Sergio Buttiglieri
In occasione di una iniziativa a La Valletta

Caravaggio e l’acciaio

Incontro con lo scultore Arcangelo Sassolino che, nel Padiglione maltese delle Biennale di Venezia del 2022 ha "riletto" Caravaggio: «Quello che mi interessa è lo sconfinamento della forma»

Il primo giugno prossimo, all’Università di Malta, Arcangelo Sassolino terrà una conversazione su Sconfinamenti. Conflicts and the unresolved border. Sculptures as metaphors of life, a cura di Keith Sciberras. È una buona occasione per approfondire la inimitabile poetica di Sassolino, che lui sintetizza con «ho un sentimento del perimetro che non si risolve».

Arcangelo Sassolino, puoi raccontarci la tua particolare formazione?

Ho un percorso sicuramente non molto canonico. Mi ricordo che da sempre, fin da bambino, andavo nel garage di casa e lavoravo con le mani. Questa gioia di incontrare i materiali e pensare al mondo in forma tridimensionale mi pervadeva. Io non disegno mai, penso alle cose come a un fluido tridimensionale. Per molti anni non sapevo cosa farmene di questo modo di guardare le cose. Questo mio rapporto col mondo ha seguito, poi, un percorso inusuale. Ad un certo punto, mi iscrissi a ingegneria meccanica a Padova, ma nel frattempo, volevo brevettare un nuovo freno per le macchine o un giocattolo. Ho brevettato il secondo. Il giocattolo è stata la mia fortuna perché lo mandai negli Stati Uniti e da lì nacque la possibilità di fare uno stage a New York con un’agenzia che produce giocattoli. Sarebbe dovuto durare tre mesi e, invece, rimasi quasi sei anni a New York. Dopo un paio d’anni che ero a lì andai alla retrospettiva di Matisse al MoMA e quella mostra cambiò letteralmente la mia vita. Tutto divenne chiaro. Una settimana dopo mi iscrissi alla School of Visual Arts. E quello è stato l’inizio.

Per quale aspetto ti colpì in particolare la mostra di Matisse?

La retrospettiva era fantastica. Nelle ultime stanze c’erano i suoi Cut-Outs, quelli che da anziano realizzava quando non riusciva più a dipingere. Tagliava con le forbici fogli di carta colorata e faceva dei collage straordinari. Sembrano quasi ingenui da quanto visionari sono e lì ho capito come l’arte ti porta a sconfinare da quei modi precostituiti di vedere il mondo. Il suo era un inno totalmente libero alla gioia di immaginare e fare. Il suo gesto artistico, in quel momento della mia vita, fu la lezione ideale. Tutto quel tempo che avevo passato a lavorare con le mani e a cui non sapevo dare un nome, era fare arte. Fu veramente una folgorazione e capii che la scultura sarebbe stata la mia strada.
Per un periodo ho lavorato nell’agenzia di giocattoli e contemporaneamente frequentavo l’Accademia fino a quando ho deciso di dedicarmi solo al mio impegno nell’arte. Sono tornato in Italia e ho vissuto per un paio d’anni tra Pietrasanta e Carrara per lavorare il marmo. In qualche modo mi sono riappropriato di quella classicità che abbiamo in Italia e che è più difficile da trovare in un’accademia americana.

Ricordo un tuo iconico lavoro del 2006 che realizzasti per la Galleria Galica. Puoi descrivercelo?

Per la Galleria Galica di Milano realizzai una colata di calcestruzzo armato direttamente sul pavimento, 4 metri x 4 metri, spessa 20 centimetri. Una volta rappreso il calcestruzzo, abbiamo sollevato da un lato questa lastra/calco e l’abbiamo tenuta puntellata a circa 45 gradi. A sostenerla era un solo perno d’acciaio che ho fatto calcolare dall’ingegnere il più sottile possibile. Volevo dare la sensazione di precarietà e pericolo. S’intitolava Momento, perché il momento in fisica è il calcolo matematico per capire le forze che agiscono dentro ai materiali. Quella fatica invisibile a cui sono soggetti i materiali che costituiscono strutture portanti come può essere un ponte o un’ala di un aereo, quel concetto che viene definito “il peso non dorme mai”, a me ha sempre intrigato da matti. Mettere in scena quello sforzo reale dei materiali sotto forma di trappola per chi ci passava sotto mi pareva una cosa che avrebbe fatto riflettere. Pensavo di espugnare Milano, fu un flop totale. Sei mesi dopo, però, cominciai a fare macchine. Avevo capito che per rendere visibile quello che avevo in testa, bisognava portare a galla la silenziosa drammaticità dei materiali in modo più esplicito.

