Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Cinema o foie gras?

Il nuovo film del vietnamita Tran Anh Hung, premiato a Cannes, è un "impiattamento" lungo oltre due ore. Una storia di cucina con più fumo che arrosto...

Se, invece di un film, La passion de Dodin Bouffant ovvero Il gusto delle cose fosse un piatto, meriterebbe l’applauso del trio Barbieri-Locatelli-Cannavacciuolo per l’impiattamento, cioè per l’aspetto estetico. Ma, assaggiandolo, i tre giudici di Masterchef non sarebbero altrettanto entusiasti: il cuoco ha dimenticato il sale. E cos’è il sale in un film? È la sceneggiatura, la scrittura della storia che il film racconta.

Questa pellicola, premiata l’anno scorso a Cannes per la regia del vietnamita Tran Anh Hung, dal punto di vista delle immagini è un piccolo capolavoro e più avanti lo spiegherò meglio. Ma secondo me manca una sceneggiatura compiuta – e magari io questo film non l’ho capito, a differenza di chi in questi giorni lo osanna – manca l’impianto di una storia che tenga a freno il “voyeurismo culinario” (così gli chef definiscono l’eccesso di cooking show sui social e nei programmi tv). Mi sono fatta un’idea sulle ragioni di questo risultato e la dirò alla fine.

Cosa succede in questo film che dura ben 2 ore e 16 minuti? Sostanzialmente lo spettatore assiste a una lunga sequenza, girata in una cucina francese dell’Ottocento, che illustra, con primissimi piani e sovrabbondanza di dettagli, tecniche raffinate di cottura, ricette complesse con salse, tartufi e foie gras, soffritti, roux, sbollentature e passaggi nel ghiaccio per conservare i colori dei cibi, eviscerazioni di volatili imbottiti con farce spericolate, midolli, crostacei, gamberi di fiume, costolette e lattughe brasate, insomma un trionfo di cibi che prelude a impiattamenti spettacolari. È un’orgia gastronomica che si consuma nei rumori in presa diretta senza commento musicale, c’è solo il respiro un po’ ansimante del gourmet Dodin Bouffant e della sua cuoca prediletta Eugénie. Nel sottofondo dei loro respiri e sospiri – perché i due cucinano insieme e insieme vanno a letto da oltre vent’anni – c’è il cinguettio degli uccellini nel parco della villa di campagna dove convivono in camere separate, lui adorante e agognante un matrimonio che lei non intende concedergli, lei consapevole che è meglio essere cuoca che moglie (almeno nella Francia del 1885).

A questa storia così accattivante manca un ingrediente fondamentale: una sceneggiatura ben strutturata che sollevi lo sguardo dalle ricette e dai piatti che occupano gran parte del film.

Ed è davvero un peccato perché, considerando la cucina una delle più elevate espressioni della cultura di un paese, molto mi aspettavo da questa pellicola. Di veramente meraviglioso, come dicevo all’inizio, c’è la fotografia che, con sapienti tagli di luci e ombre, porta sullo schermo la penombra delle stanze illuminate dalle candele, le atmosfere impressioniste dei quadri di Renoir e i déjeuners sur l’herbe di Manet. Ma la fotografia da sola non basta a fare un bel film. Mi ha delusa persino Juliette Binoche che interpreta Eugénie, una donna ancora bella dal sorriso condiscendente e sempre uguale a se stessa, quindi noiosa. Accanto a lei Benoît Magimel, già compagno di vita e di set, che ricordavo belloccio nella commedia Piccole bugie tra amici, qui decisamente sovrappeso per le eccessive libagioni, e c’è anche la brava Galatea Bellugi, appena vista nel cast del film Gloria!.

Lo confesso, ero convinta che in questo film avrei ritrovato le atmosfere indimenticabili de Il pranzo di Babette. Invece ho guardato una pellicola che almeno in parte mi è sembrata una rivisitazione patinata di Masterchef senza neanche il brivido del “pressure test”. Credo che questo risultato sia dovuto alla scelta di Tran Anh Hung di avvalersi della consulenza di Pierre Gagnaire, chef che vanta 12 Stelle Michelin. È legittimo coinvolgere uno chef per fare un film che ha a che vedere con la haute cuisine, a patto che il punto di vista resti quello del regista. Invece questa scelta a mio avviso sbilancia la pellicola e sposta il baricentro della narrazione, facendo dei piatti i veri protagonisti della storia e di Gagnaire qualcosa di più di un semplice consulente. Dommage!

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