Claudio Pasi
A proposito di "Buongiorno ragazzi"

Omaggio alla gioventù

La più recente raccolta di poesia di Valentino Ronchi è un omaggio al filosofo Vladimir Jankélévitch e al suo modo di rapportarsi ai suoi allievi

Non è raro che uno scrittore, o un poeta, venga indotto quasi in modo naturale ad accostarsi a un illustre predecessore, sospinto non tanto da un desiderio di emulazione né succube di quella che Harold Bloom chiamava «angoscia dell’influenza», ma mosso piuttosto da una sorta di convergenza spirituale, da una comune percezione dell’esistere nel mondo. È quanto accade a Valentino Ronchi nei riguardi del celebre filosofo Vladimir Jankélévitch che, con «quel modo di scrivere / così poco da filosofo», scrive lo stesso Ronchi, attraversa in controluce l’intera sua produzione in versi e in prosa, fino al recente romanzo Quasi niente (FVE 2024), dove il filosofo, oltre a prestare al titolo la formula presque-rien, compare anche in prima persona nella trama della vicenda.

Il nuovo libro di poesie di Valentino Ronchi è Buongiorno ragazzi (Fazi 2019), e il suo tragitto scorre in sintonia e in stretta continuità con le due precedenti raccolte, ovvero L’epoca d’oro del cineromanzo (nottetempo 2016) e Primo e parziale resoconto di una storia d’amore (nottetempo 2017), tanto da poterli considerare nella loro interezza come un unico poema in frammenti, una sorta di narrazione lirica già prossima a un progetto di racconto. Le istanze della poesia e della prosa qui travasano l’una nell’altra, perché ogni testo parla sì di una storia, spesso minima, che è magari soltanto l’epifania di un momento sottratto al cieco ingranaggio del tempo, ma questo avviene sull’onda di un ritmo lieve e colloquiale, appena sussurrato e scandito da una pacata misura interiore.

Non è, questo, un libro incentrato sullo statuto del soggetto né su di esso ripiegato, ma mostra invece un luminoso desiderio di estroversione nel suo rivolgersi alle vite degli ‘altri’, spesso entrando nei loro pensieri e assumendo la loro voce. E gli ‘altri’ qui sono coloro che appartengono alla sfera degli affetti e delle memorie dell’autore: la madre «l’unica casalinga al mondo / […] a conoscere / declinazioni e verbi irregolari » (p. 52), il padre che «giocava a pallone come certi giocatori zingari» (p. 76), e poi i ragazzi e soprattutto le ragazze – Anna Laura Antonella Marta Chiara Claudia con sua figlia Margot –, amiche d’infanzia e di adolescenza, ex-fidanzate, compagne di scuola, accomunate tutte nella singolare espressione vento concipientes, desunta da Plinio (p. 51), e celebrate nella loro grazia quotidiana, libera e radiosa, delineata ognuna nell’atto di attraversare l’«epoca d’oro» della gioventù. Si possono ravvisare, certo, diverse oscillazioni cronologiche che trasportano il ‘racconto’ in un passato vissuto o soltanto immaginato, o lo proiettano nel presente dell’età adulta, ma l’autentico fuoco del libro, il suo argomento ineludibile, sono «le giovinezze nostre, di tutti, che belle / si somigliano» (p. 53).

Buongiorno ragazzi è il saluto che ogni giorno rivolgeva ai suoi studenti di liceo il professore di greco, il cui nome viene indicato per discrezione con la sola iniziale. La sua prematura scomparsa costituisce il punto di partenza per una riflessione individuale e collettiva insieme, più emotiva che razionale, sul tema della temporalità e della perdita. Quella morte viene accolta dagli ex-alunni divenuti ora adulti come uno snodo dell’esistenza e li rende a un tratto lucidamente consapevoli della caducità delle cose e dell’irreversibilità del tempo: «Hai sentito di S.? Con lui finisce un mondo / che era finito già altre volte e altre ancora / finirà di nuovo» (p. 41). La figura dell’insegnante finisce così quasi per sovrapporsi a quella di Jankélévitch stesso, ricordato, nella retrospettiva sezione centrale del libro, non come il rinomato docente universitario, ma nelle vesti di giovane professore in un liceo lionese.