Quindi hai cominciato a ideare e realizzare quelle che potremmo definire “performance inorganiche”. Potresti spiegarci meglio di cosa si tratta?

Sì, all’inizio ho cominciato a realizzare sculture con dei componenti meccanici come, ad esempio, il braccio di una scavatrice o quello che, in gergo industriale, chiamano il ragno. In questo secondo caso si tratta di un attrezzo che serve ad attanagliare qualsiasi tipo di materiale, ma una volta che è svincolato dalla meccanica della madre macchina e posto su un pavimento di cemento, la sua funzione di afferrare e stringere diventa inutile perché non riesce a far presa sul piano. Il suo tentativo si trasforma in un lento e patetico balletto che vanifica la sua funzione originaria e la sua forza.
Il braccio della scavatrice l’ho modificato e realizzato qualche anno dopo. S’intitola Elisa e la sua conformazione le permette di continuare a disegnare sempre nuove forme nello spazio perché i tre pistoni che la gestiscono hanno corse e alesaggi diversi. Questo lento, pesante ma inesorabile movimento che grava sul suolo fa sì che con il passare dei giorni distrugge e divora lentamente il proprio basamento. Quello della base è un concetto che mi interessa tantissimo. Nei secoli la scultura si è evoluta anche attorno al concetto di piedistallo, pensa solo nel Novecento ai diversi approcci che hanno avuto artisti come Brancusi, Manzoni o Carl Andre.
Qualsiasi tipo di superficie su cui una scultura è appoggiata la diamo per scontata. Volevo mettere in discussione questo elemento e, per questo, ho pensato ad una scultura che consumasse la propria base e via via sprofondasse dentro il terreno. Una sorta di demonumentalizzazione della scultura, come se fosse un corpo vivente che in qualche modo mette in discussione ciò su cui poggia. Non è l’autodistruzione della scultura di Tinguely, nel mio caso la scultura resta integra ma compie comunque un auto-sabotaggio. Elisa è stata mostrata solo due volte: una prima volta a Zurigo e poi a Palermo su invito della Fondazione Falcone, in occasione del 30° anniversario delle infami stragi di Capaci e Via d’Amelio.

Parlaci di Damnatio Memoriae

Mi affascina come tutto sia risolto dentro a un confine di forma e materia isolato dallo spazio che lo contiene. Tutte le sculture in genere hanno un confine netto con l’impalpabile che le circonda che è l’aria. Damnatio Memoriae è una scultura che trasforma in polvere un’altra scultura; con questo lavoro mi interessava in qualche modo fondere il marmo con lo spazio, parcellizzando la materia nell’aria. Mi interessava lo sconfinamento della forma. Era un tentativo di impregnare lo spazio di materia. Poi, in una nota più poetica, mi piaceva l’idea che aprendo la finestra, basta una piccola corrente d’aria per portarsi via quello che prima era immagine, forma e solida materia.

Come è nata la tua apprezzatissima collaborazione col Padiglione di Malta all’Arsenale della Biennale d’Arte del 2022, che per molti è risultata tra le opere più belle proposte dai padiglioni nazionali?

L’installazione che ho creato per il Padiglione di Malta è nata da un felice dialogo fra me e i curatori del padiglione Jeffrey Uslip e Keith Sciberras, esperto caravaggista. Partendo dal capolavoro di Caravaggio, la Decollazione di San Giovanni Battista del 1608 che è presente all’Oratorio della Valletta abbiamo fatto questa relazione fra geografia e storia. Quello è diventato l’aggancio per la mia installazione per il padiglione. A me interessava fondere l’acciaio. Per me l’acciaio è la spina dorsale delle nostre vite. Quello che cerco di catturare è l’istante del cambiamento di stato, l’attimo in cui qualcosa sta diventando qualcos’altro. L’idea che mi ha mosso è stata quella di liberare il metallo da quella forma chiusa, di portarne a esposizione la sua origine liquida, impalpabile, luminosa. Sciogliendolo, il metallo non è più solo e semplicemente un presente statico, non è più solo qualcosa che c’è e che in questo esserci rimane identico a sé stesso, ma si fa tempo, si dilata dentro una dimensione cronologica di apparizione e scomparsa. Le gocce incandescenti a 1500 gradi cadono e spariscono dentro l’oscurità, raffreddandosi dentro all’acqua. Questa impalpabilità, questa impossibilità di trattenere, questo rendere l’acciaio liquido era in qualche modo aggiungere la componente del tempo al mio lavoro. Questo tipo di luce che fa solamente il metallo quando fonde, questa luce nitida, viva, spero sia il miglior tributo al genio di Caravaggio.

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