Gianni Cerasuolo
I cent'anni del giornale

Noi di Via dei Taurini

Viaggio (a ritroso nel tempo) a Via dei Taurini, a Roma, dove aveva sede il quotidiano "l'Unità" ai tempi del Pci: un microcosmo fatto di flipper, pizza e politica. E molta vita vissuta

Via dei Taurini, nel quartiere romano di San Lorenzo, è una linguetta di strada, saranno 150 metri, che da piazza dei Siculi porta a via dei Frentani. In mezzo emerge un’aiuola spartitraffico che non ha mai visto un filo d’erba perché è sempre stata un parcheggio con le automobili a fare da tagliaerba. Le massicce palazzine dei ferrovieri incombono sulla strada. Un tempo nei grandi cortili con le piante e i fiori si sentiva il vociare dei ragazzini. Ora regna il silenzio e i piani più bassi sono dei bunker con le grate alle finestre. I fabbricati tra via dei Dauni e via dei Taurini sono datati 1934. Altri sette palazzi scorrono lungo via dei Ramni, la perpendicolare di asfalto che attraversa piazza dei Siculi e arriva sotto le antiche mura, a due passi da Termini. Tirati su agli inizi degli anni Venti, avevano i lavatoi sotto i fabbricati: servirono da rifugio quando su San Lorenzo «cadevano bombe come neve». Lì si nascondeva anche gente della Resistenza. Erano case per il personale mentre dall’altro lato della piazza, e dietro via dei Taurini, vennero costruiti i villini per i dirigenti delle FS.

Al numero 19 di via dei Taurini c’era l’Unità. Dalla fine degli anni Cinquanta (1957) ai primi anni Novanta (1992): trentacinque anni che hanno visto crescere e poi declinare il giornale che quest’anno celebra i cento anni dalla nascita. Una storia politica e culturale unica, a volte esaltante, altre volte dolorosa, altre ancora drammatica. Una storia finita male, tra debiti e crisi politiche: un giornale scaricato dagli eredi del Pci, inghiottito dalla crisi della carta stampata.

Via dei Taurini è stata il simbolo di un’epoca, un mondo microscopico di vita popolare, di passioni e di lavoro. In quella strada hanno vissuto giornalisti e personaggi di negozi e botteghe. Sembrava il set di una commedia all’italiana, un copione per Monicelli o Risi, all’ombra del palazzone dalle grandi vetrate e dai mattoncini marroncini. Con la grande insegna verticale: l’Unità.

Metà anni Settanta, fine anni Ottanta. Quando uscivi dal giornale andavi “da Bruno”, il Piccolo Bar. Un locale lungo e stretto, il bancone schiacciato sulla parete, le vetrine con i tramezzini, i cornetti e i piatti preparati dalla mamma di Bruno. Uno street food in anticipo sullo street food. In verità, si andava lì, soprattutto per giocare a flipper. Il flipper era un totem, l’esercizio antistress, il record da battere, i bersagli da colpire con la biglia. A volte i bersagli o le buche prendevano le sembianze del collega antipatico, del dirigente di partito rompiballe. Generazioni di giornalisti sono cresciute attorno a quel cassone che dava dipendenza e che era stato messo in un angolino del bar tra la porta a vetri di via dei Taurini e l’altra di via dei Caudini. Si narra di un Veltroni ancora figicciotto, quando i giovani del Pci erano alloggiati nella Federazione romana in via dei Frentani: lui governava il flipper con freddezza compiacendosi dei successi della Juve. Veltroni sarebbe tornato molti anni dopo in via dei Taurini a dirigere il giornale. E sotto di lui poi il quotidiano si trasferì in via Due Macelli. Fu lì, tra piazza di Spagna e il Tritone, che i fattorini (gente che dava una grossa mano nel fare il giornale), gli tappezzarono la stanza della direzione con poster della Magica dopo una vittoria della Roma sulla Juve. Veltroni non si scompose e disse con disinvoltura: «Ora vado a farmi una passeggiata, tra dieci minuti torno e vorrei vedere la mia stanza ripulita…».

