Leo Carlesimo
La libertà di Diana/3

Diana e le camicie

«Quando le chiese se per caso avesse riordinato lei le camicie e la biancheria di Lucio, nell’armadio della loro camera, lei rispose bruscamente: “Signora, io non ho toccato nulla nell’armadio”...». Presegue, con la terza puntata, il romanzo inedito a puntate di Leo Carlesimo per i lettori di Succedeoggi

Riassunto delle parti 1 e 2. Diana e Lucio – una coppia di quarantenni con tre figli – tutti gli anni alla ripresa scolastica si ritrovano a cena con gli ex-compagni di classe, nei dintorni del loro vecchio liceo. A una di queste cene la coppia annuncia di aver acquistato una tenuta in campagna. Mauro, fin dai tempi del liceo vagamente innamorato di Diana, legge in questa decisione un segnale di crisi tra i due. In effetti, già a scuola le incompatibilità tra Diana e Lucio erano evidenti. Diana era un’allieva studiosa, brillante; Lucio un po’ un arrogante sbruffoncello. Diana proveniva dal meridione, da un’austera famiglia di magistrati. Quella di Lucio è una famiglia di commercianti arricchiti. Dopo una fase di allontanamento – durante la quale Diana perde entrambi i genitori e medita il ritorno in Sicilia; anche Lucio perde il padre, abbandona gli studi ed entra nell’azienda di famiglia – i due si rincontrano per caso, si rimettono insieme. Subito dopo la laurea, Diana rimane inopinatamente incinta. Non vorrebbe tenere il bambino, rinunciare ai suoi piani di indipendenza e lavoro, ma si lascia convincere dalle pressioni familiari. A una delle cene tra ex-compagni di classe, Mauro non crede affatto alla sua esibita felicità domestica.


Una mattina, entrando in camera e aprendo per caso l’armadio di Lucio, Diana trova le camicie di suo marito ordinate in modo diverso rispetto a come lei stessa le ha disposte il giorno prima.

Sono passati quindici anni. Dopo Angela, la primogenita, sono venuti Tobia, tredici anni, e Martina, che ne compirà presto undici. Gli ultimi due frequentano la scuola media Settembrini, appendice del Giulio Cesare, dove Angela – quinta ginnasio – è iscritta nella stessa sezione che ai tempi frequentarono mamma e papà. Tradizione scolastica che si trasmette di generazione in generazione.

Lei, Diana, non è mai uscita dalla Sapienza. S’è fatta ragionevolmente strada in facoltà, compatibilmente col matrimonio, le maternità, gli impegni familiari e tutto il resto: ha preso il dottorato e poi vinto un concorso, è ricercatrice presso il dipartimento di psicologia dei comportamenti sociali, tiene un corso semestrale sull’emotività nell’età dello sviluppo. Non la pagano molto, ma i soldi non sono mai stati un problema, in famiglia ne hanno fin troppi.

Vivono nel grande attico di via Panama, la casa da ragazzo di Lucio, dove dopo le nozze si sono trasferiti. Un enorme appartamento che occupa per intero l’ultimo piano del palazzo. Lì c’è spazio per tutto e tutti: ciascuno dei figli ha la sua camera, lei e Lucio occupano l’ala est, affaccio in direzione Salaria, con salottino e bagni indipendenti; al centro vi sono saloni, soggiorni, vaste terrazze su due piani – attico e superattico – con affaccio diretto su Villa Savoia e, sul retro, cucine, stanze per la servitù e locali di servizio; al capo opposto rispetto al loro, c’è la zona privata di Elvira, orientata a ovest, affaccio in direzione Parioli, l’ala che occupava già ai tempi del suo defunto marito.

Lei, Elvira, amministratrice delegata della ditta – che di recente ha cambiato nome e look, s’è modernizzata, fa pubblicità sul web e anche in tivù, è diventata un brand con produzione autonoma (la fabbrichetta annessa sulla Salaria) e gran negozio di vendita al dettaglio in via Po – è anche, per naturale estensione, il capo riconosciuto della famiglia. La matriarca. Sessantacinquenne di polso, determinata, governa con autorevolezza gli affari economici e non solo.

