Danilo Maestosi
Al Casino dei Principi di Villa Torlonia

Archeologia del futuro

Con una grande mostra roma rende omaggio a Giancarla Frare, schiva protagonista dell'arte di questi decenni. Nelle sue opere il rovello del tempo da ritrovare

Il Campidoglio rende omaggio a Giancarla Frare, pittrice e poetessa, ospitando nelle sale del Casino dei Principi di Villa Torlonia una retrospettiva, in cartellone fino a maggio, che ripercorre l’intero arco della sua prestigiosa carriera. Curriculum scaglionato in tre tappe e tre scenari diversi: la Campania e Napoli in cui si è formata, il Veneto di suo padre dove ha scoperto il suo talento grafico e trovato il primo trampolino di lancio, e da cui è fuggita per approdare a Roma, dove vive e lavora, casa e studio al quartiere Esquilino.

Un privilegio raro essere celebrata così, per i meriti acquisiti sul campo, con una passerella a ritroso con cui il sistema dell’arte in genere premia solo gli artisti scomparsi o incoronati da una popolarità da divi. Fama che Giancarla Frare, autrice in piena attività, la soglia dei settant’anni appena varcata, non ha mai ingiustamente raggiunto, penalizzata da un carattere schivo, dal rifiuto della mondanità e della frequentazione dei salotti che contano.

Un rigore di incessante ricerca espressiva che non insegue le chimere della moda. E rivendica la consacrazione della modernità. Per strade che sembrano in apparenza contraddirla. Un approccio alla forma e al mondo, originale e inconfondibile, costruito montando e smontando, interrogando con dolorosa coerenza e continui piccoli spostamenti di punti di osservazione e di fuga, relitti e macerie del passato.

Più della metà dei suoi lavori isola e mette in rilevo come cuore pulsante della composizione reperti e frammenti antichi. Può essere un capitello, un rocco di colonna, una lastra o una parete di pietra, una trave, un fregio, una scultura, una rampa di scale, un elemento decorativo di architetture secolari.

L’archeologia come miniera e spettacolo della memoria e del futuro. In cui si riversano e incidono traccia del loro passaggio reclamando significanza gli istanti le pulsioni, i palpiti segreti della vita umana. Come avanzare attraverso il linguaggio dei segni e dei colori in un eterno ritorno. Ogni lavoro una mappa, dettagliata e sfocata allo stesso tempo, di lingue perdute da decifrare.

Difficile districarsi nel labirinto di reliquie sottratte all’oblio di questa mostra, che a un visitatore estraneo alla platea addestrata, al passaparola di fans, alla quale Giancarla Frare deve successo e stima che l’accompagnano in ogni sua uscita pubblica, offre la sensazione, tra incanto e inganno spaesante, di un susseguirsi di visioni, snodi di sentieri che sembrano, almeno a uno sguardo distratto, assomigliarsi un po’ tutti.

Tutti paesaggi da interno, anche quando il dettaglio da monumento, su cui la visione fa perno, sembra esposto en plein air, c’è sempre una barriera che inchioda la vista: un muro, una recinzione, un fondale che precipita nel buio.

Conta poco che a distinguerli ci siano didascalie che li battezzano per cicli, aggiungano date precise per datarli, avvicinandoli o allontanandoli lungo le tappe della sua biografia. Conta poco che il percorso disegnato per accoglierli, sia riassunto da solo 40 opere, tutte su carta, e ancorato ad un tragitto cronologico da oggi a ieri. Conta poco che due siparietti video aggiungano informazioni, racconti di vita vissuta e un monologo dell’autrice, che si sofferma ad illustrare modo di operare e tradurre i vari progetti.

Forse più utile come bussola il titolo scelto per questa antologia: Abitare la distanza. Ci dice quali siano i pensieri e i riferimenti filosofici e culturali nei quali quei quadri trovino ancoraggio. E quanto forte sia la spinta concettuale che guida le colte invenzioni di Giancarla Frare, la sua ambizione ossessiva di misurare la durata della vita e della fantasia di noi uomini oltre l’apparenza effimera dei corpi, che appaiono di rado nel suo repertorio di pittrice, attraverso le impronte che di loro sopravvivono negli oggetti che li hanno accompagnati. Che sopravvivono soprattutto nei cimeli archeologici e architettonici che il passato ci consegna come un’eredità della specie.

Ma è un’introduzione razionale che non spiega il peso di un’altra componente essenziale del suo processo di artista: le vibrazioni inconsapevoli delle emozioni e dei ricordi personali che animano e, nella concitazione ingovernabile dei segni aggiunti di getto all’impianto, fanno parlare questi teatrini di memorie di pietra e di terra. Sono il sangue che scorre sotto la pelle e irrora di verità e di attualità la sua pittura. Dissipando quella nube di apparente uniformità che le sua scenografie ci trasmettono.