Con il flipper ci giocava anche D’Alema, tra i pochi direttori ad avere dimestichezza con l’aggeggio. A cui dava del tu anche Massimo Ghiara, che fu anche vicedirettore, sofisticato signore che nei corridoi del giornale recitava versi di Catullo o di Ovidio. Nel ranking dei migliori vanno messi Renzo Foa, Nando Adornato ante-Berlusconi e Vittorio Sermonti. Ma anche Mauro Montali, giovane tra i più scafati però troppo miope per primeggiare. E personaggi insospettabili come Fausto Ibba, giornalista poco noto ma sublime, uno dei migliori, il quale con la sua aria da monaco buddista sardo, magrissimo, timido e occhialuto trattava con severità il coso e mandava il sistema elettrico in tilt pigiando come un forsennato sui bordi e sui bottoni laterali con le dita ossute. Quando il cassone smetteva di luccicare e di suonare, Ibba lo insultava con epiteti sobri e non volgari. Piuttosto scarno di commenti invece Ugo Baduel, notista politico e poi narratore di Berlinguer: il bicchiere poggiato sul vetro inclinato, un sorso di qualcosa e una pallina da giocare.

Un altro frequentatore del flipper era Wladimiro Settimelli, il nostro caro zio, come scrisse Roberto Roscani. Wladimiro era un ragazzaccio toscano a metà tra Cecco Angiolieri e Benigni. Un uomo colto e allegro con la passione per la bella vita e per la fotografia (curatore, tra le altre cose, dell’Archivio Alinari). Studiava l’Islam quando nessuno parlava di Islam. A dire il vero, più che giocare al flipper, Wladimiro faceva una corte sfacciata alla signora del bar, Luciana, la moglie di Bruno, donna bella ed elegante. Trascorreva ore appoggiato alla vetrina della cassa, la sua barba che supplicava quasi, sussurrando frasi con la lingua di uno nato a due passi da Firenze. Poi, respinto, tornava in redazione e metteva giù in poco tempo un pezzo sulla fuga di Kappler dal Celio o sulla P2. Settimelli amava così tanto le burle e le zingarate che un giorno dovettero trattenerlo prima che la situazione precipitasse. Successe che un altro spirito allegro della redazione, Carlo Ciavoni, brillante cronista di nera, conoscitore come pochi della capitale e dei suoi abitanti, continuasse a dire ad alta voce in redazione tra lo sfottò e il provocatorio: «Ve dò cento sacchi se uno di voi bussa quasi a sfonnarla alla porta del direttore e glie grida: apri ’a fijo de ’na mignotta…». Lo diceva un giorno, lo ripeteva un altro. Una volta Wladimiro si fece avanti. Sorrideva e di fronte ad una piccola platea incredula arrivò a pochi passi dalla porta del direttore (Reichlin? Macaluso?) quando lo stesso Carlo, altri redattori e le ragazze della segreteria si precipitarono a fermarlo.

In quel budello di strada i negozi in verità erano pochi. C’era la parrucchiera, il fotografo Leoncini che lavorava con il giornale quando servivano foto particolari da stampare. Prima di lui, lì era aperta una profumeria e il passa parola postumo raccontava che la donna che vendeva i Dolce & Gabbana del tempo battesse in bellezza ogni concorrenza: da ragazza aveva fatto la maschera nei cinema. Più oltre c’era la legatoria gestita da un uomo che parlava poco, solo frasi essenziali. Anche lui faceva parte dell’indotto de l’Unità. Perché prima del digitale e delle pennette, il giornale si rilegava. Libroni pesanti che poi finivano alla resa. Stava, la resa, al termine di una piccola discesa, sulla sinistra, a fianco del palazzo del giornale. In quel sottoscala regnava Scuderini, un tipetto basso basso ma un piccolo Ercole: prendeva quintali di giornali senza accusare la fatica. Come l’altro, Di Marco. Privo di un braccio, Di Marco era capace di fare ogni cosa, ad esempio impacchettare i giornali con l’unico braccio a disposizione. Prima degli anni Settanta, quei locali erano il garage del giornale (in seguito spostato più avanti). Contenevano poche auto che servivano per il direttore, per portare un redattore sul posto dove era accaduto un fatto, per andare a Botteghe Oscure. Ma le vetture potevano anche trasformarsi in un taxi particolare. Perché – ricordavano i più anziani – il giornale non lasciava a piedi chi restava la notte a fare le ribattute e a controllare le varie edizioni. Con i magri stipendi e senza rimborsi-spesa, il taxi era un lusso. Quindi la macchina dell’Unità accompagnava il giornalista “notturno” fino a casa.

