Fabio Ciriachi
A proposito di "Vivi al mondo"

Il coraggio della poesia

La nuova raccolta poetica di Daniela Attanasio dà senso all'atto stesso di scrivere versi: un articolato alternarsi di parole necessarie che tracciano con esattezza l’itinerario di un rivelarsi

Non sarà un caso se, dopo secoli di volenterosi tentativi, nessuno abbia ancora trovato una risposta alla domanda “che cos’è la poesia?”. Tanti gradi di vicinanza, un autorevole bagaglio di adiacenze a qualcosa di simile a una risposta, ma la riottosità della poesia a farsi definire ha sempre avuto la meglio su generazioni di prometeici domatori dell’invisibile.

Quanto a noi, più interessati a una prospettiva diversa dalla inquisitoria, riteniamo che la risposta, un po’ come il nome di Dio, non possa abitare in una formula ma vada rinvenuta nell’opera in atto, in quel fare sapiente e sensibile che invera, verso dopo verso, i requisiti del suo sussistere. Perciò, anziché cercare di definirla, la indichiamo quando appare, proteiforme, sempre nuova di stupori, generatrice di riconoscenze. Ed è per una tale ragione che dopo aver attraversato la nuova raccolta di Daniela Attanasio, Vivi al mondo (Vallecchi editore, 126 pagine, 16 Euro), la indichiamo con entusiasmo e diciamo, convinti, “Ecco cos’è la poesia, guardate bene, è questo articolato alternarsi di parole necessarie che tracciano con esattezza l’itinerario di un rivelarsi”.

Entriamo allora nella raccolta attraverso due dettagli minori la cui inattesa rilevanza si manifesterà solo più avanti: la riproduzione, sulla prima di copertina, di una stampa dal titolo “Cenere viva” che, oltre a evocare “Vivi al mondo, introduce, senza quasi darlo a vedere, l’immagine della cenere che è, sì, segno di consunzione, di fine, ma al tempo stesso può nascondere al suo interno braci ancora vive. Sulla quarta di copertina, invece, sono riportati alcuni versi manoscritti, tra cui quello dove è contenuto il titolo della raccolta il cui interesse è duplice, sia perché la grafia mostra sempre lati nascosti dello scrivente (di cui può diventare una sorta di radiografia), sia perché l’ultimo dei quattro versi, lo scopriremo in seguito, nasconde una piccola ma significativa variazione tra prima stesura e versione definitiva, in quanto “il modo di essere vivi al mondo”, manoscritto, diventa, a pagina 31 “un modo di essere vivi al mondo”, e il passaggio dall’unico al molteplice cambia non poco il senso dell’insieme.

La prima sezione, “L’acqua della terra”, si apre con una poesia che, a considerare l’andatura da poema della raccolta, potrebbe fungere da proemio, racchiusa com’è tra l’immagine platonica dell’incipit “siamo nascosti nelle cavità del pensiero” e la chiara progettualità dell’explicit “ecco da queste orme vorrei ricominciare”, dove è proprio quel “ricominciare” che dà ulteriore peso specifico all’inizio perché non solo racconta di una mancanza, ma offre anche la possibilità di conoscere per quali motivi, o attraverso quali errori, il precedente cominciare non ha potuto trovare continuazione.

Neanche il tempo di dirsi quanto importante sia tenere a mente “ricominciare” che l’incipit del secondo testo trasforma la memoria quasi in un obbligo (almeno per quanto può il desiderio) giacché suona: “vorrei tornare indietro”. E qui il montaggio è perfetto, come perfetta è la saldatura tra intenzione implicita e forma esplicita. Sia chiaro, è il monito che si leva da tanta asciuttezza, c’è un prima non indifferente con cui misurarsi e non è scontato che si riesca, e già per questo nella filigrana elegiaca del tessuto testuale si manifestano decisi tratti epici.

Al “vorrei tornare indietro” segue “trovarmi ancora di fronte a te come allora” un verso che, nel proporre la figura dell’altro, apre la domanda, anche retorica, su chi sia il tu evocato da “di fronte a te” e invocato nel decimo verso “ma tu chiamami forte”, e se la domanda è anche retorica dipende solo dall’evidenza che, sovrapposte alla possibile figura astratta di quel tu (che potrebbe essere proprio la poesia), esistono senza dubbio figure concrete, persone, con la loro identità e storia, adatte a prestare il volto e il pathos a un confronto che si annuncia inesausto.

