Daniela Matronola
A proposito de "La zia pazza"

Storie dal pantano

Ancora una riflessione sul nuovo libro di racconti di Leopoldo Carlesimo: un ritratto multiplo della "savana" nella quale viviamo

L’arte del racconto ha perso in questi giorni una delle sue voci più rilevanti: Alice Munro, canadese, dolce signora della narrazione breve che dal suo primo libro, Dance of the Happy Shades, apparso nel 1968, in piena epoca di contestazione (in azione nel Nord America, per la verità, fin dalle contestazioni californiane degli anni Cinquanta), inaugurò la sua produzione di racconti che era anche una vocazione – tradita già nel 1971 con Loves of Girls and Women, una raccolta che, per il richiamo delle singole storie tra loro, tendeva a formare una sorta di romanzo sommerso.

Questa premessa non mi dà solo il modo di scrivere poche note su questa grande scrittrice, mai incontrata purtroppo [di cui però ho visitato pochi anni fa la libreria della famiglia di suo marito (Munro’s Books) a Vancouver (questo il grado, remoto direi, col quale più mi sono avvicinata a lei: l’ho avvicinata ben di più semplicemente leggendola)], ma serve qui a mettere da parte due elementi: l’arte del racconto, appunto, e una specie di guado intermedio che, tenendo i racconti nella loro natura di singole storie indipendenti, li promuove a tasselli di un mosaico che visto da giusta distanza delinea un romanzo sommerso o diffuso.

Con queste due riserve nella sporta, ci volgiamo verso una raccolta di racconti che mantiene entrambe queste promesse: La zia pazza, pubblicata dalla napoletana iod alla fine dello scorso anno (331 pagine, 15 Euro), di cui è autore Leopoldo Carlesimo.

Leopoldo Carlesimo è stato finora autore di racconti e romanzi in cui ci ha descritto soprattutto l’Africa.

Nel grande continente, che l’Occidente abbiente e coloniale continua a snobbare e a guardare come terra di conquista e saccheggio, senza considerazione per il fattore umano, Leopoldo Carlesimo ha lungamente lavorato da ingegnere con imprese impegnate nella costruzione di dighe. Ci ha inoltrati all’incontro con le maestranze locali e le figure padronali dei tecnici occidentali, e alla sensazione di sradicamento di chi resta inchiodato al cantiere di una grande impresa costruttiva per non appartenere più a nessun luogo.

C’è un’immagine che, a libro chiuso e storie lette con incalzante attenzione, si instaura nell’immaginario: una scena dopotutto africana, nonostante la raccolta in oggetto, questo suo libro più recente, racconti vicende europee, anzi italiane, anzi romane (l’autore è romano, Roma è la base da cui lavorando all’estero si è lanciato, tenendo un saldo gancio ancorato alla schiena che lo richiamasse qui e lo riportasse a casa).

Si pianta nel nostro immaginario un ricordo nero: Marlon Brando nei panni (umidi) di Mistah Kurtz piantato a mollo in acque stagnanti in Apocalypse Now, trascrizione cinematografica di Francis Ford Coppola da Heart of Darkness di Joseph Conrad. Proprio quel Mistah Kurtz, guru europeo involontario, padrone carismatico suo malgrado, impantanato in acque africane, il quale, all’acme (o meglio all’imo) della sua grondante decadenza, esclama indicativamente, The horror! The horror! – più che altro l’ammissione di un degrado morale operato da lui e su di lui dalla furia trascinante, inarginabile, dei fatti, della vita che corre per fatti suoi, dell’invischiamento cieco.

In questi racconti tutti i personaggi hanno comportamenti attendisti. Sono ritratti e guardinghi come certi animali selvatici che hanno dentro di sé, attivi, i codici dell’istinto, e si conformano in base ad essi a quanto accade intorno o a quanto temono o fiutano possa accadere.

Sono i borghesi europei, italiani, romani – che al meglio delle loro possibilità se la cavano (a stento).