Gli autisti de l’Unità sono stati protagonisti di racconti tramandati ai posteri. I fratelli Papa – Sisto soprattutto, Urbano faceva il portiere dello stabile e qualche volta lo sostituiva –, Gastone Moretti, che rimpolpava la scarna busta paga lavorando cornici. O Beniamino che vedeva male e frenava solo all’ultimo istante, dopo che al passeggero gli era preso quasi un infarto. Quando Sisto accompagnava il cronista in periferia e vedeva qualche campo di nomadi cominciava ad arrabbiarsi tanto da sembrare un Salvini: «Ahò, dànno le case pure a loro, a me ancora me deveno da’ ’na casa…». Ma lo show di Sisto era alla partenza quando arrivava il fotografo, spesso Rodrigo Pais, autore di scatti che valevano un articolo. I due mettevano su un siparietto che faceva più o meno così: «Ahò, ’ndò annamo?». Pais nemmeno gli rispondeva e quello chiedeva altro: «E ’ndò magnamo?». E ancora, implacabile, prima di mettere in moto: «Te sei fatto dà i soldi?». Poi era gente che non si tirava mai indietro.

Nella strada c’era anche la lavanderia di Wilma. Donna dai capelli biondi, comunista, la tintora era una gran lavoratrice. Sapeva di essere una donna ammirata tanto che una volta, consegnando un vestito, disse: «Lo so che piaccio, che gli uomini mi guardano, quando passo io si voltano pure le statue…». Venne un periodo in cui aveva molto da fare con un giornalista che indossava soltanto camicie bianche. Viveva da solo e gliene portava tante ma lei non riusciva a stargli dietro: «Quanno me dispiace, porello» sospirava come una mamma. Una volta capitò un grosso problema con tre abiti di una giornalista che amava vestire bene: il lavaggio cambiò i colori dei tre capi. Di fronte alle rimostranze della cliente, lei, tranquilla, ribatté: «Ma non sei contenta di avere dei vestiti nuovi?…».

La lavanderia stava nel palazzo successivo al giornale. In quello stabile entrava ogni tanto uno dei maggiori esponenti socialisti ai tempi di Craxi, più volte ministro. Si diceva che l’uomo facesse visita a qualche signora proibita. Certo, la scorta stazionava frequentemente nella via. Era un po’ il palazzo dei misteri, quello lì. Dentro c’era una sede della massoneria con tanto di targa fuori ai lati dell’ingresso. Adesso la targhetta è stata rimossa, sono rimasti i quattro buchi e un’ombra scura sul muro.

Dopo il Piccolo Bar si trovava un meccanico/elettrauto cui si affidavano auto strausate, buone per lo sfascio, le nostre. Lui neanche le guardava ed emetteva la sentenza: «Nun se pò fà…». E se provavi ad insistere, arrivava, categorico, un «nòne». Invece, l’ometto con il basco si metteva di buzzo buono e faceva ripartire il catorcio. Vicino all’officina c’era una trattoriola un po’ triste, dove si andava raramente. Se si doveva fare un pranzo oppure una cena, se si avevano soldi da spendere, si preferiva Il Barrocciaio subito dopo piazza dei Siculi. Lì si finiva anche quando il capo del settore doveva dirti di una promozione, di una proposta di lavoro oppure doveva farti un cazziatone. Qualche volta si andava dal mitico Pommidoro un po’ più lontano, a piazza dei Sanniti, là dove Pasolini consumò la sua ultima cena prima di essere ucciso. Nella realtà di ogni giorno succedeva che, arrivati nei pressi della trattoria, si veniva risucchiati dall’odore della pizza a taglio che arrivava dal locale che stava dopo. Era – quel buco che a stento conteneva la pizzaiola molto in carne – un tempio, un santuario mariano dell’impasto che si raggiungeva con pellegrinaggi quotidiani di più fedeli, in particolare nel pomeriggio quando lo stomaco reclamava cibo. Spesso era pieno di avieri della vicina caserma Romagnoli, di funzionari della Federazione romana del Pci: si faceva la fila. Lei, simpatica e giunonica, ti accoglieva con questo slogan: «Calla calla». Era il suo spot, il suo mantra romanesco che ti conquistava: la pizza era calda, calda. Di tanto in tanto, il marito veniva a darle una mano. Ma era sempre imbronciato, così la signora perdeva il sorriso e le pizze non le venivano bene.