Nella terza poesia, dopo l’incipit chiarificatore “ha una sua solitudine lo spazio una solitudine il tempo –” (l’alternarsi corsivo/grassetto è voluto) sembra quasi che si definisca la scena: “come le tende che scendono sui vetri della finestra / i libri schierati nelle loro rastrelliere” (e già “schierati” aggiunge qualcosa alle venature epiche dell’elegiaco); si nomina inoltre, compito non facile, quel nemico invisibile che è la paura, infatti “non è la solitudine dell’aquila in montagna / né la solitudine di chi entra in clausura a spaventarmi / ma quella dell’acqua che nella cella del freezer / si cristallizza in un cubetto di ghiaccio”, e se l’aquila apre, con le cornacchie, il ruolo svolto dagli alati in alcuni testi successivi (seguiranno gazze, allodole, piccioni, falchi), “cristallizza” suggerisce la biblica statua di sale in cui si trasforma la moglie di Lot fuggendo da Sodoma e Gomorra; suggerimento che prelude a successivi incontri con l’immagine dello sciogliersi in acqua.

Affinché il concetto del ricominciare sia chiaro, l’incipit del quarto testo dice: “all’alba di un giorno qualsiasi il tempo si è aggrappato alla mia giacca / costringendomi a tornare su quello che è già stato”, e qui fa comodo l’ambiguità della parola tempo che, in primis, è senz’altro da intendersi in senso cronologico ma che ambisce anche al senso atmosferico, e vedremo come soddisferà l’ambizione con frequenti accenni a climi e cieli, a piogge e sole che ricorrono quali veri e propri deuteragonisti nell’intera raccolta, e ne è palmare esempio l’erotismo annunciato dall’explicit del quinto testo “-è solo un ricordo di pioggia / quando le lingue d’acqua / scendendo dall’alto di una nuvola nera / ti leccavano la faccia-”. Ma è sull’ottava poesia di questa prima sezione che si registra il salto più notevole nella strategia di legare l’uno all’altro testi lontani come se, distanziandoli nel tempo e nelle opere, potessero continuare meglio un loro ulteriore discorso. L’ottava poesia, infatti, che inizia con “una mattina nuvolosa fredda / camminavo lungo i sentieri di Villa Ada / seguendo il cane che mi precedeva -/ mentre i piedi affondavano nell’acqua della terra” (nasce qui il titolo della sezione) si porta dietro, prezioso bagaglio, l’incipit quasi gemello della poesia “Il tuo profilo semita” che sta nella raccolta precedente, Vicino e visibile, uscita presso Nino Aragno Editore nel 2017: “Camminavo per i sentieri di Villa Ada / i piedi affondavano nell’acqua della terra / simili a foglie larghe e scure -/ con il cane che mi precedeva sul sentiero della villa”, a riprova che la materia testuale, lì dove nasce l’urgenza della scrittura, è più della somma delle sue parti, e un diverso disporre gli stessi elementi crea quella variazione sul tema che permette di guardare lo stesso dettaglio da prospettive diverse, soddisfacendo così il bisogno di approfondire attraverso una sua reiterata visione.

Qualcosa di analogo al cristallizzarsi che fa paura è rinvenibile nell’explicit della seconda poesia della seconda sezione, “Dopo di te”: “una volta almeno dovremmo girarci per guardare indietro” dichiarazione quanto mai temeraria, non fosse protetta dal condizionale, perché il concetto stesso di destino, nel suo lato tragico, poggia proprio sul quell’una volta almeno del guardarsi indietro che condanna Euridice a risprofondare nell’Ade.

E a proposito del montaggio perfetto tra un testo e l’altro, nella seconda sezione un nuovo esempio di questa attitudine alla forma poema è dato dal modo in cui l’explicit del quarto testo “quando la notte abbracciavamo il sonno” si lega all’incipit del testo successivo “di notte ci abbracciavamo nel sonno come fosse una promessa”, quasi a ricordare che il filo unico esiste anche quando sembra invisibile. E ancora, notevole, il cerchio completo della settima poesia che si apre con un’irruzione climatica “era primavera nella casa entrò il sole” e si chiude con un verso capace di incastonare il potente titolo della raccolta in una costruzione dubitativa dal tono quasi minimale, “o forse soltanto un modo di essere vivi al mondo”.

