Paola Benadusi Marzocca
“Il bambino di carta”

Le zone d’ombra di Winnie The Pooh

Marina Marazza ricostruisce l’origine del celebre orsetto di pezza creato da Alan A. Milne, ispirandosi ai giochi di suo figlio. Una prossimità tra realtà e finzione che non giovò al bambino, tanto da condizionarne non felicemente la vita adulta

Chi non conosce Winnie The Pooh l’orsetto con il muso accattivante e il cappello rosso in testa? Walt Disney ne ha decretato la sua fama a livello mondiale, ma non è una sua invenzione, come scrive Marina Marazza nel suo interessante romanzo Il bambino di carta – La storia del vero Christopher Robin e del suo Winnie the Pooh (Solferino, 312 pagine, 18,50 euro). In realtà il creatore dell’orso di pezza che ha conquistato il mondo era uno scrittore inglese degli anni Venti del secolo scorso poco conosciuto e Winnie The Pooh è stato disegnato in bianco e nero dall’abile pennino di un illustratore anch’esso non certo famoso che si chiamava Shepard. «Il bosco dei cento Acri era nei libri originali, l’oasi felice che la gente cercava dopo la batosta della prima guerra mondiale…». Raccontando fatti autentici attraverso una seria ricerca storica, dividendo le piccole cose dalle grandi, cercando la verità dietro le immagini più stereotipate con stile vivace e trascinante, la scrittrice fa rivivere la Londra di quell’epoca nella sua parte più inaccessibile ed elegante proprio attraverso la storia della famiglia di Alan A. Milne, lo scrittore che guardando suo figlio bambino e ispirandosi ai suoi giochi e alle sue fantasie decise di raccontarli in un libro per ragazzi.

Da qui le avventure di Christopher Robin ovvero “Winnie The Pooh” e la sua compagnia di animali di pelouche che nel giro di pochi anni diventeranno famosi non solo in Inghilterra. In primo piano quindi una famiglia dell’alta borghesia che viene travolta da un improvviso e redditizio successo. La vittima di tutto questo sarà proprio Christopher Robin, chiamato Billy in famiglia, che fin da piccolo verrà identificato con il personaggio inventato dal padre. Certo la sua infanzia è apparentemente favolosa, vive come un piccolo principe senza accorgersi se non da adolescente che sarebbe stato riconosciuto da tutti per le storie che avevano per protagonista Christopher Robin, ovvero l’orsetto divenuto famoso. Tutto questo segnerà per sempre la sua crescita e la sua personalità. Billy era un bel bambino biondo con i capelli troppo lunghi, come desiderava sua madre che avrebbe preferito una figlia e che soprattutto si preoccupava dell’aspetto esteriore delle cose, dei propri bisogni, ignorando il carattere e i desideri del figlio. Alan, il papà di Billy, era uno scrittore onesto, corretto, ma aveva un’indole sfuggente ed era completamente preso dal suo lavoro. Per il bambino il punto di riferimento era la tata Olive, premurosa e attenta, molto legata alla famiglia.

In quell’epoca l’infanzia non doveva essere un periodo dell’esistenza molto gioioso neppure per i figli dell’alta borghesia. Ai bambini, presi in considerazione solo in quanto futuri adulti, non veniva riconosciuta nessuna libertà di esprimersi come volevano. L’idea che potessero essere protagonisti di un mondo diverso da quello degli adulti, grazie anche alla loro capacità di vivere nella fantasia, era addirittura considerata eretica. L’immaginazione suscitava non poche apprensioni per la sua forza dirompente. Quello che si chiedeva ai bambini era una cieca obbedienza e la massima tranquillità. E Billy era un bambino tranquillo, incapace di gesti di ribellione se non quello di tagliarsi da solo i capelli con disappunto della madre. «Come ti senti a essere quel Christopher Robin?», chiese una giovane giornalista al bambino che accompagnava il padre alla presentazione del libro. Era una domanda imbarazzante che lasciò interdetto Billy e a cui, come sempre, rispose il padre Alan, sebbene un po’ sconcertato realizzando che nelle sue storie chi agiva era un bambino vero, per l’appunto suo figlio. Attraverso i suoi libri, dunque, condivideva la propria intimità familiare con il pubblico e ne rimase colpito, avvertendo una velata critica. Il suo humor stavolta non lo aiutò, rispose pacato che Christopher era «un bambino felice. Felice di chiamarsi Christopher Robin».

Più tardi a casa, durante la notte, Billy cominciò ad avere incubi. Sognava streghe che volevano divorarlo. Nella sua testa di bambino le immagini si sovrapponevano, si ampliavano, si mescolavano in una ridda infernale impedendogli di dormire. È certo quindi che se il mondo dell’orso Pooh entrerà nella storia della letteratura inglese, per Billy si trasformerà in una sorta di maledizione, da cui non riuscirà a sottrarsi. Sarà preso in giro dai compagni del collegio «lui e il suo orso scemo», e non troverà la forza di scoprire la propria natura e arrivare a se stesso che è il vero traguardo che conta. Un romanzo da leggere, che affronta tanti temi ancora oggi attuali, tra cui, come scrive il medico e psicoterapeuta Alberto Pellai, «il bullismo, la traumatizzazione legata all’esperienza della guerra, la fatica a rendere la famiglia un luogo che aiuta a crescere protetti, amati e sicuri, l’aspettativa con cui i genitori limitano il potenziale di vita di un figlio, chiedendogli di essere ciò che ci si aspetta che sia». Tutte opportunità per riflettere sui legami umani anche tra genitori e figli, sul rispetto fondamentale per aiutarli a diventare persone responsabili e in grado di apprendere la complessità della vita più rapidamente possibile.

Facebooktwitterlinkedin