Leo Carlesimo
La libertà di Diana/2

L’incontro

«Si salutarono goffamente, accentuando in modo innaturale la sorpresa. Un leggero tremito sul volto di lei, tono leggermente sopra le righe da parte di lui. Complimenti e battute formali...»: la seconda puntata del romanzo breve

Riassunto della prima parte: Diana e Lucio – una coppia di quarantenni con tre figli – tutti gli anni alla ripresa scolastica si ritrovano a cena con gli ex-compagni di classe, nei dintorni del loro vecchio liceo. A una di queste cene la coppia annuncia di aver acquistato una tenuta in campagna. Mauro, fin dai tempi del liceo vagamente innamorato di Diana, legge in questa decisione un segnale di crisi tra i due. In effetti, già a scuola le incompatibilità tra Diana e Lucio erano evidenti. Diana era un’allieva studiosa, brillante; Lucio un po’ un arrogante sbruffoncello. Diana proveniva dal meridione, da un’austera famiglia di magistrati. Quella di Lucio è una famiglia di commercianti arricchiti. Il legame tra i due li cambia in parte, ma restano divergenze profonde, accentuate dall’opposizione della madre di Diana al loro rapporto. Poi, dopo la maturità, succedono delle cose. Diana, che all’università ha preso psicologia, perde entrambi i genitori, rimane da sola a Roma. Anche Lucio perde il padre, lascia giurisprudenza ed entra nell’azienda di famiglia. I lutti, il diverso modo viverli e le scelte conseguenti, li separano, non si vedono praticamente più.


Passò parecchio tempo, prima che si rincontrassero. Lucio scalava i primi gradini della sua rapida ascesa in azienda. Diana meditava il ritorno in Sicilia. Quel giorno, verso le sette di sera, nei dintorni della loro vecchia scuola, angolo tra via Chiana e via Sebino, dentro un alimentari-rosticceria ben noto nel quartiere, si ritrovarono a un paio di posti di distanza in fila davanti al banco della tavola calda.

Ci fu un gradino da superare, in principio. Si salutarono goffamente, accentuando in modo innaturale la sorpresa. Un leggero tremito sul volto di lei, tono leggermente sopra le righe da parte di lui. Complimenti e battute formali. Nella voce una rigidezza che suonava fasulla alle orecchie di entrambi, ma che non riuscivano a scansare. Come se qualcosa li tenesse a distanza, impedisse loro d’avvicinarsi. Si decisero a uscire dalla fila, poi dalla rosticceria. S’incamminarono verso piazza Verbano. E a poco a poco l’imbarazzo si sciolse. La familiarità dei luoghi diede loro una mano. Ripresero a parlare. Gli studi di lei. Il lavoro di lui. Quel che i recenti lutti avevano rappresentato per l’uno e per l’altra. Parlarono solo un po’ del passato, molto del presente, nessun accenno al futuro. Nel frattempo, percorrevano a piedi il quartiere. I ruderi di un vecchio cineclub, che un tempo aveva ospitato mostre fotografiche e dibattiti. Il seminterrato con ingresso indipendente di un’ex-radio libera, antico pied-à-terre di una puttana. Due campetti da tennis ricavati in un ampio cortile tra i palazzi, affidati alla gestione di un portinaio. La vasta presenza di Villa Ada, poco lontano, la sua umidità vegetale che si spande nell’aria e abbraccia i dintorni. Intanto, imbruniva. Si accesero i lampioni. In una strada stretta e poco frequentata, lungo un muretto dove una vecchia dava da mangiare ai gatti, si trovarono davanti all’ingresso di un’osteria con l’insegna gialla, cinque o sei tavoli circondati da sedie impagliate, sparsi per uno slargo del marciapiede che arrivava fino alla rampa di un garage.

 

Due anni dopo, poco prima di sposarsi, fu in quell’osteria che invitarono il loro gruppo di ex-compagni del Giulio. Per un annuncio importante, che vollero fare insieme. La saletta interna aveva una perlinatura in legno probabilmente finto, a pannelli listellati con intarsi a losanghe. Sul tavolo con la tovaglia di stoffa a quadretti bianchi e rossi pendeva una lampada a bracci, di metallo leggero, quasi latta, con le roselle e le finte candele di plastica, tutte storte, che sostenevano lampadine a forma di fiamma. Un locale un po’ al di sopra dello standard da liceali delle loro cene ordinarie. Perché quella non era una cena ordinaria. Era un’occasione speciale. Avevano una notizia da dare.

