Paolo Petroni
Al Teatro La Comunità di Roma

La poesia di Sepe

“Femininum Maskulinum”, il nuovo spettacolo di Giancarlo Sepe, è davvero un sunto poeticamente perfetto di tutta la sua parabola creativa. Un percorso che si consuma alla ricerca della libertà

Mentre assistevo alla Comunità a questo nuovo, bello, vero spettacolo di Giancarlo Sepe, Femininum Maskulinum che dopo le repliche romane sarà alla Pergola di Firenze dal 23 al 28 aprile (che lo produce come Teatro della Toscana) mi è venuto in mente che fosse lo spettacolo della sua maturità. Una cosa ridicola, visto che Sepe ha la mia età (classe 1946) e lavora dalla fine degli anni ’60 (del 1970 è quel Misteri dell’amore di Vitrac nella palestra di una scuola, che lo fece conoscere e fu una delle mie prime recensioni).

Allora, ripensandoci sorridendo nel dire a lui il mio pensiero dopo lo spettacolo, lo ho messo a fuoco e devo dire che sì, questo è lo spettacolo della maturità di Sepe, ovvero dell’ultimo periodo di Sepe, sviluppo ovviamente coerente di tutto il suo lavoro, ma con qualcosa di diverso relativamente al Sepe degli inizi, a quello poi della maturità vera (gli anni di Spoleto) e quello dei grandi teatri e il misurarsi con i testi classici. Ora c’è un’intensità, un lavoro sui sentimenti e sull’umanità che è più profondo e implicito e che è andato perfezionandosi in questi ultimi vent’anni, partendo non a caso da Germania anni ‘20, che è un po’ una sorta di prequel di questo Femininum Maskulinum, passando tra le altre cose per Washington square e soprattutto i due Dubliners. Tutto ciò qui grazie alla sua ricerca di perfezione, all’idea originale che è frutto di un interesse vero e antico per la Germania di quegli anni  (ricordiamo Accademia Ackermann, successo del 1978, e prima ancora Hermann), alla messinscena del regista, all’uso dello spazio, delle luci, delle musiche, per la qualità attoriale di un gruppo di ottimi giovani guidati in movimenti difficili,  spesso ripetitivi, veloci e di gruppo, che non diventano mai marionettistici, capaci di cantare e parlare e di realizzarsi e relazionarsi sempre in un lavoro che è d’insieme più che di personaggi e protagonisti.  Per questo è giusto citarli subito tutti in ordine alfabetico: Sonia Bertin, Alberto Brichetto, Lorenzo Cencetti, Chiara Felici, Alessia Filiberti, Ariela La Stella, Aurelio Mandraffino, Giovanni Pio Antonio Marra, Riccardo Pieretti, Alessandro Sciacca, Federica Stefanelli.

Lo spettacolo è un inno alla libertà, di per se stessa eversiva, specie in momenti in cui, come Sepe mostra, cala una cappa nera, come un sipario che nasconde e inghiotte tutti, su una società, un mondo, un’epoca. Qui la Germania nazista che segue e cerca di cancellare la vitalità della Repubblica di Weimar, in cui ognuno può esser quel che vuole, che sia ariano o ebreo, bianco o nero e qualsiasi tendenza sessuale abbia, posto che il sesso, la sensualità è lo spazio del proprio libero modo di essere.

Si inizia così con una scena di nudo, con una coppia che poi si veste e sveste, un uomo e una donna che si scambiano l’abito perché il genere non è più una regola, una prigione. La canzone da cui viene il titolo dello spettacolo parla del resto di cambi d’abito che fanno passare il femminile per maschile e viceversa. I costumi sono di Lucia Mariani e si prosegue in un continuo vestirsi e spogliarsi, a sottolineare un’epoca di cambiamenti e travestimenti di abiti da sera sostituiti da divise, andando da momenti di seduzione e vita a momenti di violenza e morte, ma anche a dare al lavoro un andamento da musical, quasi metafora della vita. Del resto si canta di tutto, motivi tedeschi d’epoca, da Berlin che ride e piange a Ja und Nein che hanno perso il loro senso e tante musiche classiche e non di ogni epoca e genere, scelte come sempre con sapienza e precisione da Sepe per dar corpo e sentimento a un momento visivo.

Come si legge su un muro, si parte dal 1929, subito dopo la prima volta che il partito Nazionalsocialista si presenta alle elezioni ottenendo un risultato irrilevante, anno in cui viene assegnato il premio Nobel per la letteratura a Thomas Mann che ha 54 anni. E lo scrittore, cui dà corpo e importanza l’interpretazione di Pino Tufillaro, compare per sottolineare la vitalità culturale dell’epoca e poi per seguirne la scelta di lasciare nel 1933, anno in cui Hitler diventa Cancelliere, la Germania assieme alla moglie ebrea Katia. E c’è pure Hitler, colto anche nella tragica infatuazione per la nipote Geli, sino all’uscita di scena. E c’è, con Billy Wilder, il sogno dell’America, ma con la sua doppia faccia rivelata dalla figura di Al Capone.

Tutto questo, magari non in certi particolari, ma è nello spettacolo, nei suoi simboli, in un mostrare una vita corale, quotidiana nei suoi cambiamenti, nelle sue resistenze, nelle sue sconfitte, tra chi resta e chi parte, nel sentimento di un’umanità dolente in un variare che spesso trova il suo tono e i rumori fuoriscena, colpi violenti alla porta, uno sventagliare di mitra, un cambio delle luci che da “normali” diventano a forte contrasto, disegnate da Javier Delle Monache. Mentre lo spazio del palcoscenico della Comunità, ridisegnato da Carlo De Marino e fatto vermiglio e nero, sembra amplificarsi, mostrare doppifondi, aperture che ne fanno quella scatola magica che è sempre il miglior teatro.


Le fotografie dello spettacolo sono di Manuela Giusto.

Facebooktwitterlinkedin