Testo e foto di Carla Stefano, Marta Talora, Simone Tucciariello
Da dove, da quando/3

Le storie di Paolo

Paolo Vanacore, la Magliana, la letteratura, le passioni, la scoperta dell'omosessualità. Proseguono le storie dei ragazzi del liceo Montale di Roma

Paolo ha sempre sognato di raccontare le sue storie, la realtà che ha vissuto e che vive, le immagini della sua quotidianità. Per questo, tra le quattro pareti del suo studio, sfoglia il libro che ha scritto: La verità arriva all’improvviso. Racconta le storie della Magliana, di donne, di mogli, di bambine e delle loro vite. Le rilegge per la centesima volta: vuole assicurarsi che siano pure, limpide, prive di qualsiasi tipo di errore. Soffermandosi sulle prime righe, inizia a rivivere anche la sua realtà, quella di quando era bambino e viveva a via Vaiano, con sua madre e i suoi tre fratelli. “Dove il cemento impedisce la vista del cielo, dove il sogno è un grande prato di margherite”, così ha scritto nel suo libro. In quel posto, alla fine, si viveva di paure e di speranze, e una cosa non escludeva l’altra. Lui e i suoi amici sono stati privati di un’infanzia, ma, perlomeno, pensa nello studio lisciandosi il pizzetto, quella mancanza ha generato sogni e obiettivi: uno scopo per vivere. Tutti sognavano il riscatto; non importava se fosse economico o sociale, ma doveva avvenire.

Paolo aveva delle idee precise sul suo futuro: «Appena faccio i soldi e divento qualcuno, mi compro una casa gigante, una macchina vera e me ne vado via da qui».

La madre però gli rispondeva sempre secca: «Fai quello che te pare, ma appena esci dalle medie vai a fa’ l’industriale».

Sua madre era un osso duro. Era lei a decidere per i suoi figli. Lasciava loro poco spazio alle loro scelte. In un quartiere del genere, d’altronde, se i tuoi figli non li educhi con metodi spartani diventano dei tossici o dei delinquenti qualunque.

Più Paolo rilegge, e più gli riaffiorano episodi della sua vita. Lo assaliva l’immagine di lui bambino che vagava per via Vaiano, accanto alla chiesa, vicino al Centro di Cultura Proletaria, sormontato da quei tetri palazzoni, quei blocchi di cemento che ogni volta lo intimidivano. Ne era spaventato da sempre. Il suo corpo così giovane, la sua statura così bassa, si sentiva un nulla a confronto con l’imponenza di quel cemento grigio: era un grigiore aspro, brutto, che ti prende a pugni in faccia. Un colore che non è un colore, privo di passione, che a uno che ci cammina vicino fa svuotare la mente.

Quando tutto si inondava, via Vaiano diventava ancora più brutta, ancora più grigia. Il Tevere, possente e impetuoso, straripava e inondava tutta la Magliana. Non succedeva così di rado in fin dei conti. Paolo di inondazioni ne avrà vissute una o due, ma era bambino; ogni cosa fuori dalla norma a quell’età diverte tanto. Ricorda specialmente quando i pompieri dovevano trasportare gli abitanti del quartiere col canotto. E quanto si divertiva!

Via Vaiano diventava ancora più grigia quando Paolo camminava da solo per strada, da ragazzo, fra orde di drogati: aggressivi, irrequieti, pazzi, che imploravano solo per una dose.

Continua a leggere in modo compulsivo nel suo studio. E pensa a quei momenti di terrore, a tutte le volte che ha rischiato di rimanerci secco. Quando, da solo, per tornare a casa doveva passare tra i fattoni in astinenza, era sempre una scommessa. Le possibilità erano variegate: potevano scipparlo, farlo tornare a casa in mutande; potevano lasciarlo in pace, riconoscere che era solo un ragazzino; il tutto poteva degenerare e concludersi in tragedia. Sperava sempre che fossero fatti, così – in estasi per la dose di eroina – sarebbero stati del tutto innocui.

“Dove il cemento impedisce la vista del cielo, dove il sogno è un grande prato di margherite”. E quanto si sognava! Tra i campi da calcio, nella terra del Pian due Torri, i sogni sapevano di libertà, di corsa, di sudore e di voglia di riscatto. Paolo partecipava a partite di calcio interminabili, ogni giorno, anche la domenica mattina. Sua madre dava di matto a vederlo uscire assieme al sole e tornare quando spuntava la luna. Ore e ore a giocare, raffreddarsi, divertirsi, perdere cognizione del tempo, viaggiare con la mente verso posti più belli. E si sognava: di guadagnare, di andare via, di diventare importanti. Paolo amava con tutto sé stesso il calcio: doveva farlo per sentirsi accettato dal gruppo. Ma lui giocava volentieri, perché solo così avrebbe potuto trascorrere più tempo con i suoi amici.