C’è a un certo punto un racconto western. Il balletto borghese tra due fratelli adulti in cordiali rapporti tesi, in una casa (la dimora del padre morto), tra gli oggetti di famiglia di cui dover decidere cosa fare. Si tratta di una sequenza cinematografica in cui lo scambio delle posizioni, in perenne evoluzione, attorno, soprattutto, alle foto della madre, con spregio, nel lungo dialogo, per il padre, donnaiolo e dopotutto figura confusa, con i due che volteggiano l’uno attorno all’altro, prelude alla rissa finale. Il duello ordinario si fa colluttazione.

Un racconto rappresentativo proprio della condizione umana che l’intero libro disegna: la vera savana è qui.

Soprattutto nel racconto in questione, Eredità, vediamo meglio un disegno preciso che è ciò che l’autore ha colto e tratteggia senza esitazione come costante ultima della nostra condizione, appunto: questa deliziosa a suo modo insistenza a impantanarsi lambendo sempre con gusto sottile l’orlo dell’abisso in cui decidere poi se lasciarsi definitivamente precipitare oppure no. I due fratelli in questo racconto decidono per il sì, e, come hanno trasvolato fisicamente per tutto il racconto sulla propria realtà mediocre e viziosa, quando poi arrivano in prossimità dell’abisso, non solo ci si affacciano, ma ci si tuffano dentro senza riguardi per sé stessi.

Perché è anche un po’ questo il punto di questi racconti (alcuni dei quali costruiscono corolle di storie, per cui possiamo credere a una raccolta, come si diceva, che tende a disegnare un romanzo diffuso o sommerso – in una specie di genere intermedio o ulteriore non-genere): fatto salvo che la rete relazionale è costituita principalmente dai rapporti familiari, i personaggi, alcuni di più altri di meno, sono accomunati da una loro tendenza, antropologica dunque, di fondo, al vizio, e alla menzogna, come ipocrisia attivata per nascondere la parte impresentabile o forse imputabile di sé – più come autodifesa dalla maldicenza altrui che come puro desiderio di pulizia o meglio di ripulitura di sé.

L’arma più affinata dalla borghesia è la furbizia. Una specie di istinto selvatico ben educato (cioè allenato con invidiabile costanza) a fare sempre buon viso a cattivo gioco, e solo nel privatissimo, indagato a fondo da queste storie fin dentro i tinelli o gli atelier casalinghi o i retro-baite di montagna, i non-eroi del caso sono presi in castagna nella loro mediocre verità di opportunisti e parolai, quali sono i soggetti che, per esempio, non esitano a riusare le parole pronunciate, rivangate e decontestualizzate, contro chi le aveva dette in passato. Una scorrettezza che, tanto per dire, il codice penale e civile sanzionano. Eppure è moneta corrente nella quotidiana conversazione reazionaria, in uso nelle correnti faide di rivalsa promosse a un onore opaco dai social e dai talk-shows, con effetti velenosi nei rapporti attuali.

E dire che, come in una fortunata presentazione romana hanno sottolineato i due presentatori, Filippo La Porta e Fabrizio Ottaviani, eravamo partiti da Joseph Conrad, e dalla sua incuranza per le vittime, dalla sua attenzione piuttosto per la responsabilità del male in capo a chi lo compie, secondo una severità vittoriana forse un po’ giudicante, pure presentata da Conrad non come giudizio ma come constatazione oggettiva di quale sia poi la vera natura umana messa a pascolare in quell’ambiente di coltura velenoso che è il mondo borghese medio. Proprio con fine senso della realtà e delle cose, con acuta e moderata conoscenza della natura delle persone deviata dalla nostra società medio-consumistica, Leopoldo Carlesimo sguaina la sua lingua letteraria media e asciutta, priva di cascami letterari d’ogni genere, per condurci nello scandaglio di ogni nostra viziosa manipolazione del nostro status di medi commoners (gente comune) e delle relazioni attraverso la retorica delle nostre conversazioni, modeste e violente, torte e mai innocenti.

Una raccolta da centellinare, questa di Leopoldo Carlesimo, La zia pazza – titolo proveniente dal racconto d’apertura, storia divertente e rivoltante. Letteratura che riesce a darci un quadro, desolante e inaggirabile, e dopotutto gustoso ma con punte indomabili di grottesco, di ciò che fino in fondo siamo.


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.

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