso. Quella è una gatta morta. State a guardare come lo frega.”

Questi i commenti che allora scambiò con alcuni di coloro che poi, negli anni a venire, avrebbero partecipato a quelle cene. Manco a dirlo, quella che ci andò più vicino fu la ragazza, se per ‘fregarlo’ intendeva: ci si fidanza, lo sposa, ci fa dei figli, mette su famiglia. Ma è quasi certo che neanche lei immaginasse sviluppi tanto gravi.

 

La cosa successe durante le vacanze di Natale. Alla ripresa, dopo la befana, Diana e Lucio sedettero allo stesso banco: stavano insieme. E cominciò l’osmosi, quel plasmarsi reciproco che proseguì nel tempo. Durò a lungo, perché aveva un vasto campo da coprire. Il profitto di Lucio in diverse materie migliorò. Diana cominciò a comparire di quando in quando a qualche festa. La presenza di Lucio si diradò parecchio in tutte le occasioni mondane – feste, tornei sportivi, scherzi goliardici – di cui fino a pochi mesi prima era stato animatore. L’abbigliamento di Diana divenne più spigliato, prese un po’ di colore; senza mai farsi sciatto come quello delle coetanee, se ne rese un po’ meno dissimile. Parteciparono entrambi alla cena dei cento giorni, ma rientrarono a mezzanotte, mentre il gruppetto dei più tenaci – che una volta Lucio avrebbe capeggiato – tirò l’alba. Alla maturità Diana si prese uno dei tre sessanta che toccarono alla sezione, Lucio sfangò un discreto quarantotto, fin troppo generoso per lui.

Usciti dal limbo della scuola, cominciarono a succedere altre cose e le loro vite a esserne orientate. S’iscrissero entrambi all’università. Diana, contro il parere della madre, a psicologia. Lucio, contro il parere del padre, a giurisprudenza.

Per la madre di Diana psicologia era un campo di studi decisamente troppo liberale e moderno, sospetto, avrebbe certo preferito lettere antiche o storia dell’arte. Quel ramo sostanzialmente ateo – a-teleologico, anti-sistematico – delle scienze umane l’avrebbe portata a  leggere libri che avviavano su una cattiva strada e a misurarsi con una disciplina dissacrante, seminatrice di dubbi, senza avere anticorpi abbastanza robusti per assimilarla con senso critico. Fece di tutto per impedirglielo, piuttosto avrebbe preferito persino qualche facoltà tecnico-scientifica, magari addirittura ingegneria (opzione ancor più rivoluzionaria, all’epoca: la percentuale di donne iscritte a quella facoltà non superava l’un per cento). Quanto al padre di Lucio, non era contro giurisprudenza, ma contro l’istruzione universitaria tout-court. Lui non aveva studiato, s’era fatto da solo e non nutriva nessuna fiducia nel contributo che studi superiori e un discutibile affinamento di forma mentis indotto dalla cultura possono dare agli affari. Perché era quello il destino di Lucio. Avrebbe voluto inserirlo fin d’allora in azienda, avviare subito una successione di cui – come si vide in seguito – ci fu effettivamente un precoce bisogno. A che serviva una laurea in legge? Anni buttati.

Su questo punto, però, i ragazzi tennero duro. Vinsero entrambi il braccio di ferro familiare e s’iscrissero alle facoltà che avevano scelto. Ma non era mica finita, coi genitori, macché.

Oltre a osteggiare psicologia, la madre di Diana non approvava quel suo semi-fidanzamento con Lucio. E una figlia non può mica vincerle tutte – o un genitore perderle tutte – le battaglie domestiche che combatte. Aveva ceduto sull’università, non le avrebbe consentito di spuntarla anche sul fidanzato. Da parte sua, nessuna difficoltà ad ammettere che le ragioni per cui voleva allontanare Lucio dalla figlia consistevano essenzialmente in pregiudizi sociali e culturali. Anzi, quei pregiudizi lei li rivendicava (il seguito prova che non aveva del tutto torto). La famiglia di Lucio era una famiglia di commercianti. Molto benestante, pressoché ricca, ma pur sempre di commercianti. Loro erano una famiglia di magistrati, avevano un livello intellettuale diverso. Da donna volitiva e tenace – qualità che, come lei stessa sperimentò a suo danno, aveva geneticamente trasmesso alla figlia – non si fece scupolo d’intervenire autoritariamente, le proibì di continuare a frequentare quel ragazzo.