Ripensandoci, poi, Diana non seppe davvero spiegarsi perché avesse tanto insistito per invitarli lì, proprio in quell’osteria. Anelli che si richiudono, questo le sembrava confusamente il senso. Nodi che s’erano sciolti – felicemente o infelicemente – e adesso in modo altrettanto accidentale si riformavano. Quanta parte avesse avuto il loro desiderio e quanta il caso, in quegli scambi, non le parve cosa da chiedere; ma l’occasione andava celebrata, così sentì, nello stesso luogo e con le stesse persone che li avevano inscenati. Per questo volle radunarli tutti lì. E scherzò, rise, prese tempo. Lasciò che la cena scorresse, tra piatti improntati alla cucina tipica di un’osteria di quartiere: tonnarelli cacio e pepe, mezze maniche all’amatriciana, mattonelle di lasagna; e poi fornara di guancia, polpettine col puré, pollo ai peperoni; e lasciò che annaffiasseto tutte queste pietanze col vino bianco di cantine laziali poco note, che il locale già allora pubblicizzava; e solo alla fine, quando furono tutti sazi e un po’ brilli, s’alzò in piedi e picchiò col coltello sul bicchiere del vino; e nel silenzio e negli sguardi che così chiamò a sé, scandì nitida:

“Aspetto un bambino.”

 

Due anni prima, altrettanto brilli, avevano chiesto all’oste di chiamare un taxi. E quando l’auto si fermò con uno stridìo di freni davanti all’ingresso dell’osteria, ci salirono su barcollando, sostenendosi a vicenda. Si fecero portare in via Nizza, quella casa in cui lui non aveva mai messo piede, finché era stata viva la madre di lei. Salirono al terzo piano, dentro un vecchio ascensore inserito a posteriori nella tromba delle scale, ingabbiato dentro un alto graticcio di metallo nero.

Un ingresso buio, insufficientemente illuminato dal lampadario in ferro battuto. Mobili in legno scuro: cassapanca, attaccapanni, specchiera. Un logoro tappeto persiano – probabilmente autentico – copriva il pavimento a piastrelle quadrate, grigio-arancio, incorniciate da un disegno ad arabeschi neri. Davanti alla porta d’ingresso s’apriva una stanza affacciata sulla via principale: l’ex-tana del giudice, il padre di Diana, ora visibilmente sua stanza di studi: dispense di psicologia accatastate sul piano della scrivania, anch’essa in legno scuro, sedie con lo schienale alto, imbottite in pelle, e una biblioteca con le ante a vetri opachi che racchiudeva libri, libri e ancora libri: giurisprudenza, letteratura, filosofia; e in ultimo, sugli scaffali a giorno, psicologia. Dal lato opposto s’accedeva a un corridoio lungo, diritto, percorso da una guida bordeaux fissata ai due capi da bacchette d’ottone. Oltre il salotto e il soggiorno, arredati con mobili in radica del Ventennio, a movimenti sfalsati di superfici piane e curve, che abbinavano forme squadrate ad altre arrotondate, una cifra del design di quegli anni, si accedeva alla zona notte. L’unico grande bagno padronale, con vasca e doccia, rivestito a vecchie mattonelline in ceramica chiara con motivi geometrici astratti, neri, disseminati qua e là. E le due camere, in fondo: la piccola, ch’era stata di Diana, dove adesso non dormiva nessuno; e la grande, arredata con antiquati mobili austeri, in noce scuro: comò, armadio, tavolo da toilette sormontato dallo specchio a tre ante; il tutto disposto attorno all’enorme letto dall’imbottitura alta, con testiera a intarsio di legno chiaro su legno più scuro. Il letto appartenuto a sua madre. La prima volta che lo faceva lì. Un altro piccolo passo nel regolaramento di conti con lei. Dopo Lucio, Diana aveva avuto un paio di storielle brevi con compagni di corso all’università, ma nessuno di loro era mai entrato in quella casa. E mai, prima d’allora, aveva fatto quell’uso di quel letto.

