Danilo Maestosi
A Palazzo Merulana di Roma

Enigma Donghi

Alla riscoperta di Antonio Donghi, maestro italiano del “realismo fantastico“ nella controversa stagione del "ritorno all'ordine" nel cuore del Novecento

Palazzo Merulana regala al pubblico della capitale un’altra chicca. Pescata nel campionario di gemme d’arte moderna della collezione Cerasi, la famiglia di imprenditori e mecenati che ha ristrutturato a riconvertito a museo e centro di promozione culturale questo palazzo in disarmo in via Merulana. È una mostra che rivisita la produzione di Antonio Donghi (1898-1963), romano doc, promosso dalla critica internazionale tra i grandi maestri del primo Novecento italiano. Tre suoi lavori della maturità arricchiscono e hanno segnato la storia della raccolta Cerasi. È un’occasione di ripasso che offre una chiave inedita per chiarire la svolta che lo ha portato al successo e rende inconfondibile, oltre la cerchia dei soliti addetti, il suo stile. Incoronandolo tra i pionieri del realismo magico.

Una definizione e una corrente artistica nata nella Germania in subbuglio, nel breve decennio di fermenti fuori copione della repubblica di Weimar, e trapiantata nell’Italia che stava per precipitare nella voragine della dittatura fascista, dove fece scuola e mise radici più durature, pervasive e profonde. Nel solco di quel ritorno all’ordine che contagiò tutta l’Europa, riemersa con le ossa rotte dagli orrori della prima guerra mondiale. Bandiera multiuso che prometteva alla borghesia dell’epoca prospettive di benessere e riparo contro l’onda montante della rivoluzione sociale. E al mondo dell’arte l’abbandono dei venti bellicosi, onnivori, dissacranti delle avanguardie di inizio secolo. Insieme alla riscoperta dei valori perduti della tradizione, della lezione dei grandi del passato, e del sostegno di una platea più ampia e coinvolta di committenti e ammiratori.

Tra i primi a sventolarla quella bandiera e a riscuotere il premio di quel cambio di rotta fu proprio Antonio Donghi. Con una conversione radicale e improvvisa che per lungo tempo neanche la critica più accreditata è riuscita a spiegare. Ingannata dal suo carattere schivo: nessun proclama pubblico, poche le tracce scritte che si è lasciato alle spalle, solo qualche intervista condita da una ritrosia d’ironia romanesca rubricata come lo sfogo d’un uomo arguto ma semplice e mal preparato. Lettura poco attenta ai suggerimenti della sua biografia. Un nonno ristoratore, un padre benestante venuto su dal nulla come commerciante di stoffe, una madre casalinga, una casa dietro piazza Colonna, che all’epoca era un quartiere semipopolare. Genitori che si separano condannando la sua adolescenza al distacco militaresco di un collegio. Studi che proseguono con un diploma d’Accademia senza voti strabilianti.

In ombra le frequentazioni che lo accompagnano dopo il diploma: il caffè Aragno, salotto degli artisti più in vista della Roma di allora, tra cui anche De Chirico, e poi la galleria Bragaglia, laboratorio dei futuristi e passerella di artisti di tutti i paesi, che si era da poco trasferita in via degli Avignonesi, a due passi dal suo studio. E invece è proprio qui che il curatore di questa mostra, Fabio Benzi, superesperto del primo Novecento, trova le piste più illuminanti per risolvere il caso Donghi. E per datare il miracolo che lo ha trasformato in autore di rango.

Uno scarto che si è consumato tra il 1922 e il 1923. Nello stesso tempio, la galleria Bragaglia. Una personale dalla quale Donghi rimane folgorato, che porta in scena l’esempio vincente di un collega italiano, Ubaldo Oppi, cresciuto nella culla della secessione viennese al culto di un ritorno alla figurazione umana, mondato dagli eccessi deformanti delle avanguardie e ammorbidito dalla seduzione ammaliante di ritratti scene, segni e colori rubati all’antico. E un’altra personale, la sua prima, che in pochi mesi porta anche lui in passerella, come modello osannato da seguire.

Il passaggio tra il prima e il dopo la cura segna a mio avviso la novità e il merito maggiore di questa mostra, affidato a un piccolo campionario di quadri, ordinati a raffronto in quella precisa scansione cronologica. Una distanza che balza subito agli occhi, senza il supporto di commenti.

A mio arbitrio, ne suggerisco due apparsi in quelle due antologiche, come unità di misura. Del primo Donghi ci parla uno scorcio di una fontana di villa Borghese, targata 1922, annegata in un turbinio di pennellate concitate e macchie quasi indistinte che precipita verso il rossiccio, allora molto di moda tra i tanti vedutisti di Roma. Nessuna vera pecca, ma nessuna originalità: il Donghi all’esordio è un pittore come tanti, che si confonde nel mucchio. Ed eccolo invece firmare nel ‘23 uno dei quadri più ammirati della sua prima grande prova d’esordio: Le Lavandaie (nella foto accanto). L’ombra è praticamente sparita, la figura della due massaie occupa lo spazio con la massiccia evidenza dei loro corpi piantati a terra, la gamma dei colori è morbida, la luce non genera riflessi, il tempo ha una densità sospesa in un dove che sa di destino. Risuonano gli echi da ritorno all’antico del Giotto degli Scrovegni, la rarefazione di Piero della Francesca, insomma la realtà e la magia. Il realismo magico appunto. Un marchio di fabbrica con cui la critica che conta lo battezza spianandogli la strada di altri riconoscimenti, altre passerelle internazionali da capofila della corrente. In più in quella tela, subito bissata da altre simili, un’aria di popolo mite, materno e operoso, in linea con l’aria dei tempi.

