Danilo Maestosi
Al Museo Bilotti di Roma

Uomini e animali

Manuel Felisi espone grandi immagini di animali e li confronta con la prepotenza degli uomini che aggrediscono la natura. Ma talvolta la denuncia scade in una sorta di gioco pubblicitario

Il colpo d’occhio è la prima carta vincente della personale, in corso fino al 21 aprile nel padiglione dell’Aranciera di villa Borghese a Roma, sede del museo Bilotti, con cui Manuel Felisi, 48 anni, milanese, un ultimo decennio di carriera sulla cresta dell’onda, punta a conquistare la vetta della popolarità e lo scettro da primattore più gettonato nella classifica dei nuovi talenti del made in Italy contemporaneo. Difficile sfuggire all’incanto spaesante e inedito che abbaglia il visitatore appena varca la soglia della prima sala. Che spettacolo da locandine di film per tutte le età quei pannelli a riquadri che sorreggono e scompongono le gigantografie a grandezza naturale dei più noti e applauditi esemplari della vita selvaggia. Ecco la chioma fulva e increspata, le zanne sporgenti di sua maestà re Leone, il dorso rugoso e l’occhio paludoso da nonno bonario di quell’elefante asiatico, il tappeto di strisce in bianco e nero che travestono d’esotismo liberty i garretti equini di quella zebra, il collo sottile e il passo svettante e molleggiato da indossatrice di quella giraffa, isolata sul fondo della passerella.

Che divertente associare a queste immagini imponenti il contrasto da miniature domestiche di qualche vezzoso animaletto da gabbia o da cortile; un topolino accanto al pachiderma, un pappagalletto accanto al felino. Che trionfo di colori vivaci nelle striature di pittura e negli innesti materici, nelle tracce di stampi che avvolgono i profili degli animali e debordano in un fondale di fioritura primaverile che scalda gli occhi e il cuore, sfruttando l’effetto speciale della luce del sole che irrompe dall’involucro di vetrate a nicchia del ninfeo seicentesco a moltiplicare i riflessi.

La seconda carta vincente è il gioco di numeri, che governa il titolo della mostra. 1:1, a sottolineare la scala calibrata sull’originale delle riproduzioni fotografiche. E ritorna ancora più illuminante in un riquadro geometrico a lettere cubitali appeso alla parete: 8 miliardi, la popolazione umana del pianeta. E nelle cifre in didascalia, a contare, specie per specie, gli esemplari che ancora circolano in vita. Dal milione di fenicotteri e pavoni, alle 200 mila zebre, dai 2 miliardi di topi e maiali, ai 350 mila gorilla, ai 18 mila rinoceronti, ai 26 mila orsi polari. Ma soprattutto la sproporzione tra gli esseri di quel bestiario e i campioni della specie uomo che, rivendicando il primato della ragione, ha sbaragliato il campo e assoggettato al suo dominio e ai suoi soprusi, molti alla sicura estinzione.

Un grido d’allarme e un invito a fermarsi tradotto in un linguaggio semplice e fondato su dati accertati che aggiunto allo charme dell’istallazione ne rafforza il messaggio. E offre a questa prova d’autore un morbido sconfinamento nel concettuale, territorio modaiolo e praticamente obbligato, per ottenere a che pratica il mestiere dell’arte una patente di contemporaneità.

Titolo di cui Manuel Infelisi non avrebbe bisogno, ma che l’artista lombardo si vede assegnare prima ancora di entrare in gara dal cartello di sponsor e di marchi doc che promuove l’operazione. E ne assicura a scatola chiusa il successo.

Si comincia dall’aeroporto di Fiumicino, dove due grandi opere di Infelisi sono esposte nell’atrio dei terminal per l’estero, dove resteranno fino a tempo indeterminato, a reclamizzare l’evento. Si continua con National Geografic, bibbia patinata dei viaggiatori da edicola, che ha offerto all’autore il serbatoio di diapositive dei suoi reportage e ha inviato sul posto un suo noto reporter, col compito di fabbricare insieme un’opera in omaggio dell’Orso della Marsica, vittima di spietate rappresaglie territoriali. E agli orsi trentini, vittime di un’odiosa mattanza.

