Andrea Carraro
A proposito di "Contengo moltitudini"

Storia di un’amicizia

Filippo La Porta, in un piccolo, prezioso libro, racconta la vita dell'amico Franco Montesanti, traduttore, critico e poeta da non dimenticare

Se vi interessano le biografie di personaggi minori, Contengo moltitudini – La vera vita di Franco Montesanti (Amos edizioni) di Filippo La Porta è il libro che fa per voi: un libriccino denso di appena una sessantina di pagine, graficamente assai curato, collana UNICA diretta da Arnaldo Colasanti, che firma anche la postfazione; un ritratto partecipe, affettuoso, e un po’ in debito di colpa, per averlo trascurato nell’ultimo periodo della sua vita, ma mai agiografico, anzi moderatamente critico verso certe asperità caratteriali dell’amico-maestro, del sodale, verso le zone oscure e poco trattabili della sua personalità che emergono con chiarezza nella narrazione. Franco Montesanti – traduttore, critico, poeta, – è stato un’amicizia importante per La Porta lungo l’arco di più di un trentennio, dalla metà degli anni Settanta fino quasi alla morte avvenuta nel 2016 in una clinica a lunga degenza vicino Roma dove era ricoverato per i postumi di un ictus e dove intrattenne una relazione sentimentale con un’altra degente.

“Sono vasto, contengo moltitudini”: il celebre verso tratto da Foglie d’erba di Walt Whitman: il grande poeta americano che gli era caro, un epigramma, ch’era vero per lui “quasi alla lettera” – ci dice l’autore, per la sua natura molteplice, che ben si rispecchia nella sua produzione poetica, uscita quasi soltanto in rivista e in un’unica raccolta semiclandestina (Sismografie, 2003), che tuttavia non sfuggì all’attenzione della critica, una poesia che tendeva irresistibilmente al “prosciugamento verbale”, all’invettiva sarcastica e caricaturale, all’acrostico satirico, muovendosi fra “un’accidia vergognosamente montaliana” e “palinodie leopardiane” (Franco Cordelli, Giulio Ferroni).

C’era fra i due amici una sensibile differenza d’età: all’epoca in cui si conobbero, Franco era 35enne e Filippo ventitreenne, e in modo abbastanza naturale l’uno fu maestro dell’altro, pure per via della sua attitudine pedagogica e assistenziale (tipica del suo segno zodiacale, I Pesci: la Porta ricorre imprevedibilmente anche all’astrologia per tratteggiare il profilo dell’amico).

Grande conversatore, pure telefonico (faceva telefonate fluviali, fra gli altri, con Elsa Morante parlando dei musicisti più amati), tuttavia restava sempre un po’ in disparte nelle occasioni mondane, conviviali. Era un melomane, esperto di musica: e Filippo si fece rubare un disco – la quarta sinfonia di Mahler diretta da Bruno Walter, – che l’amico gli aveva generosamente dato in prestito e che lui si dimenticò con negligente trascuratezza sul sellino della vespa. Non so come la prese Franco, questo l’autore non lo dice, ma posso immaginare non in modo sereno. Di una precisione puntigliosa e maniacale nel lavoro – nelle traduzioni, suo privilegiato campo di azione; scrisse anche un importante saggio sull’argomento, Il silenzio del traduttore (1989). Ma lo era, intransigente, cavilloso, da quanto si evince, anche nelle altre attività a cui si dedicava, dai radio-documentari alla cucina, dall’agricoltura, gli ultimi anni, al fai-da-te. E ancora: instancabile flâneur urbano, grande camminatore (si fece da Monterotondo a Roma – 40 chilometri – in una mitica camminata notturna inseguito da un cane randagio!). In prima fila nelle manifestazioni libertarie, egualitarie, poi in quelle antiberlusconiane; marxista di formazione, ma anche anarcoide, epicureo, amante di tutto ciò che era liquido, scriveva a proposito dell’amato Henry Miller citando un brano famoso del Tropico del cancro in qualche sua recensione uscita su l’Avanti o sul Manifesto: ”Amo tutto ciò che scorre: fiume, fogne, lava , sperma, sangue, bile”.  E poi il mare… A Tor San Lorenzo d’estate gli piaceva fare uscite solitarie. Schivo, refrattario (una sua parola chiave) alla “visibilità” a tutti i costi – come colui che “desidera  apparire solo ad alcuni, a quelli che ama e da cui è amato, cioè gli unici che davvero possono darci realtà, e che certo non coincidono con le migliaia di “amicizie” su Fb.”

La loro “amicizia fraterna” si esaurì solo nell’ultimo periodo, quando lui si isolò da tutti (anche dagli altri amici-sodali (fra cui Berardinelli, Cordelli, Patrizia Cavalli ecc ) – dopo una estenuante e donchisciottesca causa legale contro la Garzanti per una traduzione di cui aveva sconfessato stizzosamente la revisione editoriale e che uscì lo stesso con il suo nome.  Vorrei concludere con un altro episodio paradigmatico, quasi una epifania del suo destino, quando i due amici andarono a vedere il lungo e Funny e Alexander di Bergman, provvisti di due panini farciti di ogni ben di dio (capperi, olive nere, alici ecc.) secondo una ricetta molto raffinata, che aveva preparato lui con cura, per “sfamarsi durante la proiezione”, nell’intervallo. Portava i due panini dentro la sua borsa di Tolfa, che a un certo punto, per un motivo o per l’altro, si rovesciò sul sedile inzuppandosi tutta d’olio d’oliva e insomma, rovinando tutto il lavoro che aveva fatto. “Era perfezionista e ogni perfezionismo nasconde una vocazione autodistruttiva: prendersi cura delle cose, eccessivamente e con maniacale puntigliosità, richiama segretamente la rovina”.

E lui la rovina finì per trovarla, nel suo isolamento vagamente recriminatorio verso gli amici, responsabili di non averlo supportato abbastanza nella battaglia legale contro la Garzanti. E tuttavia le poche volte che gli capitava di vederlo, “anche nei suoi momenti più misantropi e bui, mi regalava un meraviglioso sorriso, quel sorriso non è riuscito a spegnerlo nessuna disgrazia”.


La fotografia accanto al titolo è di Giuseppe Grattacaso.

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