Testo e foto di Beatrice De Leo, Rebecca Nawalage, Costanza Rosati
Da dove, da quanto/11

Dolore alla Magliana

«La Magliana è anche un luogo di ricordi dolorosi, tristi fatti di cronaca»: continua il ritratto del quartiere romano fatto dagli allievi del Liceo Montale

È un bellissimo pomeriggio di gennaio, caldo e assolato, quando incontriamo a via Pescaglia, 71, zona Magliana, Emanuela ed Antonio, 64 e 70 anni. Hanno accettato, con grande entusiasmo, di chiacchierare con noi, di consentirci un viaggio negli anni e nelle vie del quartiere attraverso la voce e gli occhi di chi ci è cresciuto e che, con orgoglio, lo sceglie ogni giorno.

Emanuela ci viene incontro in strada, sorridente ed emozionata per la sua prima intervista; imbocchiamo il secondo portoncino e, arrivate al pianerottolo del primo piano, ci apre la porta Antonio, stretta di mano forte e decisa, sguardo rassicurante e accogliente di un papà, e ci invita ad entrare: in salone la tavola è imbandita con dolci e bibite.

Come un drone che dall’alto riesce ad avere una visione d’insieme, facciamo una veloce panoramica dell’ambiente: tutto sulle pareti, sulle mensole e sui comodini parla di bambini, ragazzi, adulti e anziani: foto, bomboniere, oggetti di fattura moderna e antica, niente sembra essere stato messo lì per caso. Ogni cosa è un tassello della loro storia. Lo sguardo di Emanuela si rivolge prima a una vetrinetta appoggiata a una parete del salone e poi ai lampadari.

“Vedete ragazze, Antonio ha sempre fatto il fabbro, ha incominciato a lavorare il ferro da ragazzino e quella che era prima una passione è diventato un lavoro; ma per lui lavorare il ferro non significa solo fare le inferriate alle finestre o i cancelli…” guarda Antonio con occhi pieni di orgoglio “Certo le inferriate alle nostre finestre le ha fatte lui, ma la sua vena artistica l’ha sfogata nel creare oggetti che per me sono oggetti d’arte”.

E qui le si illumina lo sguardo: “Quando ci siamo sposati mi ha regalato quella rosa in metallo dipinta che vedete sopra quel mobile, insomma non una rosa che appassisce dopo qualche giorno, ma una rosa che rimarrà per sempre…”

Poi ci indica i lampadari e ci racconta che appena sposati “delle luci se ne è voluto occupare lui e ha così creato queste bellissime lampade, o almeno per me lo sono…” e Antonio aggiunge ridendo “Sì, mi sono sempre sentito un po’ artista e fare queste cose mi dava tanta soddisfazione”.

Si tengono la mano, si guardano continuamente, sarà così per tutta la durata dell’intervista. Ci dicono che non vedevano l’ora di incontrarci, entusiasti fin da subito di essere stati coinvolti in questo progetto, felici di incontrare ragazze interessate a conoscere la storia di un quartiere che è, poi, la storia della vita di tante persone, di poter raccontare la loro Magliana: non solo quella balzata agli onori della cronaca ma, invece, quella di chi l’ha scelta per viverci e costruirsi una famiglia.

Antonio ci racconta che è nato qui.

“Da ragazzino, con gli amichetti miei, mi infilavo di nascosto in una catacomba nella Chiesa di Santa Passera e, attraverso una sorta di tunnel arrivavamo fino alla Basilica di San Paolo. Naturalmente era tutto proibito, pericolo. Se ce beccavano, sai le botte…”.

Antonio parla con quel luccichio negli occhi di chi torna, per qualche istante, bambino. Emanuela lo guarda e sorride complice.

Emanuela invece è nata a Milano e vi ha vissuto fino ai 10 anni circa quando, poi, si è trasferita qui per il lavoro del papà. Ha bei ricordi di quei primi anni, abitava con i genitori in un appartamento dello stesso stabile dove ora abita il figlio Riccardo con la sua famiglia.

Si è trovata bene da subito, sia a scuola che nel vicinato e ha costruito amicizie solide e ottimi rapporti con tutti: un’ambiente ospitale nel quale costruirsi una vita e una famiglia.

Quando abbiamo chiesto come fosse sbocciato il loro amore, Emanuela e Antonio ci hanno risposto guardandosi negli occhi con la dolcezza di due ragazzini che vivono il primo amore, proprio come se il tempo non fosse passato. Il loro è stato un vero e proprio colpo di fulmine: si sono incontrati giovanissimi, quando avevano rispettivamente 17 e 23 anni, per caso mentre passeggiavano con gli amici proprio su via della Magliana.

Emanuela ci dice che si sono piaciuti subito, fin dal primo sguardo, poi interviene Antonio:

“Eh sì… ma chi avrebbe immaginato che t’avrei dovuta sopportare per tutti questi anni, 47! A saperlo cambiavo strada” e, mentre lo dice, le stringe la mano ancora più forte fino a farla sciogliere in una fragorosa risata.

“Sì sì…voglio proprio vedere chi ti si sarebbe pigliato!” controbatte lei facendoci l’occhiolino.

Da quel giorno, quattro anni di fidanzamento e poi le nozze, giovanissimi.

Fatalità del caso, ci racconta Antonio, il figlio Riccardo ha incontrato allo stesso modo, su via della Magliana, la sua attuale compagna, dopo che si erano persi di vista frequentando scuole diverse. “Pensa che si conoscevano dall’asilo!” ci precisa Emanuela.