“Hai davvero deciso di mollarla, l’università…”

“Ma sì.”

“Proprio del tutto, per sempre?”

“Lavoro. M’occupo della fabbrica. Il negozio lo segue mia madre, cura le vendite, i rapporti coi clienti, tiene i conti. Ma la produzione, in fabbrica, la mando avanti io.”

“E ti piace, quello che fai?”

“Sì, mi piace molto. Mi tiene impegnato tutto il giorno in questioni pratiche che coivolgono altri e su cui gli altri s’aspettano qualcosa da me. Sono esausto, la sera, quando stacco. Mi fa bene, stare così.”

“Certo, se è questo che vuoi…”

“E’ questo che voglio. Non ce l’ho, io, la tua zucca per gli studi. Papà aveva ragione, fabbricare e vendere cessi è il lavoro che fa per me.”

“Guadagni molto?”

“Molto. Gli affari vanno benone. Facciamo più soldi di quanti riusciamo a spenderne, ma non è questo… è che ho trovato il mio posto, capisci. A fine giornata, so sempre quello che ho fatto. Mi basta fare un giro per il magazzino. Sta tutto lì, sotto i capannoni. Roba che si vede, si tocca. E può essere fatta bene o fatta male. E si vede anche questo. Una vita che ti dà subito un riscontro è importante, dà senso alle cose.”

“Beh, sembri proprio felice…”

“Hai qualcuno?”

“Nessuno. E tu?”

“Neanch’io.”

Non mentiva completamente, e lei lo capì. Uno come Lucio. Aveva di sicuro qualche affaruccio, magari in fabbrica, a Monterotondo, con una segretaria di produzione o con qualche operaia; oppure con le commesse, in negozio. O magari con tutte quante allo stesso tempo. Ma non gliene importò. Lei seppe subito che non gliene importava. Non era quello il punto.

 

Il punto era forse – ma Diana sul momento non lo capì – che certe ricomparse, i cosiddetti cavalli di ritorno, hanno un aspetto dolce e ingannevole, caricano i fatti di connotazioni emotive che impediscono di vedere le cose.

A Diana nascosero un pericolo. Non le consentirono di comprendere subito, con chiarezza, che la situazione era molto cambiata, c’era stata un’importante inversione dei rapporti di forza. A una lettura superficiale, l’evoluzione dei dati sembrava favorevole. Il maggior ostacolo al loro legame – sua madre – non c’era più. E lei aveva bisogno di appoggiarsi a qualcuno, era sola, sentiva quel vuoto intorno, stava quasi per abbandonare Roma, la sua indipendenza, i suoi progetti, tornare al sud, in famiglia, rifugiarsi in quell’alveo protetto. Ma così limitato, così costretto. L’incontro con Lucio le parve l’occasione per consolidare quanto aveva fatto fino ad allora, le offriva un’opportunità, un appoggio, con lui accanto ce l’avrebbe fatta. Avrebbe terminato a Roma i suoi studi, non avrebbe rinunciato alla sua vita indipendente.

Quanto a Lucio, non chiedeva di meglio. E in gran parte era sincero, era sempre rimasto attaccato alla sua fiamma più importante dei tempi del liceo. Probabilmente – per difetto d’intelligenza, più che d’onestà – davvero non vedeva che ora la sua posizione era cambiata, che lei era molto più fragile e lui era decisamente in vantaggio; e che questo avrebbe avuto delle inevitabili conseguenze. Conseguenze che un uomo – pur senza intenti predatorii, addirittura con buone intenzioni – considera in generale augurabili, lusinghiere. Era in posizione dominante. E ciò le era utile, lei lo accettava volentieri, le faceva persino piacere. Una fortuna, un’altra fortuna. Se l’avesse compreso, avrebbe potuto raccontarsela così. Ma probabilmente non fu necessario. Non dovette nemmeno autoingannarsi, semplicemente non lo capì.

