Ida Meneghello
Diario di una spettatrice

Il tennis di Luca Guadagnino

“Challengers", il nuovo film di Luca Guadagnino, è ambientato nel mondo del tennis. Un classico triangolo d'amore con dialoghi banali e musica (non gradevole) a palla

Avevo un paio di motivi per vedere subito Challengers, il nuovo film di Luca Guadagnino ambientato nel mondo del tennis: come tutti sono una fan di Yannik Sinner e il tennis è da sempre la passione di mio marito che lo pratica da anni. Perciò mi ero già proposta di tornare a vedere il film con lui. Ma adesso che l’ho visto non lo farò, non vorrei rischiare il divorzio.

C’era bisogno di un film come Challengers? No, non ce n’era bisogno. E qui cercherò di spiegare le ragioni che giustificano una risposta tanto secca.

Parto da un aspetto che per molti spettatori è secondario: la colonna sonora. Non so se sia l’effetto di una contaminazione sempre più invasiva tra cinema e serie televisive, ma ormai mi succede troppo spesso di subire commenti musicali che mi straziano le orecchie e che, invece di offrire un valore aggiunto alla pellicola, devastano dialoghi e immagini. Per questo motivo, dopo essermi appuntata il nome dell’autore della colonna di May December Marcelo Zarvos, ora aggiungo i nomi di Trent Reznor e Atticus Ross, così la prossima volta se posso li evito. Mi sfugge comunque, a prescindere dai gusti, il senso di una musica a palla con i decibel da discoteca che esplode a sproposito nei momenti più impensati e drammatizza situazioni del tutto prevedibili.

Oltre alla colonna sonora, ecco gli altri motivi alla base del mio giudizio negativo.
1- sceneggiatura e dialoghi: cosa ci racconta Challengers? Ci racconta la storia del classico triangolo costituito da una ragazza molto bella (Zendaya in tutto lo splendore dei suoi ventisette anni) e da due amici che si innamorano di lei (Patrick è Josh O’Connor, Art è Mike Faist, tennisti loro e tennista anche lei). La ragazza (che non è stupida) capisce fin dal primo incontro che tra i due amici c’è qualcosa di più, che la competizione feroce che li oppone in campo maschera complicità che vanno ben oltre l’amicizia. “Non sono una sfascia famiglie” dice lei e i due fingono di non capire. Lei sposerà Art e continuerà a desiderare Patrick. Ma scordatevi il triangolo di Jules et Jim, la sceneggiatura è prevedibile, i dialoghi sono banali tipo: “Mi terrai abbracciato finché non mi addormento?” Risposta laconica: “ok”. Poi lei scappa nella notte buia e tempestosa per raggiungere l’altro.
2- montaggio: definirlo erratico non rende l’idea. C’è il presente, un torneo secondario che serve a conquistare punti per rientrare tra i primi 200 della classifica ATP, in cui i due amici/nemici si ritrovano dopo anni. Ma dal presente si schizza, senza un filo logico, a dieci anni prima, sei mesi prima, di nuovo il presente, due anni prima, mezzanotte ecc. Lo spettatore si perde. Io mi sono orientata osservando la lunghezza dei capelli dei tre protagonisti e il trucco e parrucco di Zendaya.
3- regia: inutilmente enfatica, ogni gesto diventa epocale con primi piani strettissimi, ogni rumore esplode nei timpani, le palle colpiscono le racchette che sembrano spari, i giocatori in campo urlano come venissero scannati e quando sudano non sono gocce, fanno la doccia nel loro sudore, un tizio vuota i vetri nel cassonetto e pare un bombardamento. Ma perché? Guadagnino non conosce più i sussurri e i silenzi che mi avevano fatto amare Chiamami col tuo nome e Io sono l’amore?

Dulcis in fundo: l’unica cosa che ho apprezzato sono i muscoli di Josh ‘O Connor, mica avevo capito che ci stava un tale fisicaccio sotto le marinière di Larry Durrell, le grisaglie del giovane Charles Windsor e i panni stazzonati dell’archeologo-tombarolo di Alice Rohrwacher. Forse anche per questo non porterò mio marito a vedere Challengers.

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