Michela Di Renzo
Un racconto di (eccessivo) amore

Quella sera

«Eravamo perfetti noi due, da tutti i punti di vista, a partire dall’altezza: io pochi centimetri più bassa di te, un metro e settantacinque, tu un metro e ottanta, tutt’e due con un fisico statuario»

Se mi tornassi questa sera accanto, sono sicura che sarebbe tutto diverso. Diverso tra me e te, tra me e tua sorella, tra me e tua madre, tra me e tuo padre, insomma tra me e la tua famiglia ingombrante, quella famiglia che ci ha separato. Perché, se non fosse stato per loro, noi saremmo ancora insieme, io di questo sono certa, anzi certissima.

Eravamo perfetti noi due, da tutti i punti di vista, a partire dall’altezza: io pochi centimetri più bassa di te, un metro e settantacinque, tu un metro e ottanta, tutt’e due con un fisico statuario, il tuo forgiato dagli allenamenti di tennis, il mio dalle ore di palestra. E poi tutt’e due biondi, di un biondo dorato, con una gran massa di capelli lunghi, lisci, il viso dai lineamenti perfetti, gli occhi chiari, celesti. Bastava entrare insieme in un locale per sentire gli sguardi di tutti i presenti su di noi. “Che bella coppia’’, mormorava sempre qualcuno. Perché questo eravamo, proprio una bella coppia, nati l’uno per l’altra, tanto che ancora non riesco a credere che possa essere tutto finito.

Certo tua sorella era una presenza asfissiante, con quella smania di volerci stare sempre accanto, è vero che era lei che ci aveva presentato quella sera alla cena del circolo del tennis, io a quei tempi ero la sua migliore amica, e ci aveva visto lungo a pensare che eravamo fatti l’uno per l’altra, ma da questo a seguirci ovunque andassimo, con la scusa che stando da sola aveva gli attacchi di panico. Non ti nascondo che quel viaggio a Venezia in tre è stato davvero pesante, anche se per fortuna la mattina lei restava a letto a dormire fino a mezzogiorno, mentre noi due ce ne andavamo a giro a rallegrare quella città così triste e deprimente. Ti ricordi quel fotografo che ci volle immortalare davanti al Ponte dei Sospiri dicendoci che avrebbe pubblicato la nostra foto su Vanity Fair? Non lo ha fatto solo per rispetto del tuo, anzi del nostro dolore, quando, qualche mese dopo, tua sorella ingerì una cinquantina di pasticche e il medico dell’ambulanza non riuscì a salvarla, arrivò troppo tardi, e noi eravamo davvero disperati quel giorno, te che scappasti di corsa dal lavoro, e io che all’obitorio non riuscivo a trattenere le lacrime, che rischiavano di sciuparmi il tatuaggio delle sopracciglia fatto proprio quella mattina. E per fortuna che avevo evitato di rispondere al cellulare che suonava in continuazione mentre ero dall’estetista. Solo dopo mi sarei accorta che erano chiamate da parte di lei, di tua sorella, inopportuna, come sempre.

Poi ci si mise tua madre, povera donna, certo era stata messa a dura prova, lo comprendo, ma quando cominciò ad avere quegli strani dolori di petto, te iniziasti ad accompagnarla a tutte le visite specialistiche possibili e immaginabili, da cui tornavi stanco e con un accenno di occhiaia, un accenno è vero, ma pur sempre un’occhiaia. La mattina che l’hanno trovata morta a letto tuo padre non se ne capacitava, gli accertamenti cardiologici non avevano mostrato niente di grave, ma si sa che i medici a volte sottovalutano il caso e comunque io mi opposi fermamente all’autopsia perché sarebbe stato un peccato sapere il corpo di quella bella donna straziato. E del corpo bisogna sempre avere molta cura, tanto che io mostro ancora trent’anni, grazie allo sport, alle diete e a qualche ritocchino di chirurgia estetica. E tu mi desti ragione, anche se il tuo corpo cominciava a risentire degli effetti del tempo, con il biondo dei capelli che incominciava a ingrigire e i muscoli dell’addome che diventavano flaccidi.

Quando ci si mise anche tuo padre, che sentendosi solo, ci cercava spesso e si piazzava a serate intere a casa nostra, mi sono sentita soffocare di nuovo. Quella sera che l’ho riconosciuto mentre tornava a casa a piedi sotto la pioggia, la mia macchina ha sbandato proprio contro di lui, uccidendolo sul colpo, senza farlo soffrire. È stato da allora, da quel terzo lutto, proprio quando eravamo rimasti soli noi due, è stato da allora, dicevo, che tu sei cambiato, hai iniziato a trascurarti e soprattutto a guardarmi strano, a evitarmi.

Se mi tornassi questa sera accanto, forse non aggiungerei quei funghi a pois bianchi e rossi al pasticcio di carne confezionato che ogni tanto ti portavi al lavoro e che secondo i medici ti ha danneggiato irrimediabilmente il fegato, al punto di indurli a tentare un trapianto, fallito miseramente purtroppo.  Se mi tornassi questa sera accanto, ora che me ne sto qui in questa stanzetta con una finestrella attaccata al soffitto, ora che in questa camerina quattro metri per due tu saresti tutto per me, sono certa, anzi certissima che sarebbe tutto diverso.


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.

Facebooktwitterlinkedin