 

In breve, si rimisero insieme. Mauro lo venne a sapere alla cena successiva, cui Diana partecipò assieme a Lucio. Occasione mancata numero due. Di quando in quando pensava ancora a lei, ma in modo intermittente, episodico. Egoisticamente concentrato su se stesso, era attanagliato da molti dubbi. All’università, senza una vera ragione, aveva preso architettura. Campo di studi che non amava. Neppure l’ambiente universitario gli piaceva. Non frequentava le lezioni. Però gli studi non andavano male. Controvoglia, preparava gli esami a casa, per conto suo, aveva elaborato un suo metodo. E anche se le materie ch’era costretto a studiare lo interessavano poco, prendeva ottimi voti, in suo libretto universitario avrebbe fatto invidia a uno studente modello. Benché nessun docente, conoscendolo meglio, l’avrebbe mai additato a modello. Quanto al resto, conduceva una vita ritirata, cupa, solitaria. Leggeva molto. Fantasticava. Con le ragazze aveva fatto pochi progressi. Anche per questo, nel vuoto, di quando in quando riappariva lei.

 

Finché durò l’università, Diana restò a vivere nella casa di via Nizza. Spesso Lucio passava la notte lì, qualche volta – più raramente – lei lo raggiungeva nel grande attico di via Panama in cui la madre di lui – si chiama Elvira, è ora di darle un nome perché sta per avere una parte importante nella storia – costituiva una presenza collaterale, discreta ma molto vigile.

Elvira era una donna pratica che guarda le cose per quel che sono, non si culla in sciocche illusioni sentimentali. Che suo figlio dovesse prima o poi fidanzarsi, era ineluttabile e necessario. Che lo facesse con una sua vecchia fiamma rimasta orfana, che non vi fosse dall’altra parte nessuna famiglia con cui spartire il seguito, era forse un vantaggio. Questo retropensiero si affacciò certamente alla sua mente organizzata – accorta donna d’affari cinquantenne, vedova e madre di un unico figlio maschio – ma furono riflessioni cui lei non diede peso, le accarezzò senza costruirvi sopra alcun disegno. Per ora. Non era ancora il momento. Lavorarci troppo presto avrebbe rischiato d’ammazzarla in culla, la vaga trama che intravedeva. Doveva maturare, conveniva lasciar fare alle cose, tenersi a distanza.

 

Diana finì l’università, si laureò a pieni voti con una tesi che il collegio docenti di facoltà giudicò tra le più brillanti dell’anno. Le fu proposto un dottorato alla Sapienza; ma anche – fuori di lì – un impiego nella direzione del personale di un’importante azienda privata, un buon incarico, ben remunerato e con interessanti prospettive manageriali. Lei avrebbe forse optato per il secondo, la costruzione di una carriera, l’indipendenza economica, buttarsi nel mondo reale. Però avvenne un fatto, principalmente per sua distrazione. Nell’euforia del dopo-laurea e dei festeggiamenti che seguirono sbagliò qualche calcolo e restò inopinatamente incinta.

Non era quel che voleva. Non si sentiva pronta per la maternità, non era ancora nei suoi piani. Aveva solo ventitré anni, voleva mettere un altro po’ di fieno in cascina, prima. Puntare sul lavoro, farsi strada, costruire una vera indipendenza economica; e solo dopo, a ragion veduta… Avrebbe preferito cancellare subito quel piccolo sbaglio. Tutto sommato, non le sarebbe pesato poi molto, certo assai meno di quanto, in futuro, l’avrebbe condizionata il non farlo. Ma non fu abbastanza forte per tenere il punto, che pure aveva visto con sufficiente chiarezza. Troppe cose le si coalizzarono contro.

