Giuliano Capecelatro
A Roma, a Palazzo Braschi

Ritorno a Matteotti

Si apre una mostra dedicata a Giacomo Matteotti nel centenario della sua uccisione da parte del fascismo. Un evento che oggi suona come un inciampo della Ragione storica

Sarà, ancora una volta, la leggendaria Astuzia della Ragione magnificata da Hegel, che orchestra gli eventi incurante delle nostre patetiche volontà? O non, piuttosto, un’alzata di ingegno della meno titolata e pubblicizzata Dabbenaggine della stessa? Colpisce, in effetti, che il centenario del truce omicidio di Giacomo Matteotti arrivi proprio in un’epoca di destre all’arrembaggio un po’ dovunque, di furenti nostalgie per fantomatici uomini della provvidenza.

In Italia è al governo una destra che, se ufficialmente non si azzarda a riconoscerlo, ha saldi e diffusi legami ideali, per non dire ideologici, con il disgraziato ventennio fascista. Ma campanelli d’allarme risuonano in tutto il pianeta, dall’Argentina di Milei passando per gli Stati Uniti trumpizzati fino all’ondivaga Europa made in Nato e oltre.

Eppure, nell’anno di grazia 2024, ci accingiamo a ricordare, com’è doveroso, un uomo che al fascismo tenacemente si oppose, e che il fascismo di prima generazione, secondo prassi consolidata e avallata dal suo caporione, non ebbe remore a uccidere.

Così, da oggi, primo marzo, al 16 giugno, nel centralissimo Palazzo Braschi-Museo di Roma, una mostra (Giacomo Matteotti. Vita e morte di un padre della democrazia) rievocherà vita, percorso politico e omicidio del parlamentare. L’ha curata Mauro Canali, già professore ordinario di Storia contemporanea, che su Benito Mussolini, le malversazioni del fascismo e l’uccisione di Matteotti ha scritto libri importanti.

Il prologo della tragedia si snoda il 30 maggio 1924. Alla Camera, il deputato Giacomo Matteotti, segretario del Partito socialista unificato – da lui fondato con Filippo Turati – con parole di fuoco bolla le violenze delle squadracce fasciste e gli imbrogli nelle elezioni politiche di aprile.

Benito Mussolini va su tutte le furie. Gira come un indemoniato per i corridoi di Montecitorio, strilla: «Dumini che fa, le seghe? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare». Amerigo Dumini è il braccio armato del nuovo presidente del Consiglio. Fiero di presentarsi col truculento titolo di Signor sette omicidi; numero che negli anni incrementerà. Un sodalizio di reciproco vantaggio.

Ma la scena madre è in programma per il successivo 10 giugno. Matteotti ha informazioni che scottano, un pasticciaccio internazionale di petrolio e tangenti in cui il governo, compreso il suo capo, è dentro fino al collo.  Ne parlerà alla Camera. Nel pomeriggio esce di casa, a due passi da piazzale Flaminio, per recarsi in Parlamento. Imbocca il lungotevere Arnaldo da Brescia. Non è l’arteria soffocata di traffico che è oggi, ma uno spazio con rade presenze.

Il Signor Sette omicidi è lì con i suoi squadristi e una macchina noleggiata per l’occasione. Lo aggrediscono. L’uomo è giovane, vigoroso, reagisce con foga, ma sono troppi. Viene caricato sulla macchina, che parte diretta verso la campagna. Solo alcuni pischelli e un netturbino hanno assistito alla scena.

Quando si fermano sulla Cassia, nel bosco della Quartarella, una ventina di chilometri da Roma, Matteotti è già stato ucciso da una coltellata al torace. Il corpo del deputato, smembrato, martoriato, viene nascosto in una piccola fossa. Lo ritroveranno nei distratti giorni dell’estate, il 16 agosto.

Il delitto rappresenta un punto di svolta. Il fascismo, in quei giorni, non era ancora del tutto padrone del campo. L’emozione e l’indignazione per la scomparsa e l’omicidio del deputato attraversano tutto il paese. Mussolini boccheggia. Ma l’opposizione imbraccia la protesta morale e inscena la sterile secessione dell’Aventino. Manna per Mussolini, Che può respirare e, il 3 gennaio 1925, maramaldeggiare con la tracotanza di chi si sente ormai al sicuro, magnanimo per non aver trasformato il Parlamento in un «bivacco di manipoli», tronfio ammazzasette nel rivendicare: «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io ne sono il capo!».