Sulle questioni operative di routine, il bastone è da tempo passato nelle mani di Lucio, che con la sua energia svolge una mole impressionante di lavoro. Si dà da fare su tutti i fronti – fabbrica, negozio, aspetti organizzativi della vita familiare e domestica (viaggi, vacanze, feste, manutenzioni, problemi pratici di ogni natura) oltre a scansare o affrontare qualunque fastidio o pericolo si profili all’orizzonte. E’ un uomo sicuro di sé, superficiale, limitato e deciso. Un infaticabile braccio. La mente, nelle scelte che contano, è Elvira.

Quanto a Diana… fatica un po’ a ritagliarsi il suo spazio in un territorio familiare così ben presidiato. Non si può dire che sia irrilevante, questo no… Nelle decisioni sull’amministrazione della casa, la scuola dei figli, eccetera, la sua opinione conta eccome. Però, su tutti gli aspetti pratici di queste cose, deve riconoscere che Lucio è più rapido ed efficace di lei. E sulle rare questioni che contano davvero, che influenzano le cose a distanza, ha sempre la sensazione che prevalga la visione di Elvira, che per affinità mentale e orientamento all’azione si trova naturalmente in sintonia con Lucio, opera in tandem con lui; mentre lei, Diana, con le sue analisi magari più sensibili e fini, ma un po’ idealizzate, disseminate di dubbi o troppo elaborate, è spesso in distonia o in ritardo. Quando le sembra d’aver compreso i risvolti nascosti di una questione, Lucio ed Elvira l’hanno già risolta e sono passati oltre. A loro importa decidere, più che capire.

Questo riguarda tutti gli aspetti economici e di gestione operativa della ditta, in cui lei non entra affatto, non ne ha mai avuto interesse o desiderio. Però ha l’impressione che questa distanza dalla fonte dei loro redditi, quest’irrilevanza economica, travasi in parte, come un liquido che deborda, anche in parecchie questioni familiari e domestiche. La metta ai margini, la escluda un po’.

Certo, ha comunque il suo ruolo accademico, di cui in famiglia non importa niente a nessuno. Prevalgono, anche nei figli, interessi pratici. Nessuna attrazione per cose che entrino vagamente in una sfera intellettuale o astratta. Niente che richieda pensiero che non sia applicato a qualche fine visibile, perlopiù a portata. Questo – con soprendente uniformità nell’arco di tre generazioni conviventi sotto lo stesso tetto – pare essere il tratto distintivo di tutti quanti i membri della famiglia. Eccezion fatta per lei.

Non si può dire che Lucio non sia un marito e un padre affettuoso. Si fa in quattro per la serenità e i bisogni di Diana e dei figli. Con lei è sempre premuroso, attento, anticipa i suoi desideri, non le fa mancare nulla e la porta in palmo di mano in società: quando incontrano amici e conoscenti, è sempre pronto a riconoscere la sua maggior cultura, la superiorità intellettuale che ha su di lui. Le cose vanno piuttosto bene pure a letto. Lo fanno spesso e lui è sempre attento a farla felice. E’ persino abbastanza fedele, per quanto si può richiedere ciò da un uomo. Se si eccettuano certe scappatelle di nessun conto con segretarie e operaie a Monterotondo – ben lontano da casa, curando che non vi sia alcun effetto collaterale – Lucio è un marito irreprensibile. Statisticamente, sotto ogni profilo fedeltà inclusa, rientra nella ristretta fascia dei mariti-padri che alla famiglia ci tengono davvero. Ama con convinzione i suoi figli e sua moglie e il rapporto con lei, per quanto gli consta, funziona benone. Sarebbe molto sorpreso di sentire qualcosa in contrario.

