Daniela Matronola
Su “L’ultima lettera di Einstein”

Il romanzo del tempo

Il nuovo romanzo di Daniela Cicchetta mescola scienza e sentimenti intrecciando il tempo passato, il presente e un futuro lontano

Ci sono dei libri che si infilano tra i tormenti del nostro quotidiano per aiutarci a mettere a fuoco una pista più chiara, una strada verso la chiarità – non quindi una via di fuga ma una luce che con nostra enorme sorpresa si accende là dove vedevamo solo buio. L’ultima lettera di Einstein di Daniela Cicchetta (Miraggi Edizioni 2023 – pagine 149, 15€) sembra essere proprio uno di quei libri.

Avevo già letto una precedente raccolta di racconti di questa autrice, Doppio legame, in cui approccio scientifico e umanesimo, teoremi e postulati da un lato e dall’altro nuclei narrativi focalizzati sull’eros e sull’esistenza, si davano la mano anzi si abbracciavano saldamente, fino a sembrare generarsi gli uni gli altri per mutua alimentazione. Ebbene in questo più recente romanzo di nuovo l’uomo scienziato deve arrendersi ai sensi e al sentimento, o meglio deve ammettere che l’intreccio tra vita e scienza (tema urgente, dopotutto) è un fondamento che corre trasversale lungo tutta la storia umana. Qui esso si concretizza nella comunicazione a distanza eppure costante fra tre donne, l’iniziale dei cui nomi è sempre la lettera D.

Dunia Dymphna e Deena vivono in geografie ed epoche diverse.

Dymfna vive nella Britannia (non ancora creata provincia) del primo secolo avanti Cristo – quando i legionari romani su incarico di Cesare, il generale conquistatore di tutte le Gallie, affrontarono in assetto di testuggine i Celti, guerrieri di campagna, cugini dei Galli bretoni, per mostrare loro la potenza di Roma e scoraggiarli dal continuare a fare commerci con essi distraendoli dall’esclusivo rapporto mercantile, in quanto provinciali sottomessi, coi Romani appunto. Marco Valerio l’emissario di Cesare è violento e sommario, Flavio invece incontra Dymfna e la ama ma sottostà come soldato alla legge della guerra, dell’aggressione di potere (chi volesse godersi la controprova in termini storici di questa pagina della storia inglese può consultare la Storia d’Inghilterra di George Trevelyan in due volumi, capace di animare la scena storica come nessuno mai, facendoci assaporare, per dire, la differenza in efficacia tra l’invasione anglosassone, poi insediativa, e i raids vichinghi a zona, costituita dal cavallo). Dymfna è una druida guerriera.

Dunia è una romana di oggi. È immersa nella confusione contemporanea, patisce ma non può allontanare da sé, come tutti noi, il calice, amaro per le nostre disgraziate esistenze, della netta separazione dell’umanità attuale da sé stessa: questo rende la vita difficile a Dunia che come pochi altri individui contemporanei riesce a non perdere il contatto col proprio sé profondo tanto che intercetta dei segnali che via via sveleranno il loro significato e la loro funzione in una sorta di concentrazione circolare – le fa da guida Stonehenge, il monumentale cerchio di monoliti, luogo suggestivo, sospensivo, silente e silenzioso, muto profondamente al punto che riesce a parlarle e non smette mai più. Cos’è Stonehenge, o meglio cos’era? Un tempio? Un osservatorio astronomico? Un mastodontico calendario in grado d’esser letto come prontuario lunare e solare dai campagnoli celti? O forse tutto questo nello stesso momento, e, per prodigio di somma, un libro antico da consultare?  Dunia è una donna del suo tempo che si emancipa restando fedele alla funzione per cui sta al mondo e che riesce a stanare dalle montagne di condizionamenti sociali seguendo con ostinazione la propria natura profonda.

Deena è in una Parigi futuribile del 2190 che è molto peggio di certe prospezioni del Michel Houellebecq degli ultimi romanzi. Deena è una scienziata e riprende un certo discorso con Marcel, suo capo in una ricerca, ma soprattutto, dalla sua abitazione frugale col marito, si sposta in una colonia scientifica dove sono ricreate le condizioni ambientali favorevoli alla vita umana mentre tutta intorno la Terra non è che una crosta glabra, invivibile, totalmente prosciugata.

I segni forti che il romanzo (molto suggestivo e costruito con andamento convergente finché tutte le tracce attivate si avvolgono l’una nell’altra e instaurano una specie di immanenza o eterno presente) distribuisce, creando una corrispondenza tra i tre focus narrativi, sono due: la quercia e la comunicazione.

La quercia è un albero possente, frondoso, con radici profondamente ficcate nella terra e ramificate – a suo modo un albero pauroso. Certamente legato anche a una ritualità magica che implica dei codici e una capacità di decodificazione. La sua simbologia rappresenta la Natura che dovrebbe educare alla sacralità, ma la separazione umana dal contatto con sé e con il sacro che è in tutte le cose ha portato al rinnegamento della Natura.

La struttura-madre del sistema di laboratori in cui nel futuro la Natura è ricreata a dispetto della rovina imperante, del suo irrimediabile declino, è il Dôme Chêne, cioè la Cupola Quercia, una capsula di vetro enorme con altre capsule satelliti ad uso di laboratori di ricerca. Ecco cioè cosa è diventata la quercia.

La comunicazione è trasmissione. Il linguaggio è corporale e sensoriale nel mondo antico; è affollato sonoro ambiguo oggi; è solo mentale, trasmissione appunto non verbale di pensiero con schermature selettive, nel futuro apocalittico. Parlare sonorizzando sarebbe increscioso, ed è proibito. Il nuovo Newspeak è un codice intenzionale solo intercettato, però Deena e Marcel rompono questa barriera e vocalizzano la loro comunicazione da un certo momento in poi. Un passaggio interessante che ha relazioni strettissime con la funzione profonda di questa storia triadica: la riattivazione del cerchio femminile.

E l’Einstein del titolo? La sua ultima lettera è indirizzata al figlio disturbato che lui non ha esitato a far rinchiudere e al quale ora desidera chiedere scusa. Tuttavia l’idea di fondo è integrare e comprendere quali concrete conseguenze (poetiche, a mio avviso) ha avuto sulla realtà la teoria di Einstein, con la sua curvatura identica di spazio e tempo, cioè sull’illusione e sull’inganno (forse) prodotti in noi dalla nostra percezione partitiva.

Buttiamola in letteratura. La lettura non è che l’intercettazione puntuale dei reticoli di connessioni esistenti lungo i quali chi ha scritto aspetta chi legge, dove quindi chi scrive e chi legge fatalmente finiranno per incontrarsi essendosi dati, ignari, appuntamento. La scrittura è l’invito, è la carta dei luoghi.

Consiglia bene Paolo Restuccia nella breve prefazione rivolgendosi al lettore e riprendendo una modalità (tra Virginia Woolf e Sally Potter) che l’autrice affida a Dunia, sua alter ego: guardare dritto negli occhi chi legge come interlocutore o interlocutrice prescelti: in questo “viaggio tra mondi lontanissimi e attualità contemporanea, lasciati trasportare”.


La fotografia accanto al titolo è di Deborah Raimo.

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