Quando l’Unità arrivò in via dei Taurini da via Quattro Novembre, il giornale offriva una mensa, che stava in cima al palazzo, là dove si sistemò anni dopo Paese Sera. Era una buona mensa, gestita da un cuoco emiliano, Bettalli, la cui moglie aveva il nome greco di Frine. Bettalli raccontava che una volta, stufo delle lamentele di uno dei fotografi del giornale, Aldo Rossi, un gigante chiamato il Cattivo, in realtà una pasta d’uomo, gli cucinò una cotoletta alla milanese, buonissima. Peccato che sotto l’impanatura, al posto della carne, ci fosse del cartone. Rossi non se ne accorse.

A quei tempi, alla fine degli anni Cinquanta e in buona parte dei Sessanta nel palazzo molto grigio c’era di tutto, persino un barbiere. Ma la vita dentro il giornale palpitava e si colorava di piaceri anche piccoli nonostante i travagli politici, le invasioni sovietiche, le scissioni, il Vietnam.

Così la leggenda narra che in piena notte la piccola stanza degli Spettacoli, la prima a sinistra nel lungo corridoio del secondo piano di via dei Taurini 19, diventasse un piccolo casinò. Chiuso il giornale, controllata ogni cosa, in un edificio ormai deserto, succedeva che in quel piccolo locale si dessero appuntamento in quattro, tutti giornalisti in gamba, alcuni destinati a grandi carriere anche fuori da l’Unità. I quattro dell’Ave Maria erano: Flavio Gasperini, Totò Di Mauro, Franco Scottoni e Marcello Del Bosco. Il gioco di carte era la Scala 40 pokerata. Una volta capitò al giornale, era quasi l’alba, il direttore Maurizio Ferrara, il padre di Giuliano. Era cacciatore e quando c’era una battuta di caccia si alzava presto. Quella volta passò dal giornale per recuperare qualcosa. Sentì parlare e aprì la porta. Rimase sorpreso e con fare severo disse: «Invece di giocare a carte, fareste meglio a ripassare i classici del marxismo…». Silenzio assoluto nella stanza piena di fumo e con qualche bicchiere ormai vuoto. Ad un certo punto, Di Mauro non si trattenne ed esplose con un «ma vaffa…». Ferrara restò di stucco ma non replicò e chiuse la porta.

Molti anni dopo a l’Unità si giravano anche film. Fu così che un cronista vide distendersi sulla propria scrivania Carol Alt, che faceva Marina Ripa di Meana nel film di Carlo Vanzina I miei primi 40 anni. Al giovinotto ci volle un po’ per riprendersi dalla visione.

Da un capo di via dei Taurini c’era un pensionato per studentesse frequentato da qualche giornalista. Alcune di quelle ragazze, dopo gli studi, hanno lavorato al quotidiano. Dall’altro capo, invece, verso piazza dei Siculi, sorgeva la palazzina delle Suore minime del suffragio. È ancora là. Un pensionato per anziani: Domus Dei, Porta Coeli era scritto sulla cappella. Nessuno mai attraversò quella porta. Né arrivarono mai nel palazzone gli Autonomi di via dei Volsci. Se l’avessero fatto, avrebbero trovato i tipografi ad accoglierli in modo un po’ ostile. E quando il giornale abbandonò la storica sede in quell’agosto del 1992 e si fece una festa sul terrazzo, qualcuno avvisò le suore che la sera sarebbero state disturbate da canti e balli. «Non vi preoccupate – fu la risposta di una suora – a noi dispiace che andiate via. Siamo stati molto bene in questi anni con voi vicino».

Così scorreva la vita attorno a l’Unità. Una comunità di giornalisti, a volte un po’ mattacchioni, con la passione per la politica.

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