Perciò, i primi anni post-liceali di Diana e Lucio, singolarmente e come coppia, furono un po’ contrastati. Dovettero convivere quotidianamente, in casa, con l’ostilità paterna e materna per il campo di studi che s’erano intestarditi a scegliere; e dovettero vedersi quasi di nascosto, non troppo di frequente, pressoché mai la sera. Questo pesò più su Diana che su Lucio. Lei si trovò a combattere una sotterranea guerra di liberazione: a tu per tu con la madre, in casa con lei, ostinandosi a frequentare un ragazzo che lei disapprovava, a seguire lezioni universitarie ch’erano viste come una minaccia, a leggere libri che sua mamma trattava con ribrezzo tutte le volte che li trovava sparsi in giro per casa. Fu una lotta più sofferta del necessario, perché troppo onesta: Diana non era una che fa facilmente ricorso a sotterfugi per semplificarsi la vita. Non nascondeva molto a sua madre. Qualche omissione, poche bugie e molte rancorose rinunce. Le comunicazioni tra madre e figlia si raggelarono. Strette in una presa di lotta che paralizzava azioni e affetti, soffrivano entrambe. La vita in quella casa era triste.

 

Parecchi anni dopo la morte della madre – quand’era ormai laureata, sposata, madre a sua volta – ripensando a quei corpo a corpo giovanili, Diana sorrideva con distacco – lei preferiva chiamarlo affetto – della severità materna, educativa e domestica. Che esercitava su tutti, marito incluso. Mauro – che quella notte, dopo la cena a piazza Caprera, nel dormiveglia continuava a ronzare attorno all’idea di Diana e dei suoi enigmatici sorrisi – ricordò un episodio che lei stessa, una volta, aveva raccontato.

Erano a tavola, in una birreria di via Brescia ormai chiusa da tempo, una di quelle cene tra ex-compagni di qualche anno prima. Sulla tavolata calò, come di quando in quando accadeva, una pausa di silenzio in cui pareva che nessuno avesse più nulla da dire. Uno di quei momenti di noia e distacco che squarciavano il velo di finzione in cui le loro rimpatriate erano avvolte. Aprivano piccole voragini d’estraneità tra adulti, che guardavano da lontano e con fastidio quei ragazzi; le cene future avrebbero potuto inabissarvisi e sprofondare per sempre.

Quella volta fu Diana a salvarle, con una confidenza improvvisa che chissà perché volle buttare in tavola, come uno di quegli oggetti che in certe rappresentazioni teatrali si gettano a sorpresa sul palcoscenico, per dare una soluzione imprevista a una scena che sembra non averne. “Per tutta l’infanzia,” disse Diana, “non rammento una sola volta che mio padre sia entrato in cucina.” Pausa. Silenzio. Sguardi su di lei. “Mia madre glielo impediva,” proseguì. “Quello è territorio delle donne, sosteneva. Per tutta la durata del matrimonio, gli negò l’accesso a quell’ala della casa. Una sera che, dopo cena, stavamo guardando la televisione, lui distrattamente s’alzò e, certo pensando ad altro, s’avviò di là. Lei lo fermò. ‘Di cosa hai bisogno?’ chiese, quasi offesa. ‘Volevo solo un bicchier d’acqua,’ balbettò lui. ‘Siediti, te lo porto.’ Papà obbedì. Mamma si alzò, andò a chiamare la domestica che s’era già coricata e le ordinò di portare a mio padre il suo bicchier d’acqua.” Lunga pausa. Confidenza finita. L’ilarità dei commenti, dopo qualche secondo d’imbarazzato silenzio, sciolse tra le risate un pensiero che Mauro espresse solo a se stesso: con quella scenetta familiare recitata in pubblico Diana regolava un altro conto in sospeso con sua madre.

 

Non durò molto, l’incarico in Corte di Cassazione di quel pover’uomo. Il padre di Diana morì d’infarto a soli cinquantadue anni. Rimasta sola in casa con sua madre, sotto sua la vigilanza esclusiva di lei, la vita per Diana si fece ancor più triste. Tristezze e ostacoli che finirono per allontanarla da Lucio, cui non spettava nessun ruolo in quel teatrino domestico; quindi nessun senso in quel che allora contava per lei.