E ancora, il prezioso contributo all’allestimento di Fabrizio Russo, ultimo titolare di una storica galleria del centro di Roma, che ha il merito di aver contribuito per primo a far conoscere in città le doti creative e la vocazione ambientalista di Manuel Infelisi con due riuscite mostre.

Per finire con la collaborazione del vicino Bioparco, che garantisce il supporto di un programma di reciproche visite guidate al giardino zoologico (a pagamento) e al museo Bilotti (a ingresso gratuito), due macchine culturali costose affamate di rilancio.

Ben venga la pubblicità, non se ne può fare a meno. Per creare interesse e attesa. Per allargare la platea dei visitatori. Ma nel campo dell’arte, che se ne serve a piene mani, costringe pubblico ed autori a camminare sul crinale scivoloso e d’incerti confini fra arte e mercato, libera ispirazione e convenienza, apparenza e sostanza.

Un campanello d’allarme che mi obbliga a ritornare sui miei passi nel valutare questa mostra e scoprire le ragioni del senso d’ insoddisfazione e d’incompiutezza che mi cresce dentro e diluisce, passando alle altre sale e alle altre opere in esposizione che ripetono tutte lo stesso modulo, la fascinazione accattivante del primo impatto che ho appena descritto.

La sensazione è che travolto dall’obbligo di confezionare un prodotto calibrato sulle esigenze dei suoi sostenitori Infelisi sia scivolato, forse senza accorgersene, dalla creatività dell’arte a quella simulata della pubblicità. Annacquando in una versione patinata d’alto consumo il messaggio che voleva lanciare.

Sorge il dubbio che il mondo animale rappresentato in modo così smart sia un universo afono e addomesticato, schiavo di una diversità che nei suoi pannelli non riusciamo a toccare, e a comprendere per quello che è. Proprio come ci accade al giardino zoologico, oggi trasformato in bioparco, con cui la mostra ha stabilito un patto di sinergia. Ma lì la vista degli animali, quelli almeno che parlano la lingua della foresta, ci trasmette disagio e domande.

Che tortura quelle gabbie, quei recinti che li imprigionano, che beffa quel cibo che si sono abituati a chiedere e ricevere dai visitatori. E poi l’odore di selvatico che comunque ci raggiunge, la sorpresa del leone che ogni tanto spazientito getta un ruggito e mostra le zanne, l’imbarazzo della scimmietta che si masturba e dei genitori che devono spiegare che stia facendo.

Bloccate in posa dal fermo immagine le bestie e le bestiole di Infelisi si vedono negare anche questo soffio di superstite vitalità. Neutralizzate persino dalle macchie di colori che, anche se ripetute con molte varianti, brillano sulla superficie smaltata come schizzi su una lastra di vetro infrangibile. Immobili e dunque incapaci di raccontarci le sofferenze che stanno subendo, i torti della specie umana, di tutti i tipi, dai bracconieri ai turisti, che li tiranneggia. Immersi in un eden di fantasia e fantasmagorie vegetali che non è certo la jungla impervia, la savana brulla da cui provengono.

Irreali e idealizzati anche gli animali che trattiamo senza gratitudine come cibo. Non è Natura quella con cui qui entriamo in contatto e che questa mostra ci invita a salvare, ma un suo simulacro da adorare per qualche istante e poi passar oltre per non avere brutti sogni, inacidire nei rimorsi.

Nella sua introduzione in catalogo, impreziosita da una illuminante citazione di Jung, uno dei padri della psicanalisi, di cui l’anima ben pettinata di questa mostra sembra tener poco conto, il curatore della mostra Gabriele Simongini evoca la metafora dell’Arca di Noe per quella sfilata di creature da salvare che l’autore ha dipinto.

Ma dov’è il diluvio, l’ansia del castigo imminente? Dov’è la pioggia che incalza questa spedizione di sopravvivenza, dov’è il fango, dov’è la paura degli animali stivati uno accanto all’altro, magari vicino al predatore che potrebbe sbranarli? Dov’è l’ansia di un marinaio che guida senza bussola una barca in un mare in tempesta?

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