Emilia Santoro
In margine a "La zona d'interesse"

La favola degli orrori

Il film di Jonathan Glazer, ci obbliga a pensare al modo terribile in cui conviviamo con l'orrore. Da Auschwitz al Mediterraneo. Come in una fiaba dalla quale è impossibile uscire

Quando ti trovi di fronte a un’enormità, mancano le parole. E l’enormità sta nel fatto che il regista Jonathan Glazer capovolge il punto di vista sullo sterminio degli Ebrei. E accade di sentirsi sotto i riflettori, nel mezzo di una villa con un giardino paradisiaco, cinta dalle mura del campo di sterminio di Auschwitz, a valutare la quantità di rimozioni che abbiamo attuato, il livello di adattamento alle mostruosità e lo stato di narcosi raggiunti. Giriamo per casa con la bella e soddisfatta famiglia nazista, osserviamo i fiori del loro giardino, cercando di non sentirci simili a loro in niente. E veniamo scossi di tanto in tanto dalle parole essenziali del figlio, mentre scosta la tenda per vedere cosa accade dall’altra parte del muro di cinta, che si rimprovera ripetendo a se stesso: non farlo mai più.

Rudolf Hӧss, comandante del campo di Auschwitz, e sua moglie Hedwig crescono da quattro anni i loro figli in quel piccolo paradiso, realizzando un sogno, ma badando di rimuovere il più possibile i fumi dei forni crematori, il rumore mostruoso del risucchio dei camini che di notte proiettano una luce rossastra, le urla disumane, le montagne di ceneri sparse ovunque anche nel fiume Sola.

Hӧss fa funzionare i forni in modo perfetto, pianifica anche il rafforzamento dell’azione con il progetto agghiacciante di un forno ad anello, per creare un perfetto e disciplinato circuito di morte, avendo cura di proteggere i lillà lungo le mura per mantenere piacevole la convivenza col campo. Ma accade qualcosa che sconvolge la famiglia: Hӧss deve lasciare il posto a qualcun altro e assumere il ruolo di ispettore dei campi. Hedwig, soprannominata la regina di Auschwitz, si dispera, vuole crescere i figli nel paradiso che ha costruito negli anni per loro.

Intanto i riflettori si allargano come lenti di ingrandimento su di noi seduti in sala e mi sento nel libro “La mostra delle atrocità” di James Graham Ballard. Inevitabilmente scattano nella mente immagini attuali di morti che galleggiano nel Mediterraneo, di bambini che muoiono di fame o per malattie normalmente curabili, a causa di conflitti armati o per gravi violazioni dei diritti umani: sofferenze per milioni di persone in tutto il mondo che determinano flussi di rifugiati e di sfollati interni (62milioni in 65 paesi).

Intanto ci facciamo i bagni di mare nelle stesse acque in cui si mietono migranti morti; viaggiamo come allegri turisti in rotte che evitano i cieli armati; violiamo i diritti umani e cancelliamo, rimuoviamo le mostruosità solo per proteggere il nostro stato di benessere.

E siamo sempre più mentalmente disturbati da ansia, depressione, crisi di panico… Infatti, a tre quarti del film comincio a sentire nel naso la puzza delle cremazioni, una puzza cimiteriale che ti si attacca addosso. Come Hӧss, ti lavi, ti strofini, ti strigli ma i pori l’hanno assorbita, tanto da sentirti morto, almeno fino a quando non farai la tua brava rimozione.

Ma Hӧss ha respirato troppa cenere, troppi fetori, ha torturato troppi corpi, derubandoli di tutto. Fatto sta che, mentre scende le scale di un gran palazzo di potere, si ferma un paio di volte, colto da conati di vomito…Forse gli è venuto in mente il figlio maggiore che colleziona denti di Ebrei, o la fuga della suocera che proprio non ce l’ha fatta a rimanere neppure una notte in quell’inferno d’oro, o perché ha saputo che potrà rimanere ad Auschwitz.

Alla fine del film, ho ripensato all’incipit, alla prima scena che riassume l’intero sentimento: durante qualche minuto di schermo nero, una melodia compone il preludio e si mescola al respiro dei forni crematori, mentre si aggiungono gradualmente, a questo respiro cullato, i cinguettii degli uccelli, fino al palesarsi dell’immagine bucolica, in cui tutta la famiglia sta prendendo il sole sulla riva del fiume: sono in costume da bagno e il biancore della loro pelle è accecante, un biancore “ariano”, puro, che il corpo di Hӧss ostenta come tesoro.

La musica continua a dirti: vieni, ché ti porto in una bella fiaba, nella tua fiaba.

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