Flavio Fusi
Cronache infedeli

Il caso Georgia

Il sogno europeo della Georgia confligge sempre di più con la strategia filo-russa del governo di Tblisi. I manifestanti non mollano e Putin controlla le frontiere. Sarà una nuova Ucraina?

Cosa significa che «la Georgia non è ancora pronta ad entrare in Europa»? Significa che nelle piazze di Tbilisi gli agenti in tenuta antisommossa con scudi e manganelli pestano i manifestanti; che i getti di acqua gelata degli idranti spazzano le strade affollate della capitale strappando le bandiere con le stelle dorate dell’Unione europea; che uno dei capi dell’opposizione si presenta in Parlamento con il viso devastato dalle botte delle squadracce fasciste. Significa che il governo cerca di far passare in aula un disegno di legge dettato dal Cremlino in cui le organizzazioni internazionali non governative sono definite «agenti di influenza straniera»: un provvedimento che manifestanti e opposizione hanno ribattezzato giustamente come «legge russa».

Significa che il governo non parla e si affida alla repressione di piazza, sordo anche alle parole della presidente della Repubblica, Salomè Zourabichvili, che insorge contro una repressione «totalmente ingiustificata, non provocata e sproporzionata». Significa soprattutto che l’Orso russo – la zampa di Putin – sorveglia in armi alle frontiere della Georgia, pronto ancora una volta ad azzannare un pezzo di terra del Caucaso, come già ha fatto due volte: nel 1992 e nel 2008.

Che la Georgia non sia ancora pronta ad entrare nella grande famiglia europea lo affermano solo il governo e il partito di maggioranza, “Sogno georgiano”, che ha già tentato – proprio in anno fa – di far passare la legge russa, e che fu allora costretto a ritirare il progetto di fronte alle clamorose e appassionate proteste di un popolo che ha scelto la bandiera azzurra dell’Unione europea come simbolo della resistenza e della speranza. «O siamo georgiani ed europei, o siamo schiavi», gridano anche oggi i manifestanti di Piazza della libertà, che fu un passato Piazza Lenin e poi Piazza Beria.

Chi oggi protesta sa bene di che cosa parla. Se i georgiani si guardano allo specchio, oggi vedono l’Ucraina e la sua sofferenza, il suo martirio. Anche qui, come in Ucraina, il nemico è in casa e ha già sfondato le frontiere, ha già massacrato i civili, ha già spinto decine di migliaia di persone alla fuga e all’esilio. Nei rapporti con l’Orso russo la Georgia detiene anzi un triste primato: è stata la prima nazione dell’ex impero sovietico ad essere attaccata e azzannata da Mosca e dai suoi nuovi padroni: era il ’92, sul Cremlino la bandiera rossa con falce e martello era stata appena sostituita dal tricolore russo  quando – nella generale indifferenza del mondo e dell’Europa – l’esercito di Mosca strappò a Tbilisi due regioni di strategica importanza: l’Abcasia sul Mar nero e la regione del nord, subito ribattezzata Ossetia del sud e inglobata nella Federazione russa. Ai poveri villaggi conquistati a cannonate furono imposti nuovi nomi, le strade ribattezzate, e i contadini georgiani trasformati in profughi vennero presto sostituiti da volenterosi coloni russi. Così opera l’impero, oggi come ieri e come domani.

Il secondo colpo arrivò più tardi – nell’agosto del 2008 – perché l’impero sa aspettare, l’impero è paziente e lavora in tempi lunghi: tra Ossetia e Abcasia, in due mosse a distanza di quindici anni, il Cremlino fa così capire alla turbolenta Georgia chi comanda nel Caucaso. Se quella del ’92 fu la guerra di Eltsin, quella del 2008 – la campagna “dei cinque giorni” – è stata la guerra di Putin, il nuovo Vodhz dell’impero. Ventimila morti e quasi mezzo milione di profughi: una inezia, un piccolo pogrom di periferia a cui l’Occidente e l’Europa assistono inerti e annoiati.

Eravamo allora su una cresta di terra in vista della nuova frontiera appena tracciata. Il quartier generale delle forze Onu d’interposizione, improvvisato in una baracca di legno appollaiata sulla collina che divide i due versanti. Verso nord – si vede ad occhio nudo – scorre un transito ininterrotto di tank russi. «Che succede ora?», chiedono i cronisti. La gentile signora con i gradi di tenente sull’uniforme ben stirata si stringe nelle spalle: «nulla succede, vigiliamo».

Nulla succede e tutto succede, nel frattempo. Torniamo ad oggi e vediamo che Kiev e Tblisi sono due copie carbone, solo sfalsate nei tempi. Come successe in Ucraina prima del 2014, quando governava l’uomo di Mosca Viktor Yanucovich, oggi in Georgia comanda un partito che pur non definendosi filo-russo ha corposi interessi in Russia, non ha imposto sanzioni dopo l’aggressione dell’Ucraina e sposta costantemente il suo baricentro politico verso Est. L’ispirazione è sempre la stessa, e viene da Mosca. Per dire: pochi mesi fa “Sogno georgiano” – il partito del premier Irakli Kobakhidze – ha presentato una nuova legge che vieta «la promozione di relazioni intime o famigliari omosessuali».

Dietro lo schermo della politica – e anche in questo Georgia e Ucraina sono paesi gemelli – si muovono poderosi interessi economici legati a Mosca. Gli oligarchi continuano a comandare a Tblisi, dove il partito di governo si identifica con il miliardario Bidzina Ivanishvili, l’uomo più ricco del Paese, che ha fatto fortuna in Russia e che si muove da anni tra Russia e Georgia. Formalmente fuori da ogni carica politica da tre anni, nei mesi scorsi l’oligarca è rientrato nel Paese e a dicembre è uscito allo scoperto facendosi incoronare presidente onorario di “Sogno georgiano”.

Mosca vigila dunque sul sogno europeo dei georgiani. E anche in piazza – la piazza dei giovani che manifestano e sfidano la repressione – chi guarda al futuro non può dimenticare il passato. In una sala del Museo nazionale di Tblisi campeggia un solitario, arrugginito e funereo carro bestiame, uno dei tanti dove all’alba del secolo scorso i cekisti sovietici ammassarono centinaia e poi migliaia di patrioti georgiani, o eliminati subito a colpi di mitraglia o burocraticamente trasmessi al plotone di esecuzione e da qui scaricati dentro le fosse comuni. Più di ottantamila uccisi sul posto, quasi mezzo milione di deportati: così fu stroncata nel 1921 la giovane Repubblica di Georgia con le sue ingenue illusioni.


La fotografia accanto al titolo è di Stephan Goss/Al Jazeera.

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