Il primo scomodo messaggio è un invito a scoprire quanto sia impalpabile, se si sfoglia il diario del tempo fino a raggiungere il mistero della morte, il confine che separa in natura organico e inorganico. È come se in ogni quadro Giancarla Frare ci ponesse in mano un fossile e ci obbligasse a ricordarci che quel giocattolo che si è fatto roccia un tempo era la valva di un mollusco, un essere vivente. Come se disseppellendo con i suoi segni una collina di terra mettesse a nudo gli strati geologici che le hanno dato forma e le contano gli anni, come le candeline su una torta contano i nostri.

Difficile a questo punto non interrogarci sulla necessità di abbandonare il sogno di supremazia dell’umano su ogni altra forma di vita, che certo ci ha regalato le conquiste del Rinascimento, ma ora minaccia di morte l’intero pianeta.

La seconda verità, non meno scomoda, a cui la pittura di Giancarla Frare ci pone di fronte, è che tragitto inesorabile e ambiguo della condizione umana, del mestiere di vivere come del mestiere creativo, sia l’alternarsi di soste e di fughe dalle prigioni che costruiamo, demoliamo e ricostruiamo come tane della nostra fragilità, della nostra fame di senso e di forma.

L’autrice ci impone e s’impone di abitarle queste prigioni in ogni suo lavoro. È il suo modo di esprimere la sete d’infinito, il suo modo di interrogarsi sullo spazio e sul tempo che segue una direzione opposta a quella immortalata da Giacomo Leopardi.

Se per il poeta di Urbino la siepe è l’ostacolo che accende e proietta l’immaginazione verso gli sterminati spazi, i vuoti, lo stupore, i silenzi d’aria che si aprono aldilà, per Giancarla Frare è il limite da indagare, il panorama a cui rubare visioni, suggestioni, domande, percorrendolo con lo sguardo e ridisegnandolo palmo a palmo.

Come confessa in un illuminante stralcio di una sua poesia, che ha voluto stampare su una parete tra il piano terra e il piano superiore del Casino dei Principi, sede e prigione di questa mostra: Meglio di un foglio / il grande muro / è un orizzonte che rimanga tale. / Semmai raggiunto/ è ancora altrove

Perché scegliere un carcere, forse ancor meglio un convento o una fortezza, come scena fissa e restarci per tutta la sua carriera? Perché è appunto la tana ideale alla quale l’ha indirizzata il suo carattere, la sua precocissima fede e diversità d’artista.

Il bisogno d’isolamento e raccoglimento che la Frare ritiene indispensabile per mettere a punto pensieri, riflessioni, progetti, la sua voglia di dire e dirsi nelle lingue fuori rotta della pittura e della scrittura. Da lì è nato il suo stile. L’attitudine a togliere e asciugare che segna tutte le svolte che lo rendono inconfondibile come un marchio di fabbrica. L’uso di inchiostri e pigmenti naturali e di una tavolozza ridotta all’osso. Il ricorso alla fotografia in bianco e nero, per giocar meglio con la luce e con l’ombra.

E poi a partire dagli anni ‘90 il servirsi di innesti di scatti per dare apparenza di oggettività e distante alle cose rubate dalla macchina, manovrate da processi manuali al momento della stampa.

Inserti ritagliati e incollati che usa in due modi. A volte per evidenziare in un biancore nebbioso il frammento o il dettaglio di marmo che ha messo in posa come un enigmatico trofeo. Altre invece per camuffarne la presenza incastonandolo in un cuscino di altri segni, chiose di scrittura pittorica con cui dà voce a se stessa, diventa parte del racconto.

Un io narrante che stenta a liberarsi dalla maschera del proprio pudore, usa l’inchiostro dello stesso riserbo con cui tratta il bisogno di evadere dal diario carcerario che continua a scrivere: nelle sue celle non ci sono sbarre, solo finestre troppo piccole, spiragli e squarci nei muri da cui irrompe come un fantasma il fiotto bianco di un fuori accecante e indistinto, l’arazzo di un lembo strappato di cielo.

No, l’immensità del cielo che pure è pozzo di infinite varianti non riesce ancora a rappresentarla. Ci prova in un paio di due lavori recenti. Ma ne vien fuori solo un celeste sciapo e uniforme, una lavagna che non la invoglia ancora a scriverci su. A infrangere quel patto di fedeltà amorosa che ha siglato coi marmi, i mattoni e la terra del castello normanno di Apice dove ha vissuto una felice stagione quand’era bambina, e quella rocca ancora un borgo abitato. E un palcoscenico di esperienze magiche, incontri, facce, presenze animali, disordine, dialetto che l’ha abbracciata e protetta. Lasciandole dentro l’impronta di una memoria indelebile, che ha riesumato a Roma in una incantevole mostra nel 2019, l’unica in cui abbia avvertito il bisogno di ricorre ad espliciti appunti figurativi.

Qui, villa Torlonia le ha riservato una bacheca e un filmato. Ma avrebbe meritato di più, perché da quei fogli e da quel video traspare il respiro di un’anima bambina che ancora si trascina appresso, ricca di imprevedibile futuro. Un futuro annunciato nelle ultime opere inedite da un trionfo di bianco che dilata i suoi corpi di pietra , spezza l’apparente immutabilità del limite e dei confini in un respiro di speranza e dolore.

 

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