Prima e dopo questo nucleo francese, la storia si dipana lungo il filo conduttore di una memoria fluttuante, sfumata, che si distacca in pause ma senza mai interrompersi di netto, e che affiora per “capitoli” dove di nuovo appaiono fatti e personaggi già presenti nelle altre raccolte. E ancora una volta si tratta di storie vere, accadute in luoghi esistenti, vissute da uomini e da donne reali, le sole storie che sembrano davvero contare: «Le nostre storie non hanno che noi / per tenersi insieme» (p. 18). Tranne che per una breve escursione estiva nelle Marche, lo sfondo privilegiato sul quale si accampano i pensieri e gli eventi è Milano, in particolare la periferia orientale della città. Qui d’altronde ha inizio anche Riviera, il primo romanzo pubblicato da Ronchi (Fazi 2021), dove il fitto paesaggio urbano si alterna alle vecchie ville e ai giardini con gli alberi lungo le sponde del Naviglio, specchianti nelle sue acque ferme.

Da quelle parti si incrociavano i destini delle ragazze e dei ragazzi, in frotta dopo le lezioni ad aspettare il tram o la metro, con l’ingombrante Rocci sotto il braccio, il vocabolario di greco dalla copertina blu assurto qui alla funzione di elemento simbolico. Era, questo, il loro «cineromanzo», dai toni evanescenti e un po’ tristi come in certi film di Truffaut, con gli appuntamenti del pomeriggio, i bar all’aperto, le lunghe vacanze, le squadrette di calcio, i nomi delle strade. E poi le letture, affastellate e distratte, di autori menzionati anche solo di nome nelle fugaci conversazioni: Rilke, Pasternak, Virginia Woolf, e Omero sopra tutti, citato con ironia e rimpianto; e persino l’eco di qualche canzone: De Gregori e Aznavour. Là essi ancora si incontrano, ormai donne e uomini fatti, padri e madri, nuovamente riuniti dalla morte di quel loro insegnante, per ricordare insieme e ricordarsi: «Hai sentito di S., immagino… Come / eravamo felici allora, quegli anni» (p. 16).

Il velo tenue della nostalgia sembra infatti avvolgere ogni pagina del libro («Hai fatto della nostalgia un oggetto», p. 44), un senso profondo del perduto lo pervade, costantemente ricorre il motivo dolente dell’ultima volta («Era / l’ultima notte dell’ultima gita dell’ultimo / anno», p. 41), perché, come dice una frase di Jankélévitch altrove ripresa da Ronchi, «Ogni ‘volta’ non arriva che una volta sola in tutta l’eterna infinità del tempo». Per questo forse si ha a volte l’impressione che i versi rimangano come in attesa, fermi sulla soglia di qualcosa di non detto, come sospesi sull’orlo di uno strapiombo, e in essi affiori, simile a un bagliore improvviso e rivelatore, il kairós di quegli effimeri irrecuperabili istanti. La nostalgia, dice ancora il filosofo, «è coscienza di qualcosa d’altro, coscienza di un altrove, coscienza di un contrasto fra passato e presente, fra presente e futuro». E la nostalgia incomincia fin da subito, nell’unicità senza rimedio del momento presente: «Certe volte mi capita / di sentire una malinconia delle cose prima / ancora che finiscano, che siano lontane» (p. 79).

Qui, sommessamente, viene reso omaggio all’epopea «irreversibile» della gioventù, e Buongiorno ragazzi sarà dunque il saluto d’addio che Valentino Ronchi ad essa porge, e al tempo che trascorre, il proprio e quello di tutti. Così, mentre si volta indietro, uno degli amici di quegli anni lontani ma tuttora vivi, con accorata meraviglia giunge ad esclamare: «Boia mondo, siamo liceali senza più liceo».


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.

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