Dicevamo, pocanzi, come il titolo della grafica sulla prima di copertina, “Cenere viva” oltre a consonare col “Vivi” del titolo della raccolta, alluda alla cenere che nasconde il fuoco; ebbene, sul finire del penultimo testo della seconda sezione, questa segreta architettura, costruita su rimandi e allusioni, viene così resa esplicita in forma quasi divinatoria: “tutto questo si è spento ma già allora sapevi che l’avresti riacceso”, e qui è d’obbligo riflettere sull’evidenza che, quando a una tessitura così abilmente ordita su percezioni subliminali, si aggiunge poi la forza del dettato esplicito a confermarne la sostanza, è come se si passasse di colpo dalla geometria a due dimensioni al volume, e si ascoltasse con gli occhi, in un modo quasi tangibile, la piena risposta fattuale a quella secolare domanda alla quale non si sa rispondere. Infatti, cosa può esserci di più agente, nel suggerire il senso profondo e rivelatore della poesia, di una risposta che, complessa e ctonia con i suoi segreti strumenti, ogni tanto, facendo emergere il dono di una dizione esplicita, dà l’accesso a una forma profonda di sentire/sapere impossibile da cogliere se non la si osservasse contemporaneamente da due prospettive diverse.

La terza sezione, “Loro, i poeti” è il primo passo indietro dopo il profondo “esserci” in totale e partecipe vicinanza che caratterizza le sezioni precedenti, e grazie all’incipit della poesia d’apertura “alla domanda ‘chi sono i poeti’ ho risposto” apre, al contempo, quello scarto non da poco capace di trasferire proprio dalla poesia ai poeti l’oggetto del secolare interrogarsi, come se la riflessione sui protagonisti potesse favorire il riflettere sulla sostanza del tema. E sempre a proposito di risposte, ecco cosa suggerisce l’incipit del secondo testo: ““le poesie sono doni per chi sta all’erta””, racchiuso in doppie virgolette giacché corrisponde a ciò che “ha detto un poeta dell’essenziale”. I versi di questa sezione, fatta di un solo lungo testo suddiviso in quattro mo(vi)menti, si alternano su considerazioni che richiamano la sezione conclusiva, “Di volta in volta (1997)”, situata in “In appendice” e composta da numerosi aforismi sulla poesia estratti da un quaderno ritrovato quando già la raccolta era montata per la stampa (il che spiega la collocazione alla fine).

Martellanti e ironiche, le domande sulla poesia, sullo scrivere e sui poeti, disseminate in questi aforismi, si alternano l’un l’altra nel tentativo reiterato di verificare cosa accade se si azzardano risposte; le quali, va detto, in sé non sono mai sbagliate, e non perché centrino sempre qualche verità, ma perché mostrano, e a questo proprio devono servire, quanto fertile possa risultare un assedio di tal genere se portato con lo spirito giusto che è sempre rituale e non inquisitorio.

E qui ci piacerebbe avere più notizie sulle poete e sui poeti che Attanasio ha via via assunto in sé per tracciare, seguendo le loro orme, il proprio avvento alla poesia. La memoria suggerisce l’amore per Anne Sexton, mentre la traduceva, e per Amelia Rosselli, che ha frequentato spesso nel corso dei suoi ultimi anni di vita e della quale ci dà una precisa testimonianza nella penultima sezione, “Via del Corallo”, che è appunto il nome della strada dove la Rosselli è vissuta e morta. Affiorano ancora alla memoria i nomi di Robert Lowell e Josif Brodskij, forse anche di Marianne Moore, ma possiamo sbagliarci, e senz’altro le omissioni superano le ammissioni, e comunque evitiamo di cercarne tracce tra i versi perché Vivi al mondo, in quanto espressione di una poesia che va oltre la pienezza della maturità, possiede la caratura del dono, e ora che le tracce dei maestri, elaborate, si sono rese irriconoscibili, grazie al suo essere interamente originale si fa maestra a sua volta.