Occhio alle date. Il 1922 è l’anno della Marcia su Roma e del primo governo Mussolini. La borghesia che conta, anche quella Oltreoceano, spaventata dallo spettro di Lenin, gli si consegna con qualche esitazione ma cerca ancora di salvarsi l’anima e trova aiuto nell’arte: ben venga il realismo magico estraneo ai furori del futurismo, si può convivere anche con il popolino dei più poveri, linfa preziosa se è così ben addomesticato. Antonio Donghi deve averla pensata quasi così, anche se non lo dirà mai esplicitamente e cova magari dentro di sé i dubbi di una libertà a rischio. Per questo si iscrive al partito, senza alcuno spirito di militanza e ne incassa in silenzio benemerenze. Silenzio che sarà costretto a rompere nel ‘37, quando deve ringraziare l’appoggio che gli consegna finalmente una cattedra d’accademia cui ambiva da anni. Ecco dunque il suo ringraziamento prender forma in un ritratto del duce. Esposto senza spiegazioni e commenti ma in un posto d’onore, nella sala d’ingresso, quella riservata ai capolavori più noti, tra i quali sfigura. Mussolini effigiato come un nobile che visita a cavallo la sua tenuta di campagna, ma in divisa militare, la testa con su l’elmetto che sembra un fotomontaggio incollato. La magia dell’antico nella cavalcatura che monta, una citazione rubata a Giulio Romano, ci informa in catalogo il curatore, aggiungendo che quell’omaggio così impacciato non fu troppo gradito. Informazioni preziose che però non figurano in didascalia. Come le tante confinate nel saggio di presentazione, come i raffronti con le immagini dei tanti autori, da Raffaello a Vermeer, cui Donghi ha preso in prestito atmosfere e dettagli. Un peccato grave per una mostra non poter fare a meno di un catalogo.

Ma torniamo al Donghi degli Anni Venti. Un pittore che prosegue per la sua strada, riscuotendo applausi e benemerenze. Ha trovato finalmente attenzione e clienti, anche quando sforna quadri meno significativi e ambiziosi. Come i tanti paesaggi di quegli anni che arrivano in prestito per questa mostra con un inspiegabile veto di riproduzione. Paesaggi diversi da quelli che dipingeva all’inizio. Più concisi, asciugati, l’aria che non s’impenna mai, la natura e i rioni di Roma inquadrati a teatrino. Ma sullo stesso tema, tra i suoi compagni d’epoca della scuola romana, c’è chi ha fatto di meglio. Scendete al piano inferiore, fulcro della raccolta Cerasi, date un’occhiata ai Mafai, ai Trombadori, ai Francalancia, al Capogrossi di quegli stessi anni.

Antonio Donghi non è artista che scava troppo a fondo l’animo umano. Non attinge più di tanto alla filosofia, non può raggiungere né ricreare le vette metafisiche di De Chirico, gli algoritmi d’incastri e abissi simbolici di Casorati. Ma ha imparato a fermare e raccontare l’enigma del tempo da buon cronista del suo tempo. E continua ad aggiornare il diario della sua creatività con altre discipline più a portata di mano. Come il Teatro di Varietà, il Café Chantant. Il cinema, soprattutto il bianco e nero del muto, l’avvento del sonoro gli sembrerà una sciocca eresia. E specialmente il cinema tedesco, più rigoroso ed espressivo, a cui ruba tagli d’inquadrature, effetti di luce, la disposizione degli attori, gli attori che recitano con gli occhi senza gesticolare. Debiti d’autore di cui in questa volta non si dà conto. Un’occasione persa. Ancora una volta si deve ricorrere al saggio in catalogo di Angelica Cilli, che ne è forse il capitolo più nuovo e intrigante.

Un’attrezzatura visiva che Donghi comincia a trapiantare con continuità nei suoi quadri più noti e più belli. Tutte scene da interno, dove puoi piazzare le luci dove vuoi, e giocar meglio con le inquadrature ed il fermo immagine. Trasformare in teatro la cucina o il salotto di una casa borghese qualunque. Cavare pittura da artifici da costumista: li fabbrica lui stesso per accentuare il suo ruolo di mago. Guidare i personaggi che mette in posa verso una quasi totale assenza di recitazione. Come fa nei Piccoli saltimbanchi (accanto al titolo), uno dei capolavori, datato 1938, della collezione Cerasi. I due bambini dal volto cesellato, parlano con gli occhi, quasi sgranati che ti scavalcano puntati verso un orizzonte più in là. Dovrebbero esprimere gioia, indossano le maschere di un gioco. Eppure sembrano quasi spaventati. In attesa, come attori cui si deve assegnare una parte, che noi spettatori sappiamo già potrebbe risultare sgradita.

L’ordine della realtà e costruita su precipizi ed inganno, aveva insegnato Pirandello. Ma lui in quegli abissi ci era entrato. Donghi si ferma sulla soglia. È più rassicurante così.

Gli abitanti del suo realismo magico sono tutte figure in bilico. Come quel Giocoliere, altro noto capolavoro del 1936, ottenuto qui in prestito, che regge sulla punta di un sigaro il suo cilindro. Una mossa sbagliata e precipiterà, perché quella sfida non può durare, ripetersi a lungo. Donghi invece c’è rimasto inchiodato per altri venti anni. Un cimelio che ha continuato ad essere esibito su grandi ribalte e a ricevere premi, ma un artista fuori del tempo, isolato nel suo tempo, che non è stato il migliore dei tempi possibili.

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