Ci passava pomeriggi interi insieme e sentiva un forte legame nei loro confronti. Gli voleva bene, ma le litigate non mancavano. Venivano da situazioni familiari difficili e le angosce personali si ripercuotevano sulla loro amicizia. Paolo per i suoi amici provava molto affetto, pensava fosse normale, credeva che fosse l’elaborazione di un forte trauma. Aveva perso il padre da bambino e la mancanza di una figura paterna si faceva sentire. Paolo ricorda molto bene la morte del padre, ma ricorda anche tutta la solidarietà che in quel momento difficile i suoi vicini avevano dato a lui e a tutta la sua famiglia. È stata questa solidarietà a fargli capire che in fondo nel quartiere non si vivevano solo esperienze difficili e che l’umanità e il senso civico prevalevano sempre. In Paolo crebbe così la voglia di aiutare tutti quei bambini che come lui erano stati sfortunati. Proprio per questo decide di fare l’animatore nei centri estivi per le famiglie disagiate del quartiere e, grazie alla Fondazione svizzera “Covive”, finanziata dal Partito Comunista Italiano, caposaldo della Magliana di quegli anni, si potevano regalare vacanze di due settimane a quei ragazzi che come lui vivevano senza troppi privilegi.

Paolo smette di leggere il libro che tiene tra le mani, e si guarda intorno: la casa grande, i suoi spettacoli appesi al muro come trofei, il suo fantastico marito Alessandro. “Cazzarola! – esclama compiaciuto – quanta strada che ho fatto…” E ricorda tutti i suoi amici, e ricorda l’ossessione che aveva per loro, da volerci stare sempre insieme. E ricorda anche quando scoprì per la prima volta che quella non era ossessione, e non era soltanto elaborazione di un trauma. E la mente corre ai tempi in cui non avrebbe mai messo in discussione la sua eterosessualità. Ne aveva avute tante di fidanzatine, e una di queste se l’era anche sposata. Con lei visse a Magliana, ma la relazione non funzionò. Fu un momento molto difficile per lui, un buio di tre anni. Fu allora che realizzò di essere omosessuale. Aveva paura, non sapeva quale sarebbe stata la reazione dei suoi, non sapeva come comportarsi. I gay erano considerati dei reietti portatori di HIV.  Un giorno, tesissimo, si fece coraggio e, come davanti ad un prete, si confessò: «Mamma, cari fratelli, devo dirvi una cosa». Tutti pendevano dalle sue labbra. E finalmente arrivò la frase, sintetica, breve, rapida. Come un proiettile: «Sono gay».

La reazione della madre non fu delle migliori: “Non me l’aspettavo. Sei sempre stato normale… non si vedeva ecco!”

Paolo non gliene fece una colpa, considerando la mentalità molto chiusa di quei tempi: gli omosessuali, per antonomasia, dovevano essere effeminati.

Un giorno di marzo conobbe Alessandro e con lui scattò subito la scintilla. Fu a un counseling a San Lorenzo, a cui partecipavano soltanto persone omosessuali con lo scopo di imparare a conoscere e accettare sé stessi e imparare a conoscersi fra loro. Per conoscersi, i gay avevano sì i bar, le saune, le discoteche: il fine, però, era sempre il sesso. Ma Paolo era un sognatore, e voleva di più. Perché agli etero era concessa la libertà di conoscersi e di innamorarsi e invece i gay dovevano scopare come topi di fogna in qualche putrido cesso, in qualche locale a luci al neon? Perché doveva nascondersi e fuggire da chi era realmente?

Il suo primo giorno di counseling fu il primo giorno anche di Alessandro: uomo appassionato di teatro e scrittura. Finito il percorso, si continuarono a vedere. E finirono per essere uno la dolce metà dell’altro.

Paolo, con il libro stretto tra le mani, continua a guardare le pareti che lo circondano e oltre ai manifesti delle opere teatrali vede la cornice con la sua laurea e inizia a pensare a quei momenti lì. Non è stata per niente facile, nessuno gli ha mai dato nulla gratis. Ogni cosa che ha, se l’è guadagnata col sudore e con la fatica. E nello studio ricorda degli sforzi per poter studiare. Il diploma con ottimi voti all’ITS Armellini e poi la laurea a 34 anni in Storia della Spettacolo alla Sapienza, a Roma. Ogni percorso che ha seguito l’ha dovuto pagare, era uno studente lavoratore lui, faceva il cameriere, il venditore per poter pagare le tasse universitarie. Con la sua tesi vinse un premio per le migliori tesi letterarie d’Italia, per la sezione teatro. E fu così che mise in scena il suo primo spettacolo: fu quello l’inizio della sua carriera, scrittore, drammaturgo, regista.

Paolo torna con la mente al presente, a dove è arrivato, e felice chiude il libro che tiene tra le mani.


Nelle foto: in alto a sinistra, Carla Stefano fotografata da Marta Talora; a destra, Marta talora fotografata da Carla Stefano. Sotto a sinistra, Simone Tucciariello fotografato da Alice Bellucci.

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