Un ritorno, uno zaino e una “lei” aprono la quarta sezione “Falsi sonetti”. Se il titolo sembra collocarla in una sorta di continuità tematica con la presa di distanza della terza, “Loro, i poeti”, basta cominciare a leggere le prime due poesie per accorgersi che di nuovo il soggetto del dettato si è immerso nel magma dell’eruzione in corso. Il ritorno di una lei occupa il primo verso: “è tornata da una lunga vacanza si fermerà per poco”, e al quinto verso leggiamo: “le mani sono entrate nella lampo dello zaino forse in cerca delle sigarette” e da qui i successivi tre versi vestono il corsivo rendendo quello che dicono come se fosse diventato scrittura, e non a caso il sesto verso accenna a questa possibilità: “o del suo taccuino pieno di versi e graffi di matita”. Ulteriore esempio di continuum tra una poesia e l’altra – che accredita sempre più l’ipotesi del “poema” con tanto di “proemio” in apertura – è dato dall’incipit della seconda poesia che smentisce le precedenti ipotesi circa le mani entrate nella lampo dello zaino perché, invece di sigarette e taccuino “ha preso dallo zaino la foto di una barca” e a distogliere dalle domande su chi possa prestare sembianze a quella lei, il quintultimo e quartultimo verso rivelano “… ora posso dirlo con certezza / ero io nell’altra …” e a conferma dello svelamento, nelle poesie successive, questo io ritrovato chiude la sezione parlando a un “tu” e riferendosi a un “noi”, sempre con l’idea che l’altro del noi possa ancora coincidere con la lei iniziale.

Ma è nella quinta sezione, “Un miracolo terrestre”, che il dolore per una perdita irrimediabile (si tratti di una persona o del tempo della vita o della poesia stessa) diventa nodo centrale del poema/peana che sempre più canta i vivi al mondo che hanno casa nella sofferenza. Serve un’evocazione minuziosa di ciò che nella prima poesia sostanzia l’assenza: “la piega del collo l’incavo delle braccia / la linea arcuata delle sopracciglia / la fascia larga al fondo della schiena / la goccia dell’orecchio” per introdurre ai luoghi della seconda “la stanza dormiva dentro l’ombra del castello” la cui importanza è fondamentale perché un verso successivo dice: “lì ho sfiorato la possibilità”, e infine ai luoghi della terza poesia: “quella volta a Parigi non ho scattato foto” i cui versi conclusivi esigono il silenzio per quanto riescono a mostrare in modo nitido lo stato del dolore: “ho la testa piena di versi ma non scrivo – / senza di te lo ammetto non accade nulla”. E, fedele al senso di continuità del poema in atto, l’incipit della quarta poesia subito si lega all’explicit della terza “per mesi non ho più scritto”, e nella quinta poesia, perfettamente centrale rispetto alle quattro che la precedono e che la seguono, si svela il meccanismo, titolo incluso, della sezione, e perciò va citata per intero: “in cielo una striscia amaranto cade dietro il palazzo umbertino / è un’immagine triste come le lenzuola singole del senza amore // tornare a vivere alla luce dell’alba sarebbe un salto all’indietro / sarebbe tornare ai giorni dei nostri anni / un miracolo terrestre tra chi è ancora qui e chi è andato via / un modo di pensare la vita come una stagione mancata”. La sesta poesia inaugura un’accensione “mi manchi la mattina quando apro gli occhi e non ho più sonno” il cui apice si sostanzia nel cuore della settima “ho letto che la caduta di un corpo / accelera di nove metri e cinquanta al secondo per secondo / la stessa accelerazione di due corpi che si attraggono” dove assimilare il dettaglio scientifico del corpo che cade nel vuoto alla velocità dei corpi che si attraggono, che lo voglia o meno, equivale a dire che l’attrazione rischia di essere un’esperienza mortale. Quasi quiete dopo la tempesta, l’ottava poesia risolve la tensione con sapiente narratività: “seduta sulle ginocchia di una madre giovane di un padre bello”, per chiudere di nuovo in levare con amara filosofia: “noi non sappiamo niente della morte / sappiamo solo qualcosa della vita / e di vita si muore”.

La sesta sezione, “Lunga lista”, in realtà è la più breve e eterogenea, mette titoli a tutte e cinque le poesie, tranne la prima che si apre così: “ho una lunga lista di cose da fare oltre il mangiare e bere –” e si chiude con la licenza di una rima “darti l’amore che ti manca / ammaestrarti // sono molto stanca” (altra rima, a pagina 41, “orme”, “dorme”) scelta eccezionale per chi, nella raccolta precedente Vicino e visibile, scrive questo verso: “Le rime sono fastidiose anche quando sono sberleffi.”. La seconda poesia, “Consigli a un cattivo lettore”, serve a citare “una sonata a Kreutzer tutta mentale”, così da rendere palese il tema della gelosia omicida, e a proporre il Leopardi della vastità come soluzione: “apri il libro dei Canti alla pagina dell’Infinito / torna a immaginare”. La terza ha per titolo due iniziali “A.A.” e si riferisce a riflessioni con una poeta amica per meglio comprendere il mistero della morte, e grazie a questi versi: “ fino a vedere il sangue che nell’acqua / schiarisce e si fa sale” si lega con la quarta poesia, “A un’amica siciliana morta”, attraverso l’incipit: “non penso alla tua morte / penso al mare sbiancato in riquadri di sale”. Nell’ultima, “Cantilena”, con versi brevissimi di una o due parole – per l’umano bisogno, in stato di mancanza, di veder continuare anche altrove ciò a cui più si tiene – si incitano due giovani appena intravisti a trattare l’amore nel segno del rispetto e della durata.

