Danilo Maestosi
Al Palazzo delle Esposizioni di Roma

Abitare Carla Accardi

Grande omaggio a Carla Accardi, protagonista dell'astrattismo del Secondo Novecento. Una mostra (quasi) monumentale riporta in primo piano le luci (la libertà creativa) e le ombre (la seduzione del "decoro") della grande artista

A cento anni dalla nascita e a dieci anni dalla morte, il Palaexpò di Roma rende omaggio a Carla Accardi (1924-2014), primadonna dell’arte astratta italiana, incoronata sulle maggiori ribalte internazionali, siciliana trapiantata a Roma dove ha attraversato da protagonista, testimone e bussola di confronto le alterne vicende della vita culturale e artistica della città. Lo fa con una mostra, in cartellone fino al 9 giugno, di solido impianto divulgativo, impronta che sempre più caratterizza la nuova direzione del padiglione espositivo di via Nazionale.

Cento opere, in prestito da collezionisti e musei. Mai insieme se n’erano viste e messe a confronto così tante. Disposte in ordine cronologico a inquadrare storicamente l’intero arco della sua lunga carriera. Scaglionate nella raggiera di sale del piano terra che esibisce già a colpo d’occhio le svolte che negli anni hanno segnato gli andirivieni della sua ispirazione e della sua biografia. E infine, dove è stato possibile, riproposte nella sequenza e nella collocazione che avevano sulle scene pubbliche e nelle gallerie più importanti dove sono apparse per la prima volta.

Un colpo d’ala d’allestimento, voluto dalle due curatrici, Daniela Lancioni e Paola Bonani, per sottolineare quanto fosse rigorosa ed esigente l’attenzione che Carla Accardi riservava allo spazio, al modo di sconfinarci e sfruttare l’aggiunta delle suggestioni.

E poi la pubblicazione di un corposo catalogo che, insieme ad una guida sala per sala, raccoglie un’ampia selezione di testi critici che hanno accompagnato, interpretato e sancito il ruolo di primattrice di Carla Accardi, e di interviste che ne registrano parole e pensieri in presa diretta. Per finire con un programma di incontri a cadenza settimanale che si propongono di ampliarne e aggiornarne la conoscenza.

Insomma una mostra che garantisce spettacolo e potrebbe riaccendere l’attenzione critica sul futuro della pittura, se il progetto così articolato riuscirà a superare due rischi che già lascia intravedere. Il primo, connaturato ad ogni celebrazione di calendario, in un periodo di confuse istanze culturali come questo, è che le cerimonia precipiti in un rito di beatificazione di un’eccellenza del made in Italy al femminile, senza aperture e senza prospettive. Il secondo è che, al meglio, il dibattito resti confinato nella prudenza autoreferenziale della piccola cerchia di addetti che ha imbastito di omissioni, spunti e contesti trascurati, travagli personali non soppesati, giudizi a ricalco, il copione di questa rivisitazione. Senza discostarsi dalle etichette con cui in un passato vicino – che la velocità dei tempi rende già remoto – la critica più accreditata, condizionata da scenari oggi del tutto mutati, aveva ingabbiato la vitalità creativa e anarchica di Carla Accardi. E accodarsi al sistema che governa la circolazione dell’arte, ne garantisce le quotazioni di notorietà e di mercato.

Difficile per un pubblico in transito, poco addestrato, scantonare da questa strada che sa di muffa e toglie il respiro. Forse può liberarlo, ma è un rimedio, una scorciatoia scivolosa, l’istinto emotivo del brutto e del bello, che ignora la Storia ma comunque segue il passo dei tempi: non c’è artista aperto alla sperimentazione come Carla Accardi che non abbia lasciato nel suo percorso opere meno riuscite.

Forse più utile ma più faticoso, perché rende indispensabile il ricorso al catalogo, seguire il corpo di istruzioni per l’uso che la stessa autrice ci ha consegnato con commenti e dichiarazioni con cui ha spiegato, fase per fase, il corredo di intenzioni con cui ha partorito le sue opere e i mutamenti ai quali le ha assoggettate.

Il criterio più ricorrente è la volontà di rendere abitabili le sue creazioni. Concepire in partenza le sue superfici di segni e colori, realizzate in infinite varianti, come specchi parlanti da appendere alle pareti, oggetti d ‘arredo destinati alle case di chi li acquista, senza alcun timore reverenziale di precipitare nel decoro, peccato mortale per molti colleghi pittori. O modellare e far debordare nello spazio le sue opere come architetture di sosta provvisoria e di riflessione.

