Giuseppe Grattacaso
Su “Camillo Sbarbaro. Scrivere per vivere”

Luce su Sbarbaro

Francesco De Nicola dedica un ricco saggio (critico e biografico) a Camillo Sbarbaro, il poeta novecentesco che cercò nascondersi alla vita per far parlare solo le sue parole

In occasione della preparazione del Dizionario storico della letteratura italiana per conto della casa editrice Paravia, Giovanni Descalzo, che aveva il compito di redigere l’opera, si rivolse a Camillo Sbarbaro per avere più precise notizie sulla vita e sulle pubblicazioni dell’autore, oltre che sugli interventi critici più significativi che avevano riguardato la sua opera. La risposta del poeta, contenuta in una lettera datata 20 febbraio 1949, risulta per molti versi sorprendente, ma certamente è in linea con il personaggio, poco propenso all’esibizione di sé e dei propri meriti letterari. Sbarbaro tralasciò momenti biografici anche significativi, dichiarò di non ricordare le date di pubblicazione di alcuni suoi libri, e di non potere essere più preciso in merito non avendone a disposizione alcuna copia, e concluse con un post scriptum: «Scordavo ‒ imperdonabile dimenticanza ‒ che durante la guerra, sul finire, è uscito un libretto su di me a cura di Giacinto Spagnoletti. Io l’ho affrontato più volte prima di regalarlo a Servettaz, ma non ci ho capito nulla. E negli 8 o 7 studi di Bo, c’è un altro articolo su di me, del quale idem».

In questo suo modo sempre un poco reticente e sempre votato, con la limpida onestà dei poeti veri, a indagare nei luoghi più riposti dell’animo umano, Camillo Sbarbaro ha attraversato la letteratura italiana del Novecento quale presenza tra le più convincenti e rilevanti, a partire dal suo primo libro di versi, Resine, pubblicato nel 1911, e poi sostanzialmente rifiutato dallo stesso autore, e soprattutto da Pianissimo che vide la luce nel 1914 nelle edizioni de La Voce, una delle riviste di maggior peso dell’allora animato mondo delle lettere. Sbarbaro fu poi autore soprattutto di brevi prose poetiche, tra cui vanno ricordate in primo luogo quelle raccolte in Trucioli, che ebbe varie edizioni a cominciare dal volume pubblicato da Vallecchi nel 1920, e in Fuochi fatui, la cui prima pubblicazione risale al 1956. Fin dai titoli l’opera di Sbarbaro sembra volersi dichiarare marginale, non gridata (gli esordi, è bene ricordarlo, avvengono in piena epoca dannunziana), fatta di scampoli e rimanenze (sono i titoli di altre sue opere, la seconda delle quali è il terzo libro in versi, del 1955), quasi che nel poco, negli avanzi e nei ritagli della vita, nel piccolo e nel nascosto sia possibile intravedere una verità, e chissà forse anche una bellezza, che l’esposizione ostentata e compiaciuta finirebbero invece irrimediabilmente per deturpare.

La lettera a Descalzo è contenuta in Camillo Sbarbaro. Scrivere per vivere (Edizioni Ares, pagine 168, 15 Euro): il ritratto che Francesco De Nicola dedica all’autore di Pianissimo è un libro biografico ricco di informazioni che sono utili a porre in evidenza aspetti della personalità del poeta solitamente in ombra. È il caso per esempio della partecipazione di Sbarbaro al primo conflitto mondiale, che non lasciò traccia diretta nella sua opera a differenza di quanto accadde per Ungaretti: la partecipazione al conflitto avviene prima tra le fila della Croce Rossa in qualità di infermiere, quando il poeta si spese con grande dedizione per alleviare le pene dei feriti, e poi al fronte come ufficiale. De Nicola, italianista da sempre attento alle vicende letterarie del Novecento, in particolare dell’area ligure (è stato professore di letteratura italiana presso l’Università di Genova), ha curato tra l’altro recentemente, per le stesse Edizioni Ares La poesia è un respiro. Lettere a Giovanni De Scalzo, la raccolta delle lettere di Sbarbaro a Descalzo, scrittore e giornalista nativo di Sestri Levante, operaio, impiegato comunale, autodidatta, presenza significativa nella letteratura dei decenni centrali del secolo scorso.

Più conosciuto è il rapporto di amicizia e di stima che unì Sbarbaro a Eugenio Montale. A tale proposito De Nicola parla di “scarsa simpatia” da parte del futuro premio Nobel, che dedica comunque a Sbarbaro diversi articoli e note critiche, a partire dalle considerazioni su Trucioli, apparse sul quotidiano genovese L’Azione nel dicembre del 1920. Montale in effetti indirizza all’amico anche la breve sezione delle Poesie per Camillo Sbarbaro, contenuta in Ossi di seppia, che si compone dei versi di Caffè a Rapallo e Epigramma. L’incipit dell’Epigramma di sei versi è noto: “Sbarbaro, estroso fanciullo, piega versicolori / carte e ne trae navicelle che affida alla fanghiglia / mobile d’un rigagno”. È un’immagine che forse finirà per condizionare, attraverso la rappresentazione del fanciullo estroso, la nostra idea di Sbarbaro, ma che molto dice anche, con il ricorso al termine “versicolori”, alla “fanghiglia” e al “rigagno”, su tutto quello (e non è davvero poco) che la poesia di Montale deve a quella del fanciullo poeta conterraneo, di otto anni più anziano (Sbarbaro era nato a Santa Margherita Ligure nel 1888).

De Nicola ripercorre i momenti significativi della vicenda esistenziale di Sbarbaro, dal rapporto con il padre, protagonista di due famosissime poesie, ricorrenti nelle antologie scolastiche, al legame con i luoghi naturali dell’amata Liguria, al rapporto, inizialmente problematico poi sempre più intenso, con la città di Genova, al rifiuto di prendere la tessera del partito fascista che gli costò il posto di insegnante presso l’Istituto Arecco gestito dai Gesuiti, una delle scuole religiose più prestigiose del capoluogo ligure, alle tante e profonde amicizie, che si avevano per teatro spesso al caffè o in trattoria, al rapporto con le donne (va ricordata l’amicizia con Elena Vivante, la figlia di Adolfo de Bosis, ideatore e finanziatore dell’elegante rivista Convito, alla morte della quale Sbarbaro volle pubblicato il libretto Autoritratto (involontario) di Elena De Bosis Vivante da sue lettere).

Bisogna infine ricordare che Sbarbaro fu un insigne studioso di licheni, una vera autorità nel suo campo, tanto da intrattenere rapporti costanti con le più importanti fondazioni botaniche europee e i più attrezzati musei, che acquistarono a volte le sue raccolte. Anche questa venne ritenuta un’attività pericolosa da parte del governo fascista.

Francesco De Nicola segnala anche l’intensa opera di traduttore dal greco e dal francese per le più importanti case editrici, che consentì al poeta un minimo di tranquillità economica. In ogni caso Sbarbaro nutrì sempre, sottolinea De Nicola, un «senso di estraneità (…) rispetto al mondo letterario italiano, con i suoi critici e intellettuali di professione da lui per nulla considerati o frequentati ‒ a meno che non rientrassero nella sua ristretta cerchia di amici». Insomma Sbarbaro è «un uomo che scrive per sé e non per inseguire la fama».

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