A lui – che fu felicissimo di quel bebé in arrivo, le propose subito il matrimonio – avrebbe certo saputo resistere. E probabilmente sarebbe anche stata capace di resistere a Elvira, che a quel punto entrò decisamente in scena, sia pur con misura, controllandosi – da donna esperta, da sorella maggiore; senza neppure lontanamente attribuirsi il ruolo di madre surrogata, che, conoscendo Diana, sapeva l’avrebbe fatta infuriare; era una donna accorta, Elvira, ci sapeva fare – cercò di convincerla facendo leva sui dubbi che davanti a simili scelte scuotono qualunque donna: un bambino in arrivo così, come un dono inatteso, è una fortuna per una giovane coppia, una benedizione; rifiutarlo, un atto egoistico che avrebbe certamente rimpianto, le disse… lei l’avrebbe aiutata, non avrebbe dovuto scegliere tra maternità e lavoro; se gliel’avesse concesso, avrebbe fatto in modo che non la condizionasse in nessuno dei suoi progetti… eccetera. Elvira fu abile nell’avanzare le sue offerte, nel tessere le sue lusinghe. Ma probabilmente Diana non si sarebbe lasciata incantare, aveva le sue idee, una visione diversa del proprio futuro.

Non sarebbero bastati Lucio ed Elvira. Però quando, dalla Sicilia, intervenne l’altro ramo della famiglia – quel ramo pressoché assente, fino a quel momento, ma che anche nell’assenza (soprattutto in ragione della sua assenza) s’era fatto sentire dentro di lei; informato chissà come della sua gravidanza (non glielo aveva detto lei; e se non era stata lei a farlo, poteva venire solo da…) con zie e cugine che non vedeva da un pezzo e che si rifecero vive in modo pressante, alcune di loro vennero a Roma apposta: chi le parlò di religione, di tradizioni familiari radicatamente cattoliche; chi, tra le cugine pressoché coetanee e già mamme, le fece confidenze sulla maternità, in dettagli intimi; portò persino a Roma, per fargleli conoscere e tenere in braccio, gli ultimi bebé della casata… Alla fine, dietro tutte queste pressioni, Diana capitolò. Poteva affrontare, contro tutto e contro tutti, un aborto reso necessario unicamente da un suo errore, una sua piccola distrazione?

Forse poteva, a conti fatti probabilmente avrebbe dovuto trovare la forza di resistere; ma invece cedette, rinunciò all’offerta di quell’importante azienda privata e alla carriera manageriale che le prospettava. E in fondo lo fece con sollievo. Ebbe un sapore dolce, la resa. Sarebbe stata una giovane mamma.

 

Che certe gioie durino poco e costino care, sono riflessioni ciniche che Mauro non fece a posteriori. No. Bisogna dargli atto del fatto che – mosso da un’inclinazione sleale, che affilava un intuito diabolico – Mauro vide lucidamente, fin dall’inizio, su quale china stava avviandosi Diana. Già in quella cena nell’osteria – quando lei diede l’annuncio del bambino in arrivo, mostrando un primo accenno di pancione; e spiegò a tutti che avevano deciso di tenere il piccolo e lei di optare per la carriera universitaria; e, distribuendo in giro sorrisi, provò a calarsi nei panni della giovane pre-maman felice – lui non le credette affatto. Non disse nulla, né provò a telefonarle, nei giorni seguenti, per avvertirla prima che fosse troppo tardi. Si limitò a sviluppare nottetempo le sue bieche intuizioni, disegnando nel dormiveglia scenari futuri che si rivelarono molto azzeccati.

Intanto a tavola, dopo l’annuncio, Diana si sottoponeva pazientemente alle attenzioni delle ex-compagne. La componente femminile del gruppo era molto eccitata dalla novità. Diana era la prima a diventare mamma. Le sue amiche le si strinsero intorno, accarezzarono a turno quel leggero gonfiore, diverse di loro giurarono d’averlo sentito scalciare, benché fosse solo alla diciassettesima settimana.

 

Ripiegò sul dottorato. L’alveo chiuso e tranquillo della Sapienza. In base a quanto continuavano ad assicurarle tutti – non solo Lucio ed Elvira, ma anche i suoi professori all’università – avrebbe comunque potuto seguire i corsi, continuare a studiare, questo non era incompatibile con la maternità.

Né col matrimonio. Accettò la proposta di Lucio. Sposarono in chiesa, cattolicamente. Venne un nutrito gruppo di parenti dalla Sicilia. Furono nozze partecipate e anche piuttosto appariscenti, quasi sontuose. Diana simulò bene, nessuno avrebbe potuto leggere in lei una sposa dubbiosa, forse infelice.


Fine della seconda parte – continua. L’illustrazione accanto al titolo è di Giulia Cavallini.

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