La pittura che cerca futuro rinnegando, smentendo se stessa. Una sfida paradossale e affascinante come un gioco di prestigio che ti cattura e ti inganna con la sua piacevolezza, anche se il trucco è dichiarato. È la scommessa vincente con cui Carla Accardi ha tenuto alto il richiamo dell’astrazione e si è assicurata un posto d’onore nell’hit parade del secondo Novecento, e un brevetto di originale inventrice da trascinare nel salto di Millennio.

Ma è anche, a mio avviso, il suo limite. Perché ancorare concettualmente ogni scarto inventivo solo al campo d’indagine della pittura e del superamento dei suoi vincoli tradizionali, rischia di isolarla dal contatto più profondo con la realtà del suo tempo e delle sue pulsioni, chiudersi nel recinto di uno stile e di un sistema formale, perdere contatto col mondo. O comunque mantenerlo solo attraverso gli impulsi e le spinte, le analisi del piccolo universo di intellettuali e critici nei quali si riconosce e dal quale riceve attestati, ottiene in prestito bussole che segnalano rotte da seguire per continuare a sentirsi avanguardia.

Essere nel tempo delle cose che ti accadono dentro ed intorno, tenendo a bada, raggelando come esperienze complementari e inevitabili le proprie emozioni, come la Accardi stessa confessa di fare, rischia di chiudere l’arte in una prigione soffocante e sterile. Il movimento e l’invito a immergersi nel flusso della vita com’è, che si respira in molte sue opere non basta a segare le sbarre. Ogni tentativo di evasione la riporta di fronte alla stessa ossessione, la inchioda sempre ad affacciarsi alla piccola finestra artificiosa del quadro, del mestiere di dipingere che cerca ogni volta di smontare, indirizzare verso un altrove che nessuna formula, nessun calcolo matematico può davvero raggiungere.

Sfuma in questa rigidità d’approccio, spesso nascosta dalla piacevolezza dell’impianto e delle scelte formali, anche il progetto di rendere davvero abitabili le sue divagazioni cromatiche. Abitare è un criterio che io stesso suggerisco ad un visitatore qualunque per valutare un’opera d’arte, impadronirsene, interpretarne e riadattare alla nostra sensibilità i messaggi che ci trasmette. Bene, provate a farlo con le opere della Accardi raccolte in questa successione di sale. Magari cominciando dalle più grandi, o le più vivaci che a distanza sembrano case più aperte all’accesso.

Ecco, la mia prima impressione è di delusione, perché a varcarne la soglia ho avvertito che dentro mancava l’aria, che lo spazio era molto più stretto e scomodo, le pareti più incombenti e ravvicinate. Che insomma il vuoto promesso era solo un effetto spalmato di superficie, Come camminare dentro un’onda che non ti bagna.

Forse solo nella seconda sala ho trovato un ambiente più aperto e più ricco. È quella, datata seconda metà anni Cinquanta, quando Carla Accardi scopre la strada liberatoria del bianco e nero, chissà, forse un omaggio al cinema di Fellini che in piena era del technicolor aveva raccontato in grigio la Dolce vita. Un voltar pagina alla tavolozza e agli spigoli neocubisti che incantavano i ribelli del gruppo Forma in rivolta contro la schiavitù del realismo popolano imposta da Togliatti e Guttuso, che lancia Carla Accardi verso il successo. Le dischiude il trampolino di lancio di una mostra e ampia promozione a Parigi. Ecco, in alcuni di quei quadri, dettati da una logica capovolta di pennellate bianche su uno sfondo nero, in quell’alfabeto di segni e geroglifici che ancora non è codice stereotipato, ho trovato poltrone dove accomodarmi, finestre sul fuori, tende di ricami, spazi davvero abitabili, echi di una magia da cui distillare risonanze e pensieri.

