Anna Camaiti Hostert
Cartolina dagli Usa

Il Vietnam di Biden

Le due guerre in Ucraina e a Gaza peseranno sulle elezioni di novembre. Il presidente Biden viene accusato di troppe incertezze, ma nelle urne si dovrà scegliere la democrazia e la sua estinzione

È normale negli Stati Uniti che quando le crisi di politica estera si trovano a coincidere con un’elezione presidenziale, raramente il presidente uscente ne beneficia. Questo sembra essere anche il caso di Joe Biden. Sulla sua presidenza incombono ben due guerre che non sembrano certamente aumentare i consensi per il candidato democratico in vista delle elezioni di novembre: quella in Ucraina conseguente all’invasione di quest’ultima da parte della Russia e quella tra Hamas ed Israele. Ma è soprattutto la guerra di Gaza a provocare più controversie e a influire sulla perdita dei consensi, specie da parte dei giovani. Sembra infatti che tra i 18 e i 34 anni, il 52% dei consensi vada alla causa palestinese, mentre solo il 29% a quella di Israele. I sondaggi dicono che 2/3 degli americani sono favorevoli a un cessato il fuoco a Gaza e la riluttanza di Biden a prendere le distanze da Israele e smettere di fornire aiuti militari sta facendo scemare un consenso che anche dentro al partito democratico sembrava fino ad ora essere abbastanza compatto; quello stesso che lo aveva portato a vincere le scorse elezioni.

In più, fanno rilevare alcune fonti di stampa vicine al partito democratico, questa strategia appanna anche quella caratteristica di empatia e generosità che aveva definito Biden in passato e che lui stesso ha sempre ha tenuto a mostrare. Cosi mentre solo il 34% degli elettori approva la politica estera di Biden nei confronti di tale conflitto, il 56% disapprova con un picco del 70% tra i giovani tra i 18 e i 29 anni.

Ma quello che fa riflettere di più è la divisione che esiste nell’area democratica. La comunità ebraica stessa infatti ha posizioni diverse, in quanto in parte è d’accordo con la politica israeliana e ritiene che Biden dovrebbe essere ancora più deciso nel sostenere Israele, mentre in parte pensa che dovrebbe essere più incisivo nel limitare il massacro dei palestinesi. Soprattutto tra i giovani. Molti studenti ebrei nelle università manifestano accanto agli altri contro Israele e incolpano Biden di non sostenere abbastanza la causa palestinese. E molti di questi hanno dichiarato che non voteranno per Biden alle prossime elezioni. Ad essi si aggiunge una parte consistente tra i rappresentanti delle comunità islamiche che hanno sostenuto Biden nel 2020 e che per esempio in Micbigan, (uno degli swing state e dunque molto importanti per le elezioni di novembre), hanno minacciato di ritirare il sostegno al presidente uscente. Hasan Abdel Salam un professore dell’università del Minnesota che fa parte del gruppo “Abandon Biden” ha affermato che non solo non lo voterà, ma che con il suo gruppo farà campagna elettorale contro di lui, affermando che voterà per un candidato indipendente. Come si vede questa guerra risulta molto divisiva e pericolosa per il futuro di Biden.

Quest’anno la Convention del Partito democratica si terrà, come nel 1968, a Chicago. Allora fu una disfatta per il partito e per il candidato Humphrey che perse le elezioni a vantaggio di Richard Nixon, che come sappiano è poi finito come è finito. Ma le somiglianze non si limitano a questa ricorrenza geografica. Come nel  ’68 infatti quando si registrarono  in tutto il paese massicce e affollate manifestazione contro la guerra nel Vietnam da parte degli studenti universitari che successivamente si riversarono in massa nella Windy City con la speranza di influenzare la strategia del partito, e fu un disastro, in questi giorni molte università  americane (da NYU, a Yale, alla Columbia  ad Harvard al MIt, a Berkeley ad Ann Arbor in Michigan a Chapel Hill in North Carolina) hanno registrato e continuano a registrare manifestazioni di protesta, occupazioni e accampamenti dentro i campus da parte degli studenti. Che protestano contro la decisione della presidenza Biden di continuare ad aiutare lo stato di Israele in quello che   definiscono “il genocidio del popolo palestinese”. Le proteste non solo continuano ma sembrano allargarsi ad altre università. Gli studenti sono accusati spesso insieme ai presidenti delle stesse università, che in alcune occasioni sono stati anche costretti a dimettersi, di antisemitismo. Anche se andrebbero fatti molti distinguo e date molte spiegazioni. Da parte di tutti i contendenti. Credo tuttavia si possa dire con relativa certezza che queste proteste, a meno che qualcosa non cambi nel frattempo, si estenderanno fino ad agosto quando a Chicago si terrà la Convention democratica.

Nel 1968 a Chicago ci furono forti disordini e la presenza studentesca molto agguerrita e a tratti anche violenta si concluse con cariche pesanti della polizia e centinaia di arresti ordinati dal sindaco democratico Richard J. Daley.

Al di là dei successi ottenuti in politica interna con riforme di portata epocale e veramente democratiche, purtroppo poco reclamizzate perfino dal suo staff, Joe Biden paga il prezzo da una parte della crisi morale della leadership americana nel mondo in cui le regole dell’ordine internazionale che egli ha promesso di sostenere agli occhi di molti americani appaiono irrimediabilmente compromesse e soggette a un doppio standard. E questo accade perché, come nel caso di Israele e della questione palestinese, ci sono oggettivamente delle difficoltà a scegliere in maniera assoluta e dirimente una parte; eccetto che a mio parere bisognerebbe sempre schierarsi con le vittime.

Dall’altra parte Donald Trump cerca di sfruttare la percezione delle debolezze e della vulnerabilità di Biden in tutti i sensi per proiettare un’immagine forte di sé e dell’America, secondo la quale non si deve scendere compromessi o mostrare indecisioni. È un’immagine che piace molto a quella parte dell’America reaganiana che spera di ritornare ai fasti del passato, a un dominio assoluto incontestato e incontestabile nel mondo. Cosa assolutamente impossibile. Biden che inciampa fisicamente e la cui politica estera ultimamente tentenna, cercando di barcamenarsi tra un contendente e l’altro, contribuisce a rafforza questa “narrativa”. Che d’altra parte ripropone tuttavia le difficolta nelle democrazie di decisioni sofferte, complesse e non lineari.

Ma forse è bene ricordare che i tra i due contendenti non c’è semplicemente una diversità di vedute tra candidati equipollenti di due diversi partiti che sono sullo stesso piano, ma corre la differenza che c’è tra la vita di una democrazia e la sua estinzione. Cosa che per quelli di noi che il 25 aprile celebrano la festa della liberazione dell’Italia dal nazifascismo, ha un grande significato e fa una differenza fondamentale. La stessa menzionata molti anni fa da Vittorio Foa all’onorevole Romualdi dell’Msi (Movimento Sociale Italiano, nato della cenere del Partito fascista): “La differenza tra me e lei è che se lei fosse stato ancora al potere io sarei o in galera o forse morto, mentre dato che ho vinto io, lei fa il senatore di questa repubblica”. Buon 25 aprile a tutte/i!!!

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