Roberta Passaghe
A proposito de “L’età fragile”

La vita è un cliché?

Anche il nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, così come i precedenti, è un concentrato di luoghi comuni. Nella forma come nella struttura della vicenda e dei personaggi

Che il successo commerciale di un’opera non sia necessariamente riflesso della sua qualità dovrebbe essere assodato. I numeri di L’età fragile (Einaudi, 192 pagine, 18 euro) di Donatella Di Pietrantonio – ultimo esempio della serie – evidenziano certo il riscontro di pubblico che l’abruzzese può vantare, ma sullo spessore letterario c’è molto, molto da discutere. Nonostante le molteplici uscite, la scrittrice resta ancorata alle medesime infruttuose dinamiche narrative, a dimostrazione di una mancata maturazione artistica; è facile riscontrare le stesse sciatterie, per citare un caso, sia in Borgo Sud, edito nel 2020 sempre per Einaudi, sia in L’età fragile, e si intende in particolare il ricorso a termini desueti (come malefatta), a eufemismi (il fatto, in riferimento a un episodio che sconvolge la piccola comunità abruzzese) o all’uso smodato di cliché. I luoghi comuni sembrano essere l’unica vera cifra espressiva di Di Pietrantonio: ecco che si ripresentano, come in precedenza, il paesano burbero ma verace (che adopera come se niente fosse parole tipo smidollato), la donna silenziosa e devota, il pastore arcigno e taciturno (Ma loro parlano poco, chissà se ci saranno di aiuto). I personaggi, secondari e principali, sono definiti da brevi incisi descrittivi e mancano totalmente di una efficace caratterizzazione psicologica; come spesso accade nei lavori di basso valore stilistico, si è preferito dire piuttosto che mostrare con l’evidente risultato di un racconto frettoloso.

All’inizio tutto ruota attorno ad Amanda, figlia della protagonista, che dopo un’esperienza traumatica a Milano decide di tornare in Abruzzo e lì chiudersi in un ostinato silenzio che la madre non riesce a penetrare. Se già lo stereotipo dell’incomunicabilità tra genitori e figli potrebbe essere segnalato come elemento negativo in sé, il vero punto, classicamente, non è cosa si dice ma come lo si dice. Amanda è ridotta a mero personaggio di contorno, funzionale a descrivere i turbamenti di sua madre, e le sue vicende non solo non ricevono alcun tipo di approfondimento ma sono anche rese in maniera superficiale: Amanda che sia stato intenzionale o meno resta da chiarire, sembrerebbe che funga da semplice escamotage per far partire la narrazione del delitto tanto efferato (poteva questo delitto non essere efferato?) che si consuma negli anni Novanta al campeggio Dente del Lupo. E c’è da sottolineare una questione: l’autrice rinuncia a un resoconto lineare e ci restituisce quanto accaduto attraverso svariati flashback. Il compito lasciato al lettore, dunque, è quello di rimettere ordine tra i vari spezzoni e di cercare, per quanto possibile, di speculare sui non detti. La strategia funzionerebbe anche non fosse che, in chiusura, Lucia riceve la lettera di Doralice, sua amica e vittima del fatto efferato, dove è riportata nel dettaglio quella giornata. C’era davvero bisogno della spiegazione chiarificatrice? Non si capisce come mai Doralice senta il bisogno di inviare questa lettera che, tra l’altro, appare priva di qualunque connotato affettivo, come ci si aspetterebbe invece in una lettera tra amiche, ed è mera trascrizione degli eventi. Viene da pensare a un espediente letterario mal architettato; ma lo si trova coerente, del resto, coi toni generali corrivi e scalcagnati.

Non passa inosservata la captatio benevolentiae che, in esergo, recita: a tutte le sopravvissute, portando con sé l’idea di un preciso scopo: dare messaggi. Dal riscatto personale all’elaborazione del trauma, si profilano significati che vorrebbero essere insegnamenti universali ma che falliscono nel loro intento per l’approssimazione con cui sono veicolati: difficile immaginare un esito diverso quando ci si concentra più sullo scopo di quanto si scrive che non sulla taratura letteraria. Eppure, ci sono nella contemporaneità testi che funzionano in termini di trama e che riescono a suscitare riflessioni estese sul loro contenuto; si pensi a La nuova stagione di Silvia Balllestra che, con uno stile perfettamente calibrato tra sprezzante sarcasmo e momenti più delicati, si concentra sul lungo processo di compravendita di un terreno e su un crimine, proprio come in L’età fragile: con la sostanziale differenza che, in quest’ultimo, l’incuria diventa metodologia operativa. Soprattutto, in Di Pietrantonio, non c’è alcuno straccio di complessità: non che sia una regola, ma da chi si propone di trattare con questa serietà temi delicati come stupro, omicidio e sopravvivenza ci si aspetterebbe decisamente di più.


La fotografia accanto al titolo è di Tiziana Cavallo.

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