Poi nelle sale successive, con l’irruzione del colore, l’esplodere della tavolozza, il dosaggio dei contrasti cromatici, l’ispessirsi dei segni a coprire ogni spazio, o il loro ingigantirsi in intrecci e onde più vistose, e infine con la sostituzione delle tele con fogli traslucidi di plastica che introducono volumi e trasparenze, l’incanto si disperde e la casa da abitare diventa più asettica, troppo ben dosata per metterti davvero a tuo agio. Il mondo le cambia attorno e si incattivisce, dalla ribellione del ‘68 agli Anni di Piombo, dal terrorismo alla stagione craxiana che gioca sul debito per elargire modernità, ma Carla Accardi sembra preoccuparsi soprattutto di imprimere nuove oscillazioni alla sua pittura e trovare nuovi referenti che accreditino il suo bisogno di reggere il passo, dallo strutturalismo che la guida all’inizio al pensiero debole, dalla battaglia contro l’arte di figura al corteggiamento dell’arte povera.

Solo dalla scuola americana e italiana del pop non cava nulla, lei ha già accettato da tempo di misurare l’arte sulla bilancia della merce. E ha trovato nella pulizia rarefatta del suo stile il suo marchio di fabbrica, il timbro con cui firma in modo inconfondibile i suoi esperimenti, Quasi tutti generati da prestiti non dichiarati.

Non è difficile risalire a Giulio Paolini, come fonte delle opere in cui si cimenta sul supporto della tela mettendolo in posa sotto strati di plastica. A volte con buon effetto per la cura della confezione, come in quella finestra capovolta, esposta qui in mostra, le ante spalancate sui riflessi di qualche segno che simula una fuga di rondini. Un’opera che realizza per una mostra in Belgio che invitava gli artisti ad arredare un salotto.

Più modesti gli esiti dell’esperimento qui registrato in un’altra sala: quello di usare come supporto pittorico e dare valore dunque di quadro alla cornice graffiata da sbaffi di colore. Tronfi e inguardabili i volumi dipinti a colori squillanti che ricava usando direttamente come lavagna e modulando in sagome di solidi euclidei i rotoli di sicofoil.

L’ultimo passo di questa arte ambientale – come viene battezzata – è un salto verso le tre dimensioni dell’architettura. È la stagione delle Tende, un modulo costruttivo che a me sembra ricalcare un sentiero tracciato con più rigore concettuale da Merz. Un copyright che i curatori della mostra non evidenziano e che Carla Accardi aggira con l’aggiunta dei suoi segni abituali, in un alfabeto più conciso.

Di tende, il censimento in catalogo ne registra solo tre. Quella più riuscita e intrigante è la Triplice esposta nell’atrio, come prologo e spettacolo conclusivo della retrospettiva. Un lavoro che arriva in prestito dal Centre Pompidou di Parigi. Un mini labirinto di tre corridoi intrecciati sotto un tetto alla beduina. A dare spettacolo è la trama di pennellate color sangue alle pareti, che la luce moltiplica di riflessi rosati.

Ma è uno spettacolo dimezzato. È una macchina di suggestioni da tramonto concepita per essere attraversata. Ma qui invece l’accesso è sbarrato, il labirinto di plastica è troppo fragile e delicato per reggere il peso e il logorio di una folla in transito.

Un copione incompiuto e dirottato. Un po’ come mi appare questa mostra. Nelle reticenze, nelle lacune che ne rendono incompleto il percorso. Visibili sin dal capitolo di partenza, quello riservato alla comunità di giovani artisti del gruppo Forma, di cui Carla Accardi ha fatto parte, come unica donna. Un’esperienza corale di scontro da cui come artisti sono nati. Perché non chiamare anche loro e le loro opere (almeno una) sulla scena, limitandosi a documentare solo la gestazione d’autrice di Carla Accardi, dai suoi primi quadri siciliani a quelli in cui cerca di mettere a fuoco una sua forma?

Perché non dare voce ai colleghi della figurazione, coevi e operanti qui a Roma, anche loro in modo diverso in rivolta contro gli stereotipi del realismo sociale? Ne cito ad esempio uno tra tanti: Ugo Attardi che fu uno dei padri fondatori di Forma, per poi votarsi poco dopo alle parole d’ordine della Nuova figurazione. Ragioni opposte ad altre ragioni di cui sarebbe necessario rileggere il tragitto. Perché la storia dell’arte non può essere scritta solo dai vincitori. E perché tra le avanguardie dell’astrazione, anche maestri allora decretati come vincitori, sono precipitati o stanno per precipitare a loro volta oggi nel purgatorio dei dimenticabili.

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