Così, i ruoli familiari sono abbastanza chiaramente distribuiti: per tutti gli aspetti pratici, ordinari, c’è Lucio, che affronta con decisione ogni piccola difficoltà, risolve in un batter d’occhio i problemi di tutti, piccoli e grandi, spesso ancor prima che Diana li intraveda o si ponga dei dubbi al riguardo. Per le questioni più articolate e complesse, che richiedono capacità di analisi e sintesi, c’è Elvira. Quanto a Diana…

A Diana restano comodissimi ruoli passivi, molto protetti e altamente onorati; quanto a quelli attivi, ha le questioni più astratte, più nobili, intellettualmente più fini, l’unica in famiglia che se ne occupi. Nei suoi quindici anni di matrimonio, non ha mai avuto preoccupazioni pratiche, né in campo familiare né in altro. Non ha quasi mai avuto occupazioni, in realtà… ad eccezione del ruolo di madre dei suoi figli e di moglie di suo marito, che le viene correttamente riconosciuto; e di quello di ricercatrice, aspirante associata, alla Sapienza, di cui in famiglia non frega niente a nessuno.

Alla soglia dei quarant’anni, non sa se è quel che voleva.

 

Richiudendo l’armadio, quel giorno, ebbe una curiosa sensazione: come un leggero smottamento interno, collocato grossomodo tra l’esofago e la bocca dello stomaco. Non si sentì davvero mancare, no, non ebbe uno svenimento, era qualcosa di diverso; il resto del corpo era in perfetto stato, conservava il suo equilibrio e rispondeva regolarmente agli stimoli. Soltanto, quella frana a sorpresa, in un punto preciso dentro di sé.

Uscì dalla camera. Era sola in casa. Lucio ed Elvira come sempre erano andati via presto, uno diretto in fabbrica l’altra al negozio; i ragazzi erano tutti a scuola. Cercò Aiko, la domestica filippina che curava la loro ala dell’attico. La trovò nella stanza dietro la cucina, adibita a lavanderia-stireria, impegnata nel bucato. Quando le chiese se per caso avesse riordinato lei le camicie e la biancheria di Lucio, nell’armadio della loro camera, lei rispose bruscamente: “Signora, io non ho toccato nulla nell’armadio” in un tono forzato che suonò come una scusa non richiesta. Aiko la guardò in un modo che le procurò nuovamente quel senso di vuoto tra esofago e stomaco, poi chinò il capo e riprese a stirare. Diana si sentì di troppo in quella stanza. Locale adibito a mansioni di cui non s’era mai occupata. Ne uscì.

Tornando in camera, ricostruì la sequenza: ricordava perfettamente che il giorno prima aveva incrociato Aiko in corridoio, con quella pila di camicie appena stirate. Visto ch’era lì, gliele aveva prese di mano – non lo faceva mai, di solito lasciava che fosse Aiko a sistemare la roba nei cassetti – aveva aperto l’armadio e messo in ordine le camicie di Lucio.

In camera, riaprì l’armadio. Le camicie erano disposte in modo completamente diverso. O era stata Aiko a farlo, e le aveva mentito – ma perché avrebbe dovuto? – oppure… Quante altre volte Elvira era entrata nella loro camera e aveva riordinato gli indumenti del figlio? Questo, nella stireria poco fa, Diana aveva letto nello sguardo di Aiko. Era questo. Cose che Aiko sapeva. Che accadevano regolarmente, in quella casa, da chissà quanto tempo. Elvira entrava nella loro camera, s’occupava della biancheria e degli abiti di Lucio. Controllava anche quello. Quante altre cose si svolgevano a sua insaputa lì dentro? Insignificanti dettagli – di cui lei, con la sua testa distratta, inebetita dalle premure atrui, non s’era mai accorta – cospiravano contro di lei…

 

Quell’ettaro di bosco con casale alle porte di Roma, a Morlupo, di cui Diana e Lucio diedero notizia ai loro ex-compagni nel corso della cena a piazza Caprera, a due passi dal loro vecchio Giulio, nacque da lì. La necessità di un’altra casa, solo sua.

“Oh, ma non lasceremo Roma,” aveva detto Diana. “Solo uno sfogo, quand’occorre. Brevi vacanze, week-end allungati…” Sorriso.

“Beh, ma mi pare un bell’impegno, per uno sfogo… Un ettaro, avete detto? E quattrocento metri quadri di casale da ristrutturare?” Chiese una delle ex-compagne.