Mauro lo seppe soltanto dopo. A una delle cene successive, Lucio si presentò da solo. Quando, in risposta a una sua domanda, gli disse che ormai non la vedeva quasi più, Mauro pensò distrattamente che gli si offriva forse un’altra possibilità. Avrebbe potuto cercarla, telefonarle. E magari questo sarebbe andato nel verso di assecondare le diversità profonde che esistevano tra quei due. Così mal accoppiati… era un dato di fatto che non sfuggiva a nessuno. Forse sarebbe stato un bene se l’intervento di Mauro li avesse separati allora, chissà.

 

Ma non avvenne, non solo per l’inettitudine di Mauro, ma anche perché altri eventi luttuosi, occorsi in rapida successione, impressero colpi di barra decisivi alle vite di Diana e Lucio. Nel giro di pochi mesi, quando i ragazzi avevano circa ventun anni ed erano iscritti al terz’anno dei rispettivi corsi di laurea, morirono prima il padre di lui, poi la madre di lei.

La morte del padre ebbe sulla vita di Lucio l’effetto immediato che il padre stesso aveva sempre desiderato e cui aveva lavorato un po’ subdolamente per tutti quegli anni: poco dopo il funerale Lucio lasciò gli studi universitari ed entrò in azienda, affiancando la madre che, rimasta sola al comando, aveva bisogno di una mano. Se avesse potuto godersela, per il padre di Lucio sarebbe stata una bella soddisfazione.

Per la verità, gli studi universitari di Lucio fino a quel momento non erano andati granché bene. In tre anni, aveva dato sì e no mezza dozzina d’esami, riuscendo a passarne diversi per il rotto della cuffia, con uno striminzito diciotto. Non c’era forse bisogno di un evento tanto grave per decidersi a riconoscere un fatto che era già chiaro da un pezzo a tutti, in primis al defunto: Lucio non era fatto per gli studi, non era il lavoro intellettuale il suo campo. Quindi, in fondo, gli costò poco mollare l’università, non lo visse come un fallimento. Al contrario, liberata da quel peso – che irragionevolmente, forse un po’ condizionato per emulazione dal fidanzamento con Diana, s’era assunto – la sua vita rifiorì. Si sentiva più energico, carico di ambizioni, di idee, il suo ingresso in azienda lo fece crescere rapidamente; in poco tempo capì come funzionava la baracca e fu in grado di affiancare la madre in molti ruoli, si preparava velocemente a prendere il timone. Era un uomo d’azione, non di pensiero, aveva trovato il suo campo. E questo, naturalmente, lo rese più felice. La morte del padre fu una gran fortuna per lui.

Su Diana, invece, la morte della madre ebbre un effetto in chiaroscuro. Da un lato, certo, anche se non osava confessarselo, si sentì liberata. Non aveva più quel giogo autoritario che le pesava addosso in casa e le impediva molto fuori. Era libera. Però era sola. E sentì molto più profondamente di quanto avrebbe creduto il vuoto che le si apriva intorno. Contro se stessa, restava fortemente attaccata a sua madre; e, senza di lei, scoprì d’essere più vulnerabile, meno autonoma di quel che s’era figurata. Inoltre, capì su di sé qualcosa che aveva del tutto sottovalutato: il suo lato meridionale. Era legata alla famiglia da ragazza del sud, il padre e la madre erano per lei riferimenti profondi non solo come individui, ma in quanto simboli ed emanazioni di un’appartenenza più vasta, di un clan, di una stirpe; ed era ancor più sola perché tutto il resto della famiglia viveva nel meridione, così lontano. Ce l’avrebbe fatta a restare da sola a Roma, proseguire e concludere lì i suoi studi? Diana comprese soltanto con la morte della madre quanta parte della sua identità fosse in realtà patrimonio condiviso con la famiglia, e sentì come una fetta irrinunciabile di sé quella porzione che adesso veniva a mancare, provò una sorta di mutilazione. Fu seriamente tentata di lasciare la capitale, tornare in Sicilia, terminare i suoi studi laggiù.

Con Lucio, nel frattempo, i rapporti s’erano talmente diradati… Presi da vite distinte e travolti da fatti piuttosto gravi – così simili, in realtà, ma non comunicanti tra loro, perché impediti da contesti familiari e culturali divergenti – quei fatti li avevano sorpresi con rivelazioni contrapposte su se stessi. Un’opportunità per l’uno, una mutilazione per l’altra. Non si sentirono accomunati dal lutto, se mai il lutto contribuì a dividerli. Non si vedevano praticamente più.

Fine della prima parte – continua


Il disegno accanto al titolo è di Giulia Cavallini

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