La dittatura, con l’avallo del re fellone, ora è solida. Per ripulirne l’immagine, si organizza un processo farsa che emette miti condanne per omicidio preterintenzionale, scontate con tutti gli agi, contro Dumini e altri due squadristi. In seguito Dumini, che avvierà imprese commerciali nelle colonie dell’impero, busserà più volte a quattrini e ne riceverà parecchi dal suo datore di lavoro, fino a diventare importuno ma senza mai essere scaricato. D’altronde, una lettera-testamento, depositata in uno studio notarile americano, avrebbe potuto creare grane molto serie al suo non spontaneo benefattore.

Ma torniamo ai disegni imperscrutabili della Ragione. Verso quale tornante della storia vuol condurci? La mostra è ospitata da palazzo Braschi. Un bell’edificio settecentesco tra le meraviglie architettoniche di piazza Navona e il silenzioso monito di Campo de’ Fiori, esalato dal rogo su cui arse Giordano Bruno, uomo di scomodo pensiero eretico. Nel secolo ventesimo, sotto la dittatura, il palazzo era sede della federazione fascista dell’Urbe.

Nel 1934 la composta facciata sparì sotto un gigantesco e pacchiano cartellone, al cui centro campeggiava l’effigie grifagna del duce, contornata da una miriade di sì. Si votava, e gli elettori erano caldamente invitati a scegliere la lista elaborata da Mussolini e presentata dal Gran Consiglio.

Il cartellone, con quel testone nudo da cui sprizzava una pioggia di sì, doveva avere grande capacità di persuasione perché la lista, bloccata su quattrocento nomi, ottenne il 99,84 per cento dei voti. Adesso, grazie alla mostra su Matteotti, uno strenuo paladino della democrazia prenderà alloggio, per più di tre mesi, in uno dei centri istituzionali del regime, fucina tra le altre in cui si forgiavano gli spregiudicati meccanismi della captazione del consenso.

L’ombra di una delle vittime illustri del fascismo dal secolo scorso si affaccia sull’oggi. Trova una stagione triste, confusa. Un clima rissoso, livoroso, isterico. Dove contumelie, ingiurie, dileggio sono assurti a usuali stilemi della comunicazione e del confronto politico. «Ché le città d’Italia tutte piene/son di tiranni, e un Marcel diventa/ogne villan che parteggiando viene». Dante (Purgatorio, VI) sembra scrivere la cronaca dell’Italia del ventunesimo secolo.

L’Italia soltanto? Inutile girarci attorno. Papa Francesco ha ragione da vendere: è già in atto, sia pure a pezzi e bocconi, mosaico da completare, il terzo conflitto mondiale. Con la virulenza di una pandemia si propaga una follia guerriera. Tutti Marcelli, quasi sempre con la pelle degli altri, in preda a foie belliciste. Tutti ansiosi di aumentare le spese militari. Al diavolo sanità, scuola, welfare. Italia, con la sua destra intellettualmente stracciona ed eticamente riottosa, in testa, malgrado il paese affoghi nel debito.

Trionfa quello che gli economisti definiscono keynesismo di guerra: bombe, missili, cannoni invadono i mercati e le nazioni. «Oltre 959 miliardi di dollari utilizzati dalle istituzioni finanziarie nel mondo per sostenere la produzione e il commercio di armi… Nel 2023 la spesa globale per la difesa è cresciuta del 9%, per raggiungere la cifra record di 2,2 trilioni di dollari» (Avvenire, 28 febbraio). Per la gioia lucrosa dei mercanti d’armi, o di morte, che è lo stesso.

Hegel ci rassicura: la Ragione, tra scossoni, stasi, marce indietro, con la sua infallibile astuzia dovrebbe portarci per mano, al di là delle nostre bizze egotistiche e delle nostre pulsioni sanguinarie, verso il regno della Libertà.  Altro che dabbenaggine.

Fin qui l’abbiamo trattata con monellesca irriverenza. Ma sta’ a vedere che, attraverso la celebrazione di Matteotti, astutamente contrapposto ai suoi carnefici e ai loro eredi, vuol farci arrivare un messaggio: io il mio lo faccio; ma, ragazzi, se davvero volete liberarvi di fascisti dal dna criminogeno, nazionalisti arrabbiati, guerrafondai irriducibili e politici conniventi, ed evitare magari di finire i vostri giorni a cavallo di un’atomica, come nel Dottor Stranamore, be’, dateve ‘na mossa.

Facebooktwitterlinkedin