“Vabbè che i soldi non vi mancano… ma se non andate a viverci, che ve ne fate di una proprietà del genere? Ne vale la pena?” Interloquì un altro.

“E come farete a tenerla in ordine? E’ impegnativa, una villa così. O ci abitate, oppure avrete bisogno di qualcuno che se ne occupi, che stia lì. Altrimenti, in poco tempo tempo se ne andrà in malora…” Aggiunse un terzo.

“Beh, è una seconda casa,” rispose Lucio. “Quanti hanno una seconda casa? La nostra sarà in campagna. E ci andremo abbastanza spesso da tenerla in ordine…”

“Certo… vivremo un po’ lì, un po’ a via Panama,” sostenne Diana. “Io ci andrò di frequente. Gli orari e gli impegni all’università sono flessibili. E il corso semestrale mi occupa solo per quattro mesi all’anno… Va da sé che avremo bisogno di qualcuno. C’è una famiglia di contadini, nel podere accanto. Ci appoggeremo a loro, siamo già d’accordo…”

“Mah… te la senti, tu, di restare in una casa isolata, così enorme, da sola? Se non ci andate tutti insieme…” obiettò un’ex-compagna.

Quando Diana e Lucio se ne andarono, verso le dieci, nel gruppetto che restò fioccarono battute. Quel casale pareva a tutti un’idea bislacca.

 

Infatti, non funzionò. La villa in campagna fu l’inefficace risultato di un lungo travaglio – innescato dalla scoperta delle camicie – durante il quale si produssero a ripetizione, tra Diana e Lucio, discussioni e litigi; le prime liti coniugali serie dai tempi dell’università, seguite da riconciliazioni forzate e laboriose trattative. Che portarono infine a quella soluzione di compromesso: non un’altra casa a Roma, non l’abbandono della residenza comune di via Panama, ma una seconda casa laggiù, fuori città. Abbastanza lontano da consentire a Lucio di pensarla come una seconda casa, e digerirla. Abbastanza vasta da permettere a Diana di vederla come la vera casa della sua famiglia, di cui lei fosse la sola padrona.

Durante quei mesi di liti e negoziati, Diana non menzionò mai l’episodio che li aveva generati. Non volle chiarire il fatto delle camicie, né con Aiko, né con Lucio, né tanto meno con… Quella scoperta, di cui probabilmente tutti in casa erano a conoscenza – forse, sperabilmente, ognuno per conto suo, senza parlarne tra loro – non fu mai menzionata nella prima seria e prolungata fase di frattura che ebbe con suo marito.

Evitò di chiarirlo non solo per orgoglio, ma anche perché non era quello il punto. Dentro di sé, confusamente, sentiva che non occorreva affatto chiarire; ma separare, allontanare, distinguere. Lucio, come suo solito, all’inizio non capì. O forse, più esattamente, non capì fino alla fine. Probabilmente non vi riuscì nemmeno dopo, quando tutto fu concluso. Nel momento in cui lei glielo disse, fu genuinamente stupito dalla richiesta. Gli parve di poterla liquidare come un capriccio, come un’improvvisa impennata che quel cavallino bizzoso di sua moglie – un po’ sentimentale, un po’ irrazionale, spesso perduta in pensieri astratti e perciò dissociata dalla realtà – avrebbe presto scordato, bastava resistere un po’, tenere salde le briglie… Perciò fu spiacevolmente sorpreso della combattività di Diana, della sua vecchia e riscoperta tenacia. Alle proprie sensate obiezioni – che bisogno avevano di un’altra casa a Roma? Quella, comodissima, in cui abitavano, la amavano tutti, a cominciare dai figli, eccetera – stavolta Diana oppose una testarda esigenza di autonomia, per Lucio del tutto incomprensibile. Come sarebbe? Non era già pienamente indipendente? Non aveva il suo lavoro? In casa faceva quel che voleva, nessuno le imponeva niente, non le mancava nulla, ogni suo desiderio era immediatamente esaudito, lui non faceva che cercare di compiacerla…