L’ultima sezione in versi, “Lei, la poesia” (precede le prose de “La casa di via del Corallo” e gli aforismi sulla poesia di “Di volta in volta) sembra sciogliere, rendendolo al contempo più complesso, il dubbio sull’entità presente dietro molti “tu” incontrati all’inizio. Ebbene, questa sezione, oltre a interloquire, per amore di equilibrio, col titolo della terza, “Loro, i poeti”, gioca sulla continua possibilità di uno scambio di ruoli tra astrazione e concretezza, per cui dietro il racconto della persona può intravedersi la poesia, e dietro il ragionare sulla poesia può manifestarsi la persona, senza escludere l’ipotesi che i due soggetti siano ogni volta presenti entrambi dando luogo a una contemporaneità dell’esserci dove a cambiare  è solo il portavoce che li rappresenta, ogni volta con la forma debita. Le dieci poesie del congedo costruiscono, così, un finale tumultuoso e ricco di tutte le preziosità attraversate fino allora, giacché incontriamo, nella vertigine del precipitarsi alla conclusione l’explicit “bello risorgere”, l’acqua come terzo elemento e trait d’union fra i due soggetti in scena: “si può dire che la poesia scorra ripida come l’acqua / quando scende a pioggia o si chiude a getto in una pozza –”, un’ultima rima “stupore”, “cuore”, la morte degli dèi annunciata da tristi messaggeri alati: “ma non si scorgono dèi impietosi solo cornacchie schierate”, il sole “lettore sapiente correttore di bozze”, ciò che manca e ciò che è immancabile: “manca una mappa di Corfù mancano i nomi dei luoghi […] sull’immancabile canto dell’acqua”, la necessità, riguardo al lei poesia/persona, di “chiamarla con un filo di voce” oltre a considerare che, se sbanda, è perché “catturata da un artificio resa umana dall’amore”, il poter dichiarare, con candida amoralità, “solo quel vezzo di andare a capo ci fa capire che si tratta di lei –”, apparecchiando un explicit/rivelazione che dà l’affanno per quanto implica tutte le declinazioni del percepire “ fino a trovare / il verso indolore per scomparire”, il dubbio: “in realtà non vedo bene / forse la vista è accecata dall’insonnia”, e dopo aver dichiarato “le mie ombre amiche”, la sezione e il poema si chiudono nella pace del distico finale (con rima interna) “lei c’è sempre stata / acciambellata in un angolo buio della casa”.

L’impressione, a questo punto, è che, pur sembrandoci di aver colto diverse architetture di questa sapiente poesia, e magari fiduciosi di essere riusciti a sistemarle come meritano nell’ordine del dicibile, in realtà abbiamo solo sfiorato una minima parte dell’intero. È una questione di misura che non riguarda il computo dei versi o delle pagine ma il bisogno di sapere ancora altro delle molte cose solo intuite nel primo passaggio, benché eseguito con la matita in mano e abbondando con gli appunti. E lo scorrerli velocemente appaga e frustra insieme per non aver potuto dire altro di “siamo i nostri simili / abbiamo la stessa libertà di morire”, o di “e l’ultimo gradino che in silenzio qualcuno sale / prima di spingere la porta e accendere la luce”, e nemmeno di: “il lutto è durato quanti anni?” dove l’insolita forma del chiedere, che inizia con “il lutto è durato” e mette la domanda dopo, fa sembrare il lutto interminabile, e tanto altro ancora. Inutile dolersi. Ci vogliono le riletture, i tempi giusti tra una scoperta e l’altra, la lenta maturazione degli effetti e l’intenzione di assolvere le cause, la coscienza del tempo che il sentire impiega per mutarsi in pensiero/visione e anche il rispetto del trauma benefico quando un tale processo si consuma nell’immediato.

