Teresa Maresca
“Wit” al Teatro Due di Parma

Allegoria dell’anima

In scena fino al 30 aprile, la pièce di Margaret Edson ispirata a John Donne e alla idea barocca di morte. È incentrata su una donna malata terminale ma lo spettacolo (regia di Paola Donati), nonostante il tema, scorre con levità

Wit, in inglese semplicemente “ingegno”, è un termine che designa quella caratteristica della poesia barocca che mette in versi il pensiero filosofico e teologico sui principali temi di amore, vita e morte, vita eterna. Nella pittura barocca ci sono alcuni elementi caratteristici che sviluppano questi stessi temi in maniera figurale, un esempio fra tutti il teschio, che definisce la “Vanitas”, il Memento Mori di tante nature morte dell’epoca, e che compare anche sul tavolo dello studioso o del santo, come nel San Girolamo di Caravaggio, o la Vanitas del Guercino, dove il teschio è appoggiato sopra un libro chiuso. Il libro, appunto, costituisce, nell’idea del dopo morte, un elemento del tutto inutile, vano, e gli studi risultano inefficaci a lenire il cruciale momento del passaggio finale.

Tra tutti i poeti barocchi, John Donne è il più famoso e forse il più grande. Autore di sonetti d’amore e teologici, oltre che di sermoni, è considerato il massimo esponente della poesia metafisica inglese. La sua influenza arriva fino a Ernest Hemingway, che cita No man is an Island, “nessun uomo è un’isola”, primo verso di un sonetto di John Donne, in epigrafe al romanzo Per chi suona la campana, che è anche il penultimo verso dello stesso sonetto.

Nella pièce Wit di Margaret Edson (nella foto), messo in scena al Teatro Due di Parma (fino al 30 aprile), con la regia di Paola Donati, il riferimento è a uno dei sonetti sacri, o teologici, in cui John Donne affronta il tema della morte che è resa vana dalla vita eterna: «e Morte non sarà, Morte tu morrai», concetto che troviamo in alcuni sonetti di Shakespeare, dove però è l’amore del poeta per l’amata a renderla eterna, e ritroviamo ancora in And death shall have no dominion, “E la morte non avrà più dominio” di Dylan Thomas. La pièce si sviluppa per intero all’interno di un ospedale newyorkese dove è ricoverata Vivian Bearing, malata terminale di cancro alle ovaie. Vivien è una studiosa e insegnante di letteratura inglese, specializzata nella poesia di John Donne. Da un breve testo di scena di Margaret Edson: «Wit è ambientato in un ospedale perché una volta ci lavoravo. I piccoli dettagli della vita di corsia sono tratti da quell’esperienza. Wit riguarda le abitudini e le strategie di una studiosa perché io sono stata formata per esserlo. I piccoli dettagli della vita accademica, come l’ossessione per la punteggiatura, derivano da quell’esperienza. Ma il testo parla della grazia. Da dove viene? Come diventiamo noi stessi? Le vecchie facili verità non servono più; quelle nuove, destabilizzanti, cosa creeranno in noi?»

L’adattamento del testo nello spettacolo in scena a Parma non prevede un allargamento “teologico” verso la grazia; la regìa di Paola Donati è molto lucida e tagliente, e lo spettacolo scorre, pur nella gravità del tema, grazie a un incastrarsi perfetto delle “due” Vivian (l’attrice Valentina Banci), quella che ricorda quando era una studiosa, e quella che si trova ad affrontare la prova più grande. Vivian è preparata ad affrontare il tema filosofico, il wit che risolve poeticamente il baratro tra vita e morte, secondo le direttive di John Donne, ma non è pronta per quest’ultima sfida dove a niente le serviranno arguzia e ingegno perché, dice, qui si tratta della mia vita e della mia morte. Tutti gli attori si alternano attorno alla protagonista senza mai indulgere nel drammatico, semmai a tratti regalando qualche sprazzo di levità, un gioco sorridente sulla parola, proprio del modo barocco.

Oltre al primario oncologo, Massimiliano Sbarsi, e al giovane medico ricercatore, Dario Aita, ci sono due figure pietose e angeliche, la capo infermiera, Laura Cleri, e la filologa professoressa di Vivian, Cristina Cattellani. Le due donne fanno gravitare la parte finale della pièce intorno al tema barocco dell’Anima, che nella poesia di John Donne è essenziale. La vecchia professoressa, al capezzale di Vivian morente legge una fiaba infantile e conclude: «Guarda un po’. Una piccola allegoria dell’anima. Non importa dove si nasconde. Dio la trova. Vedi, Vivian?». E l’infermiera, che secondo le ultime volontà dell’ammalata, impedisce all’équipe medica di praticare la rianimazione dopo l’arresto cardiaco, ripete che si tratta di una «paziente da non rianimare». Non rianimare, cioè non riportare indietro l’anima; nei sermoni teologici di John Donne l’anima dopo la morte si libera dal corpo e continua a esistere. Dunque non si può “rianimare” un corpo, l’anima è sempre esistita e continuerà a esistere. Wit, rimasto a lungo misconosciuto, viene messo in scena per la prima volta nel 1995, nel 1999 vince il premio Pulitzer per la drammaturgia, e nel 2001 Mike Nichols ne realizza un adattamento televisivo con Emma Thompson come protagonista. Finora è l’unico testo di Margaret Edson.

Nelle foto vicino al titolo e in basso Valentina Banci, Laura Cleri e Dario Aita (con sullo sfondo Valentina Banci), in due momenti di “Wit”. Al centro l’autrice, Margaret Edson.

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