Questo equivoco perdurò. Diana persistette nel non voler parlare delle camicie. E anche se questo forse avrebbe schiarito le idee a un uomo come Lucio, in fondo aveva una sua parte di ragione: parlarne non avrebbe cambiato il nocciolo della questione. Solo che lei quel nocciolo non l’aveva ancora individuato con chiarezza. Non era, come allora pensava, mettere della distanza e acquistare dell’autonomia. No. Il vero nocciolo, come aveva inavvertitamente confessato agli ex-compagni quella sera a piazza Caprera, era che per lei quella casa rappresentava “…uno sfogo, quand’occorre. Per tirare un po’ il fiato…” Perciò non aveva bisogno di uno sfogo, aveva bisogno di affrontare le ragioni che la obbligavano cercarlo.

 

Ci volle del tempo a capirlo. Quando la casa in campagna fu pronta, dopo quasi un anno di lavori, non bastò. Diana, Lucio e i figli ci passarono dei periodi di vacanza, ci trascorsero lunghi week-end, spesso si trasferivano lì il venerdì e tornavano solo a settimana inoltrata, non necessariamente tutti assieme, a seconda degli impegni di scuola e di lavoro. Scoprirono l’agro romano a nord della città, i ragazzi s’iscrissero a un corso di equitazione, impararono tutt’e tre a cavalcare, Lucio divenne un maestro nel preparare barbecue e accendere camini. Ma Diana era inquieta, insofferente. I litigi con Lucio, per le ragioni più futili, si moltiplicarono. Liti sempre innescate da lei. Era nervosa, irritabile, indomita. A Lucio parve come regredita agli anni dell’adolescenza; mentalmente, l’epoca in cui era stata più lontana da lui. E del resto, fisicamente, pareva davvero ringiovanita. Il suo corpo rifiorì. Era più vitale, più bella; e fin troppo energica e combattiva. Animata da una verve, da un furore polemico che non sapeva o voleva frenare, e che mandava fuori dai gangheri Lucio. Davanti alle sue impennate, non trovando argomenti per ribattere – Diana, anche se in torto, era molto più abile di lui con le parole –  s’irrigidiva, opponeva una resistenza di pietra, dura e irremovibile, ma incapace d’interloquire coi pensieri altrui, di coglierne le necessità. Le loro discussioni scivolavano presto in recriminazioni sui rispettivi ruoli familiari, sull’impianto della loro routine domestica e su tutto ciò che lui faceva per lei. Quindi dopo un po’ finirono col non discutere affatto, passarono a scambiarsi colpi e basta.

Proprio in quel periodo, la casa di via Nizza – che era rimasta a Diana in eredità e che lei per anni aveva dato in affitto, le procurava una piccola rendita indipendente di cui in realtà non aveva affatto bisogno – perse il suo inquilino, la famiglia che la occupava si trasferì altrove e la casa si liberò.

Quando questo accadde, Diana non ne parlò con Lucio. Lo disse, invece, a Mauro.

Mauro era architetto, aveva uno studio che s’occupava di ristrutturazioni, rinnovamenti edilizi, arredamenti. Aveva fatto anche una certa strada, nel suo campo, la sua modesta ditta marciava piuttosto bene, le ruotavano intorno tre o quattro piccole imprese di costruzioni e una trentina di operai, falegnami, idraulici, pittori, elettricisti… Diana gli chiese aiuto per dare all’appartamento di via Nizza una veloce ripulita, riarredarlo, metterlo a posto. Lui fu felice di darle una mano.

Lei non aveva intenzione di andarci a vivere. No. Quel che aveva in mente era un’altra cosa. Aveva bisogno di un cambiamento, non solo famigliare. Anzi – per come la viveva in quel momento – principalmente non famigliare. Ci sono, momenti così. Dopo vent’anni, uno sente il bisogno di mollare il proprio cantuccio. Buttare tutto per aria, far finta che si possa ricominciare daccapo. Anche a quarant’anni. In quel che andava cambiato, nella mente di Diana, il lavoro prese un po’ il posto, si sostituì, all’insofferenza che provava per la gabbia familiare in cui improvvisamente le pareva d’esser rinchiusa.


Fine della terza parte – continua. L’immagine accanto al titolo è di Giulia Cavallini.

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