Dal loro amore è nato il piccolo Manuel. “La nostra vita, la nostra luce” ci dice orgoglioso Antonio mostrandoci alcune foto.

La Magliana però, racconta la moglie, è anche un luogo di ricordi dolorosi, tristi fatti di cronaca: tra tutti, la morte di un suo conoscente, Giancarlo Ricci, ucciso dal canaro della Magliana.

“Non lo conoscevo bene, ma era una di quelle persone che vedi spesso in giro, al bar, nei negozi per strada, ci si salutava, se c’era occasione si scambiavano due chiacchiere… insomma la Magliana è un po’ come un paese ci si conosce tutti” il tono si fa cupo.

“I fatti risalgono al febbraio del 1988, Giancarlo Ricci” ci dice Antonio “soprannominato er puggile, era un ragazzo di quartiere di 27 anni, che la mamma stava aspettando a casa per pranzo e che, invece, sparisce dentro Roma. Lo ritroveranno per caso alle prime ore del giorno dopo, nella discarica abusiva di via Belluzzo alla Portuense, vicino scuola vostra. Semi-carbonizzato, mutilato, legato: si pensa subito alla malavita organizzata. Partono le indagini, le retate nel quartiere”.

“Questa cosa fa il giro del quartiere, per strada, al bar, al parchetto qui sotto casa, non si parlava d’altro. Il panico. Ci si guardava tutti terrorizzati, non si riusciva a credere che quel ragazzo avesse fatto quella fine orrenda, insomma poteva essere nostro figlio” Emanuela abbassa gli occhi “Ma come fa un essere umano a fare una cosa del genere a un altro essere umano?”.

“L’omicidio fu poi attribuito a Pietro De Negri, conosciuto come il canaro perché aveva una tolettatura in zona” continua Emanuela “ma le ragioni di quel gesto atroce furono veramente quelle che lui ha raccontato? Nel quartiere si diceva che si vendicò perché er puggile aveva picchiato il suo cane a morte, altri sostenevano che c’entravano questioni di droga, altri ancora che ci fosse di mezzo una rapina… Insomma, ognuno si era fatto la propria idea, ma la verità è che non sì è mai capito esattamente cosa e perché sia successo. Sono passati tanti anni eppure…”.

Emanuela ha difficoltà a rivivere quei momenti, come se fosse una ferita ancora aperta, come se ancora sentisse lo sgomento incredulo di quei giorni, di quando pensi che queste cose si sentono solo in televisione e poi, invece, scopri che qualche via più in là si è consumato uno degli eventi più scioccanti della cronaca nera italiana, che ha coinvolto qualcuno che conoscevi, che salutavi, che incontravi per strada, qualcuno che, qualsiasi cosa abbia fatto, non meritava una fine così atroce, nessun uomo la meriterebbe.

“Quello non è il solo avvenimento per cui la Magliana si è fatta una cattiva reputazione. Avrete sentito parlare della banda della Magliana, una banda nata verso la fine degli anni 70 riunendo un unico gruppo di “personaggi” romani del tempo…volevano prendere il controllo della città. Gestivano tutti i traffici illeciti della città: corse di cavalli, gioco d’azzardo, traffico di droga, sfruttamento della prostituzione, usura, rapine, traffico di armi, riciclaggio di denaro. Una piaga per il quartiere” ci dice Antonio incupendo lo sguardo.

Brucia il ricordo di quegli anni e di come persone come loro e come tanti altri residenti, persone per bene, che hanno fatto sacrifici per acquistare una casa, si dovessero quasi vergognare di vivere nel quartiere, perché se ne parlava solo in termini di delinquenza e criminalità.

“Mi fa rabbia… tanta rabbia” dice Emanuela guardando Antonio “Questo è un quartiere dove ancora la gente ha il concetto di paese. E poi c’è la Parrocchia di San Gregorio Magno, dove siamo cresciuti noi e i nostri figli, dove c’è sempre stata tanta solidarietà. Aiutare lì è la parola d’ordine. Don Giuseppe, arrivato a soli 24 anni, era diventato un punto di riferimento per bambini, ragazzi e adulti. Ci ascoltava e tutti gli parlavano e gli chiedevano aiuto senza vergognarsi, senza paura di essere giudicati”.

“Qui ci conosciamo tutti conosciamo tutti, ci aiutiamo se sappiamo che qualcuno è in difficoltà se vediamo che qualcosa non va interveniamo; insomma, ci si protegge” aggiunge con orgoglio Antonio.

Emanuela d’improvviso ci regala uno dei suoi sorrisi accoglienti, materni, i lineamenti del volto si distendono “Non cambieremmo mai e poi mai quartiere” afferma con decisione.

“Per nessun motivo al mondo” conclude Antonio.

Ed Emanuela, stringendo ancora più forte la mano di Antonio “Certo che no: nel bene e nel male in questo quartiere ci siamo conosciuti, siamo cresciuti, abbiamo visto crescere nostro figlio e vogliamo veder crescere il piccolo Manuel: questa è casa nostra!”.


Nelle fotografie: in alto, Antonio e Emanuela, i protagonisti della storia; più sotto a sinistra, Beatrice De Leo fotografata da Maria Vittoria Biagioni; a destra Costanza Rosati fotografata da Rebecca Nawalage; qui sopra, Rebecca Nawalage ritratta da Costanza Rosati.

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