Insomma, è la poesia, e se possiamo tentare una risposta a quale senso attribuire al rivelatore “vezzo di andare a capo”, e quindi al grande bianco che circonda i versi tanto che la voce del leggere deve imparare a sospendersi brevemente per far sentire gli a capo che li separano, ecco, ora ci sembra chiaro che quelle parole, distese magre sul bianco della pagina, servono proprio a offrire spazio al loro espandersi. Perché, se la poesia è sintesi di un ordine che cambia di volta in volta a seconda di quanto incisivamente agisce sulla sua compressione lo sguardo liberatore di chi indaga, è certo che il libro ci sfuggirebbe di mano qualora non ci fosse lo spazio sufficiente ad accogliere la moltiplicazione di discorsi che consegue alla lettura.

Mettendo in gioco i portati di più vite, in Vivi al mondo si fa notevole il rapporto tra sincerità e pudore, due forze apparentemente opposte il cui confrontarsi, però, se affidato alle intenzioni del bisogno, genera poesia, tale e tanto è l’impulso a inventare le forme e i ritmi più inediti per far esistere entrambe allo stesso tempo. Questa assenza di compromessi, per non rinunciare né alla sincerità né al pudore, mette al mondo versi coraggiosi, adatti a istruire chi li scrive e chi li legge: “… e il ricordo scioglie il sangue / alla contemplazione di quei giorni bianchi di federe e stupore -/ oggi manca l’allegra aritmia del suo cuore / quella tachicardia fatta di bassi e acuti che mi faceva scrivere”. O anche: “quante volte ho cercato di ricreare il tuo viso / senza trovare un nesso tra l’arco sopraccigliare / e il naso tra il disegno degli occhi e quello della bocca” dove in una sorta di evocativa anti-fotografia, a perdersi non sono i dettagli del sé/altro, tutti presenti e nominabili, ma il nesso che potrebbe unirli, il che sposta il campo del fallire dalla memoria, che pure trattiene elementi utili al ricordo, alla irreversibilità del tempo che impedisce di rimetterli insieme come stavano una volta.

La sfida, in ultima analisi, non è alla morte, che pure incombe nelle sue molteplici fisionomie e mete, e appena può si metamorfizza non tanto per non essere ignorata, essendo l’attenzione un privilegio che le spetta a prescindere, quanto perché si dia senso e ascolto alle molte allegorie con le quali entra in scena con smania quasi attoriale. La sfida, dunque, è alle proprie capacità di tenere fermo il timone verso l’arte estrema del morire a qualcosa di amato, del prepararsi al distacco che premia con solitudini di cui s’ignorava il bisogno. E il verso libero impiegato da Daniela Attanasio, forte di una misura che non abusa mai della propria libertà, scorre lungo un filo del rasoio in cui le ragioni del dire e le esigenze dell’alludere si tengono l’un l’altra dando luogo a un dettato dove non c’è traccia degli elementi che lo costituiscono, una sorta di voce senza nomi che si conserva nitida anche nella sua vocazione a non rinunciare, quando serve, ai toni rochi.

Ora sappiamo che Vivi al mondo c’è, col poco che abbiamo raccolto a un primo passaggio, ma con la confortante certezza di quanto ancora sarà in grado di darci. La precedono sei altre raccolte pubblicate in un trentennio di lavoro sulla poesia (l’esordio presso Empiria, con La cura delle cose, è del 1994), ma soprattutto riceve sostegno e autorevolezza dalla capacità di Daniela Attanasio di stare nel posto giusto perché dialoghino tra loro le ragioni del vivi e quelle dello scrivi, il che, com’è immaginabile, potrebbe causare frequenti esondazioni di un ambito nell’altro e viceversa, data la vocazione di entrambe le ragioni di prendersi tutto lo spazio, e senza polso fermo, diremmo quasi senza adeguata moralità nell’iscriversi quotidianamente agli spazi della vita possibile e a quelli della vita impossibile, difficilmente si mantiene la posizione, tanto è forte il rischio di venire sopraffatti da una parte o dell’altra. Della fatica di stare, ma anche del saper mantenere un fecondo equilibrio, rimangono tracce evidenti in tutte le opere di Daniela Attanasio, con questa ultima a segnare un apice, a sfidare il dopo.


Il disegno accanto al titolo è di Giulia Cavallini.

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